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La seconda vita da re del soul di Paul Stanley: «Questa musica dà speranza»

Il musicista dei Kiss racconta il debutto dei Soul Station, la band con cui celebra i classici della Motown, e l’enorme concerto di Capodanno in piena pandemia: «È stato uno spasso, ma irripetibile»


Foto: Michael Tullberg/Getty Images

Qualche settimana fa, Paul Stanley ha inviato a Gene Simmons un messaggio con il link per ascoltare una vecchia canzone soul. Si intitola The 81 e il bassista dei Kiss si ostinava a dire che non esisteva affatto.

«Diceva che non c’erano pezzi con quel titolo. Certo che esiste, ho risposto, e gliel’ho mandato. Ha detto che gli ricordava Martha and the Vandellas», racconta Stanley, prima di ripercorrere la storia di The 81, della band che l’ha composta, i Candy and the Kisses, e di spiegare perché il paragone di Simmons è corretto. «Il brano parla di un ballo. Da quanto ho capito, lavoravano seguendo lo schema di In My Lonely Room, un brano proprio di Martha and the Vandellas».

Stanley è un’enciclopedia vivente del soul. Preservare e celebrare i classici di Temptations, Delfonics, Smokey Robinson e Miracles è diventata la sua missione. Lo fa in Now and Then, il debutto in studio della sua live band, i Soul Station. È un gruppo di 11 membri formato nel 2015 per suonare dal vivo, ma il cameratismo tra i musicisti ha convinto Stanley a organizzare una session di registrazione. Il risultato, uscito venerdì, è un disco con cinque inediti e otto cover in stile Motown, Philly sound e Memphis Soul come The Tracks of My Tears, Just My Imagination e Let’s Stay Together.

Stanley dice che Now and Then, così come le canzoni che ascoltava da ragazzino nelle radio del Queens, ha a che fare con gioia e ottimismo. «Ricordo la prima volta che ho sentito i Five Stairsteps fare O-o-h Child. Avevano una certa innocenza e trasmettevano la speranza che le cose sarebbero andate meglio. “Cammineremo nei raggi di un sole meraviglioso”, è così chiaro, semplice e onesto».

I Soul Station hanno debuttato al Roxy di Los Angeles nel 2015. In studio, però, siete entrati molti anni dopo. Come hai capito che era arrivato il momento? 


A un certo punto l’idea di non portare la band in studio ci è sembrata ridicola. Il gruppo è stellare, ma soprattutto, e non voglio essere smielato, amiamo stare insieme. È eccitante. Gioioso. E questa cosa finisce nella musica. Siamo di etnie diverse, nazionalità diverse, abbiamo storie musicali diverse. Ma ci siamo ritrovati grazie alla passione per questi brani, alla riverenza che proviamo suonandoli. Stiamo riportando in vita musica che sembra relegata ai campionamenti del rap. Non c’è niente di male, ma la gente ha bisogno di ascoltare queste canzoni.

Come hai scelto le cover? 


Volevo pezzi che suonati dal vivo riuscissero a unire la gente, a trasmettere un senso di comunità, una familiarità che li avrebbe riportati a un momento speciale del passato, o a connettersi con qualcuno. Volevo evitare gli urlatori, se mi permetti il termine. Non voglio minimizzare l’importanza di quelle voci, Dennis Edwards dei Temptations e Wilson Pickett erano grandiosi, ma volevo brani che avvicinassero le persone. Amavo l’eleganza degli arrangiamenti orchestrali dei brani che parlavano di relazioni. Non sono mai stato un fan della mascolinità esibita con i muscoli, credo che si possa essere mascolini anche mostrandosi vulnerabili, e quelle canzoni lo fanno splendidamente. Parlano di persone che non si vergognano di dire che provano nostalgia, che speravano di fare le cose diversamente.

Hai scritto e arrangiato tanto nuovo materiale per il disco. Ti mettevi al tavolo pensando: ecco, ora scrivo un pezzo della Motown?
Oh, no. Io scrivo per i Soul Station. Avevamo bisogno di qualcosa che portasse quella musica nel presente. Voglio una band con le radici piantate nel passato, ma non voglio esserne imprigionato. Non stiamo interpretando una parte. Non è un’imitazione. Non sono i Rich Little della Motown.

So che hai visto Otis Redding in concerto. Cosa ricordi? 


Era a Central Park. Avrò avuto 15 o 16 anni. Mi ha cambiato la vita. Ho avuto un’epifania. Otis era straordinario, aveva un gran controllo su quel che faceva. Ho visto anche Solomon Burke, quando era Brother Solomon Burke. La musica mi ha cambiato la vita, sia quando da bambino ascoltavo Beethoven o Puccini, sia quando andavo al Gaslight, nel Village, per vedere Dave Van Ronk, o gli Yardbirds con Jimmy Page. È sempre la stessa cosa. L’importante è che la musica ti colpisca a livello emotivo. Sentire Nessun Dorma mi ha fatto venire la pelle d’oca. Non capivo nulla del testo, ma quella musica aveva un grande effetto su di me.

Nei Soul Station c’è anche il batterista dei Kiss, Eric Singer. Perché lui? 


Non ho mai pensato a nessun altro, so che batterista è Eric. Ha un vocabolario musicale vasto, è preparato, capisce la parte tecnica della batteria, ma anche gli aspetti emotivi. È sbagliato etichettarlo con batterista hard rock. Ha radici diverse, ha suonato nelle big band con il padre, non è solo un batterista rock.


Il tuo amore per la musica soul ha influenzato i Kiss? 


Quando scrivi musica, usi una ricetta. Puoi improvvisare, ma tutta la musica è basata su certi ingredienti. A volte le proporzioni cambiano, a volte i risultati sono sorprendenti, è ciò che la rende unica. Pensa a Shout It Out Loud, è abbastanza chiaro: “La notte è iniziata e vuoi divertirti un po’ / Pensi che lo troverai? Lo troverai!”. Sono i Four Tops.

Intendi il botta e risposta tra le voci? 


Assolutamente. Ne eravamo perfettamente consapevoli. C’è una canzone dell’album Unmasked che si intitola What Makes the World Go Round. È sostanzialmente un pezzo degli Spinners, fatto in maniera diversa.

I Kiss hanno suonato – rispettando tutte le norme sanitarie – un concerto di Capodanno a Dubai. Cosa hai imparato dall’esperienza? Com’è suonare di fronte ai fan durante una pandemia? 


Era una situazione unica, tutti i protocolli sanitari erano rispettati, non è una cosa che puoi fare altrove. Abbiamo costruito un palco sul posto, non lo puoi portare in giro per il mondo. Ci sono volute 500 persone. E tutti facevano il tampone ogni giorno. Insomma, è stato uno spasso, ci ha dato la possibilità di ribadire cos’è che fa questa band.

Detto questo, le prospettive di tornare a suonare dal vivo nel prossimo futuro sono modeste. E non è giusto. Per noi e per tutte le altre band. I rischi per la salute, l’impossibilità di essere assicurati… chi assicurerebbe un promoter che deve mettere 10, 20, 100 mila persone spalla a spalla in un’arena? Non ci saranno mai città o Paesi che lo permetteranno. Ora sembra che si veda la luce in fondo al tunnel, ma manca ancora molto. Spero che i Soul Station possano tornare a suonare dal vivo, visto che fanno spettacoli più piccoli. Per capire questa band devi vederla su un palco.

Tu e Gene pensate che l’End of the Road Tour dei Kiss possa ripartire?
Assolutamente. Quando è arrivata la pandemia avevamo fatto 120 concerti e ci divertivamo un mondo. Purtroppo siamo arrivati alla conclusione che continuare a suonare in tour è impossibile. Non è fattibile. Se indossassimo jeans e magliette potremmo continuare fino a 90 anni, ma suoniamo con decine di chili di roba addosso. C’è il fattore età, il che rende tutto più reale per chi dubitava dell’idea che questo tour sarebbe stato l’ultimo, “the end of the road”.

Detto questo, il tour ci ha permesso di condividere con il pubblico tutto quello che abbiamo costruito insieme. Insomma, non sono concerti agrodolci. Sono dolci e basta. Ci sarà qualche lacrima? Certo. Ma dio, guardate cosa abbiamo avuto. E a giudicare da quello che dicono i fan, guardate cosa abbiamo dato. Non ci sono altre band così.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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