«Ma ti dirò, io Lewandowski non l’ho nemmeno mai seguito troppo». Eppure, col 2023 arriviamo al decimo capitolo della mini-saga che Ernia ha dedicato al calciatore polacco. Ogni anno una release che, a colpi di rime, lo mette in ballo. «L’ho scoperto quasi per caso. Ero al bar, mi stavo guardando queste semifinale di Champions tra Borussia e Real Madrid e improvvisamente salta fuori questo, mai sentito prima, pure di una nazionalità di solito non storica per il calcio, che fa quattro gol. E chi cazzo è!? Non poteva non colpirmi. È come se qualche anno fa qualcuno avesse scoperto Haaland mentre era ancora al Salisburgo. Un norvegese? Che fa tutti questi gol? Stiamo scherzando? Da dove salta fuori?».
Lewa e Haaland non sono più un mistero, e nemmeno Ernia lo è: ormai, come ci raccontiamo nella nostra chiacchierata nata proprio per parlare del decimo capitolo lewandowskiano che regolare arriva pure quest’anno, lui ormai gioca nel campionato dei grandi. E lo sa. Tra calcio, politica e riflessioni sulla (propria) musica, viene fuori una intervista non scontata. Leggetela ora, ma rileggetela poi anche tra qualche settimana: quando si capirà se il milanista Ernia è uno che ci prende con le gufate calcistiche.
Non vuoi mollarla, questa saga di Lewandoswski.
Ma perché è stata fortunata. Quando uscì il primo episodio, mai avrei pensato nemmeno lontanamente che sarebbe durata così a lungo. Però, quando vedi che ogni volta l’accoglienza è super… Sai cosa? La grande fortuna è aver scelto un giocatore che non è per nulla divisivo. Da milanista, sarebbe stato più immediato prendere un giocatore della mia squadra come simbolo, no? Invece ho scelto uno che addirittura manco giocava in Italia. E che per tutto questo tempo non è manco mai andato vicino al giocarci.
Pensa se all’improvviso Robert Lewandowski dal Barcellona passa all’Inter…
Eh, capito? Sarebbe un gran problema… Se dovesse venire all’Inter, guarda, interrompo la saga, almeno finché lui non si trasferisce di nuovo in qualche altra squadra. Magari un trasferimento proprio via dall’Italia, come condizione necessaria. Perché anche andasse in un’altra squadra della serie A, pensa se poi segna al Milan: continuare a fare le canzoni su di lui sarebbe come spararmi su un piede (risate).
Parto da qui, e dalle risate calcistiche ci stiamo facendo, per arrivare ad un livello più serio della conversazione. Tu sei una persona sempre più matura, equilibrata e riflessiva, anno dopo anno; e mi sembra insomma che anche questa volontà di non essere divisivo faccia parte di una ricerca di equilibrio ben precisa…
Dipende. Un pezzo come Buonanotte, nell’ultimo album, pensavo sarebbe stato fortemente divisivo.
Sì?
Pensavo mi avrebbero attaccato parecchio.
Invece?
Invece, si vede che sono riuscito a trattarlo con una certa delicatezza, l’argomento…
Un argomento delicato: l’aborto.
Decisamente delicato. Ma alla fine quello che ho fatto è stato raccontare la mia esperienza: l’aborto era solo una cornice narrativa, in realtà. Però se mi capitasse di parlare di altri temi, beh, non credere che avrei paura di essere divisivo.
Tipo?
Qualche giorno fa ho visto sulla copertina di un settimanale ancora ‘sta roba della «ostituzione etnica che sarebbe in atto in Italia… Era raffigurata l’Italia con i volti che abitavano le varie regioni e vedevi solo africani, mediorientali, eccetera. Ecco: queste robe per me sono idiozie epocali. E non avrei problemi a dirlo pubblicamente.
Lo stai facendo ora.
È divisiva questa mia posizione? Probabilmente lo è, a vedere il risultato delle ultime elezioni. No? Per molti, sono io quello in minoranza a ritenere certe cose e certi allarmi delle totali idiozie. Ma non per questo cambio idea su come la vedo. Se una parte del pubblico non la pensa come me, non me ne faccio certo un problema.
Però ti direi che da un po’ di tempo a questa parte un po’ tutti i rapper, ma in realtà non solo i rapper ma proprio tutti i musicisti un minimo in vista, fanno proprio fatica ad esporsi politicamente: come se non volessero scontentare troppo il loro seguito o una parte di esso, come a voler evitare ogni forma possibile di contrasto coi fan.
Sì. Può essere. Guarda: lo vedo più nella mia generazione, e in tutti quelli che sono arrivati dopo di me. Perché quelli che hanno qualche anno in più, invece, non mi pare si facciano troppi problemi. Prendi Guè: ti sembra uno che ha paura di scontentare qualcuno o qualcosa?
In effetti.
Però sì: quelli della mia età e quelli che sono venuti dopo sono, come dire?, un po’ più levigati, un po’ più patinati…
Come mai secondo te?
È proprio una cosa generazionale. Dalla mia generazione in poi, si è perso interesse verso la politica: non interessa il fatto che sia qualcosa che potrebbe e dovrebbe essere patrimonio comune. Io per primo, sai? Quando vado a votare, mi dico più volte: in realtà, sto solo andando a scegliere chi avrà il diritto di mettermi le mani in tasca. Si è persa la voglia di seguire con convinzione un’ideologia, o anche solo un’idea. Già con la mia generazione; ancora di più, quelli più giovani.
Va recuperata, questa voglia?
Eh. Questa è una bella domanda. Perché se ti rispondo «Sì, va recuperata!», implicitamente è come se ti dicessi: era meglio prima. Ma era meglio prima veramente, chiedo? Sotto molti aspetti, no. Perché nella nostra storia, per colpa delle ideologie ci sono stati momenti molto bui, come ad esempio gli anni di piombo, oltre al fascismo. Ma parlando anche più al presente: ti posso dire che non mi sembra sia una cosa positiva pensare che si debba votare qualcosa o qualcuno per forza, per partito preso insomma. Se qualcuno fa un’affermazione, magari sarebbe più intelligente concentrarsi sul fatto se questa affermazione sia corretta o meno e non se chi l’ha fatta è di destra o di sinistra: pure chi mi sta sulle palle potrebbe venirsene fuori con qualche proposta sensata, non puoi escluderlo. Anche perché, diciamocelo: se sono diventati più patinati i giovani, come dicevo sopra, va anche detto che la stessa politica è diventata molto, molto patinata…
Cioè?
Nessuno è più niente, non c’è più un senso di appartenenza autentico, viscerale: manco loro, i politici, credono più davvero in qualcosa. Pensano solo ad ottenere consenso, punto. Sembrano più i direttori marketing di qualcosa. Sai quanto volte mi è successo recentemente di leggere qualche dichiarazione di un politico e di pensare subito: «Vabbé, ma questa stessa cosa la potevano dire anche i tuoi avversari»? Ultimamente mi erano capitate davanti delle dichiarazioni della Meloni e guarda, davvero sembrava stesse facendo il possibile per pescare voti anche dall’elettorato di sinistra. Esattamente come è capitato più volte di leggere dichiarazioni di gente in teoria di sinistra che, esplicitamente, strizzava l’occhio all’elettorato di destra.
Tu il consenso ce l’hai già, come musicista. E non hai più il problema di fare marketing su te stesso. Giusto?
Ho fatto quattro album. Ho fatto date nei palazzetti. L’ho fatto io, esattamente come lo hanno fatto altri miei amici e colleghi, più o meno della mia età: e sì, siamo entrati effettivamente nel campionato dei grandi. Non siamo più degli esordienti, delle potenziali belle speranze. Sopra di noi, nel rap italiano, ci sono solo le leggende: che fanno un campionato a sé. Chi sopravvivrà nel campionato dei grandi avrà la possibilità ad un certo punto di entrare fra le leggende. E lì, puoi fare tutto quello che vuoi. Nessuno può dirti più nulla.
L’ultimo album, Io non ho paura, è stato un grande sforzo produttivo e direi anche promozionale. È andato come ti aspettavi?
È andato esattamente come mi aspettavo. Ero e sono conscio che si tratta di un disco che non ha una super hit fatta e finita, come possono essere state nei lavori passati una Superclassico o una Ferma a guardare. E non rinnego quei pezzi lì, attenzione, anzi, sono felicissimo di averli scritti: perché hanno fatto da cavallo di Troia. L’ultimo album ha rappresentato il far uscire quello che c’era dentro ‘sto cavallo di Troia, perché intanto ero riuscito ad entrare negli ascolti di molti persone proprio grazie ai singoli più semplici, più accessibili fatti in precedenza. Questo è stato un processo molto importante. E lo si è visto coi concerti.
Cioè?
Sai, facile fare la gara dei record a chi ha più streaming, ma il vero gioco – quello che fa davvero la differenza e la consistenza di un artista – sta nei live. Poi, va detta un’altra cosa: pezzi come Superclassico mi hanno permesso di raggiungere un pubblico più ampio e meno settoriale. Sono uscito insomma dalla cerchia dei soli appassionati di rap, e questo specifico tipo di pubblico diciamo più generalista è più attento nell’ascoltare i testi, paradossalmente.
Pensi?
Sì. Perché gli ascoltatori più fissati su un genere, che di solito sono anche quelli più giovani, sono più che altro attenti a valutare quanto tu sia coerente rispetto al contenitore che ti è stato assegnato. Insomma: sono più attenti a quello che sembri, piuttosto che a quello che fai. Ma è normale sia così. Quando sei molto giovane, per te è importante sentire che stai facendo o ascoltando qualcosa di figo, qualcosa di cool. Inevitabile. Incuriosendo un pubblico più adulto e generalista, ho raggiunto anche chi mi ascolta senza porsi il problema se sia un rapper o meno, e quanto io sia rap o meno, quanto io sia rilevante all’interno di quella nicchia.
Non è che stai per seguire una traiettoria tipo quella di Rkomi?
Me l’hanno già fatto questa domanda, e la risposta è: no, non credo. La vedo molto dura. Chiaro, ci sono dei pezzi come appunto Superclassico che mi escono così, che sono pronti per essere più melodici, più canzoni, e questo perché appunto io non sono ossessionato dal dover dimostrare di essere un purista del rap, quindi queste cose me le concedo. Se mi viene spontaneamente di fare qualcosa di cantabile, perché no? Perché dovrei evitarlo? Ma se dovessi fare tutto un disco di canzoni, beh, lì è diverso: dovrei fare uno sforzo eccessivo. Soprattutto, perderei naturalezza. Perché il rap resta l’elemento a cui sento di appartenere, e che più mi fa sentire a mio agio. Quando creo, istintivamente creo prima di tutto sotto forma di rap. Dovermi invece mettere a costruire canzoni vere e proprie, confrontandomi con vari autori, con quello che mi scrive questo e quell’altro che mi scrive quest’altro ancora, sarebbe complicatissimo, estenuante. Sarebbe qualcosa che non ho proprio voglia di fare e di conseguenza nemmeno avrei il piacere, di farlo, nel momento in cui ci provo.
Bene. Passiamo alle cose serie. Champions League, semifinali: chi passa tra Milan ed Inter?
Cazzo, lo sapevo che me lo chiedevi.
Eh.
Non lo so. Guarda: ti dico Inter.
Sì?
Faccio questa gufata.
Te ne prendi la responsabilità.
Sai, l’1 aprile avevo suonato a Napoli e il giorno dopo, al Maradona, c’era Napoli-Milan di campionato. Bene: alla fine, invitato da DAZN, sono andato allo stadio e intervistato prima della partita ho detto: «Il Napoli oggi ci fa un mazzo così». Ma ero convinto, eh. Morale: abbiamo vinto 4-0.
Ecco.
Non puoi capire quanto se l’è presa Luché! Ha continuato a dirmi per giorni «L’hai fatto per gufare, ma vergognati, voi del nord siete mille volti più scaramantici di noi napoletani, che schifo…» (risate). E non è finita qui!
No?
Nella partita d’andata dei quarti di finale di Champions invece, sempre noi col Napoli, non sono andato a San Siro perché la sera stessa a Milano c’era Geolier che suonava. «Dai, vengo da te, non posso mancare» gli ho detto: mi aveva infatti chiesto di partecipare con un featuring in un pezzo del live. Quando arrivo nei camerini, Luché – c’era ovviamente anche lui – mi vede e fa, un po’ per scherzo un po’ non so: «Tu stai fuori, milanista maledetto. Qua sono sicuro che se entri, il Milan segna». Ridiamo, io ovviamente entro nei camerini. Ma dopo pochi minuti, altrettanto ovviamente, il Milan segna.
Disastro.
Non puoi capire cosa è successo. Sono stato cacciato da tutti i camerini dove c’erano dei napoletani, quella sera (risate), tutti… Me l’hanno proprio detto: «Fai il pezzo che devi fare, sul palco. Poi vedi di nasconderti lontano da qui…».
Prossima data tua a Napoli solo a campionato e Champions ferme.
Esatto!