Tutti, ma proprio tutti almeno una volta nella vita abbiamo sentito, canticchiato o ballato una sua hit: da Gimme Love a The Summer Is Crazy fino a Happy. E che dire della svolta in italiano con un secondo posto a Sanremo 2002 con Dimmi come… cui è seguita, l’anno dopo, la vittoria con Per dire di no? Poi di Alexia si sono perse le tracce. Oggi non è più la stellina dance anni ’90 e di recente ha pubblicato il disco natalizio My Xmas.
Allora Alexia, com’è iniziato tutto?
Precocemente. Avevo dato prova di avere questo talento per gioco, mi coinvolgevano nelle feste di fine anno perché possedevo una voce potente ed ero intonata.
E poi?
Dissero a mia mamma che potevano esserci sviluppi interessanti. Era un gioco, andavo a scuola di canto fino a quando, a 16 anni, mi sono presa un periodo sabbatico, perché erano tutti piccolini intorno a me.
Quando hai ripreso?
Dopo la scuola ho cominciato a cantare in una cover band. Alla Bussola, in Versilia, ho incontrato il mio primo produttore, Roberto Zanetti, che ha visto in me un diamante grezzo. Così siamo partiti per questa avventura, dall’estero, per poi tornare in Italia.
Che facevi prima del successo?
Lavoravo tantissimo come corista in questo studio di Zanetti. E realizzavamo progetti che non ci convincevano al 100%, ma era per imparare a scrivere, per il Giappone. Eravamo consapevoli che non sarebbe successo niente di eclatante: era una palestra.
Poi è arrivato Ice MC…
Andava forte in Europa tranne che in Italia, fino a che non è uscita Think About the Way. È stata per me un’esperienza formativa, ero contenta e lì avevo, forse, trovato una strada. Non sono mai stata una aggressiva, non avevo la voglia di prendere il treno e tentare la fortuna a Roma o Milano.
Ah no?
Io stavo bene a casetta. E siccome Zanetti abitava a Massa Carrara, andavo lì in macchina e mi ero ritagliata uno spiraglio di futuro senza andare nelle grandi città che mi spaventavano. Per fortuna poi sono cambiata. Ice MC voleva una cantante vera nei suoi tour e Zanetti si è reso conto che potevo essere una solista. Uscì il mio primo singolo Me and You e da lì è storia…
Cosa ricordi del periodo dance anni ’90?
Finalmente avevo un singolo mio, ma l’artista era Ice MC e dovevo rispettare le sue volontà: in un tour mondiale ci sono dinamiche delicate…
Tipo?
Viaggi, orari, precisione. Io ero sempre in orario e Ian (vero nome di Ice MC, nda) a volte tardava un pochino e c’era sempre il terrore di perdere l’aereo, un po’ di patemi me li faceva passare.
Invece tu com’eri?
Molto severa con me stessa e con gli altri. Una rompiballe micidiale. E quando sono arrivati i soldi importanti mi sono tolta delle soddisfazioni e mi sono presa cura della mia famiglia che non navigava nell’oro.
Qual è stata la cosa più brutta di quel periodo?
La solitudine. Oggi penso che avevo un coraggio da leone, mi sono buttata, affrontavo tutto da sola: rivedendo il percorso tanti momenti solitari li ho avuti affrontati con grande pragmatismo. Era il mio destino e lo sfidavo. Non era tutto meravigliosamente luccicoso.
Come prese Ice MC la tua carriera solista?
Ha deciso lui di andare via dall’etichetta, mettersi in proprio e lavorare di più con un team inglese. Io ero davanti a un bivio: restare con Zanetti o andare con Ian. Sono restata con Zanetti perché mi sembrava più con i piedi per terra.
E Ian?
Non la prese bene, ma poi ha capito. Ci siamo rivisti in diversi festival e a Ibiza abbiamo anche cantato insieme sul palco.
Qual è stata la difficoltà maggiore della tua carriera solista?
Quando ho chiuso con la Sony perché si era rotto un incantesimo. Stare lì sarebbe stata una minestrina riscaldata, ma mi sono sentita come se mi avessero buttato di casa i genitori e mi avessero detto: «Ora arrangiati, sono cavoli tuoi».
Addirittura!
Mi affeziono molto ai miei collaboratori, è un grande difetto che ho. Non avendo possibilità di coltivare amicizie quando si è in giro per il mondo, ero arrivata ad avere difficoltà a non vedere le persone con cui mi relazionavo fino al giorno prima, scambiare due parole con chi aveva condiviso pezzi di vita con me.
Cosa hai capito da questa storia?
Che non era giusto: ho peccato di ingenuità e ancora oggi devo fare uno sforzo incredibile perché mi affeziono molto e sto cercando di coltivare amicizie con cui prendere un caffè, sparare due cazzate, ma senza risvolti lavorativi. Sono tutti processi che ho dovuto acquisire soffrendo tanto. È stata dura, ma ci sto riuscendo.
Perché hai rotto con Sony?
Nel momento in cui mancavano le idee volevo seguire la mia vocazione, capire la mia voce cosa poteva esprimere, mi piacciono il blues e il soul. All’inizio avevamo fatto un percorso interessante, credevo mi avrebbero dato una mano per valorizzarmi. Invece è stato come se a un centravanti di una squadra avessero chiesto a un certo punto di fare il portiere.
E a te che hanno chiesto?
Di provare a cantare generi musicali o scrivere con autori che non rientravano nel mio immaginario. Ma non sto accusando nessuno, probabilmente non ero pronta a sperimentare e non c’era volontà di insistere, di fare un tentativo, cercando di farmi ragionare. Loro non hanno teso la mano verso di me e probabilmente chi faceva le mie veci non ha aiutato.
Cioè?
Non avevo rapporti diretti, insomma, un gran casino. Oggi se ho qualcosa da dire preferisco dirla direttamente, anche se c’è il mio agente.
Quando hai mollato la Sony?
Nel 2006. Avevo già vinto Sanremo, mi ero sposata, avevo già fatto cose importanti.
Com’è stata la vita senza major?
Ero abbastanza disorientata: non avevo idea di chi fossi come persona, avevo lavorato così tanto dagli anni ’90. Non mi sono mai fermata e avevo bisogni di capire chi ero. Ho sperimentato con vari producer, ho aperto un’etichetta mia cercando di fare quello che fanno un po’ tutti.
Sarebbe a dire?
Pubblicare, uscire, fare e soffrire.
Sì, eh?
Senza major, senza spalle coperte, sei l’ultima a essere presa in considerazione. E in questa condizione siamo tantissimi, con pochi posti in radio e tv. Ho cercato di stare bene così. Non mi mancano il prime time, la tv e la radio, anche se un domani potrebbero tornare. Ho un’età in cui vedo il lavoro in un’altra prospettiva.
Quale?
Cerco di fare quello che mi piace: cantare.
Non è frustrante essere rifiutata da radio e tv?
Certo, perché nasconderlo. C’è la frustrazione, però te la tieni: pensi che il tuo pezzo è più bello di quello là, poi magari ti presenti a Sanremo e vedi che scelgono altri pezzi.
Come te lo spieghi?
Sanremo è un programma tv e deve rispettare certi criteri. E poi tocca a te far sapere che esisti. Ho voglia di far sapere che esisto? Di bussare alle porte? Boh, non lo so.
L’ultima volta che hai presentato un pezzo a Sanremo?
Non lo ricordo, ma so che il mio entourage ogni anno lo propone. Io non lo voglio più sapere. Mi hanno presentato anche quest’anno. Hanno diversi brani, ma non so quale hanno proposto.
Ti aspettavi di vincere con Dimmi come…?
No no, assolutamente. La prima volta al festival i musicisti mi dicevano che ero data per quinta e io ero già super contenta. Tra l’altro credevo di gareggiare nelle nuove proposte, quando ho saputo che ero nei big ho pensato che fossero dei pazzi.
Però un po’ di battage te lo aspettavi, su…
Sapevo che avrei sparigliato le carte: Dimmi come… era un pezzo non sanremese ed ero certa mi sarei molto divertita. Nessuno si aspettava una canzone così, ma una cosa più commercialotta. Invece è andato tutto oltre le mie più rosee aspettative.
Le persone più carine del festival?
Tutti. Solo un giornalista mi disse «ahò, c’hai un look terribile». Sarei curiosa di sapere che pensa di alcuni cantanti di oggi che hanno look tremendi, ma è il giudizio di una signora di mezza età.
Baudo ti volle fortemente.
Sì, anche non conoscevo tutte le dinamiche: vivevo nel mio mondo, mi tenevano in una campana di vetro perché, per la stanchezza, ero molto emotiva e fragile.
Stanca di cosa?
Non dicevo mai di no, e facevo male a me stessa permettendo agli altri di approfittare della mia forza. Non so se mi voleva Baudo, se ha spinto la major o semplicemente era bello il pezzo. Io sono salita su quel palco e ho cercato di fare del mio meglio.
L’ultimo festival?
Con Mario Lavezzi e la canzone Biancaneve, il festival lo conduceva Bonolis. È stata una bella esperienza. Lì ci sono andata da mamma per la prima volta.
Torniamo agli anni ’90. Nel mondo dance c’era rivalità?
Ma sì, certo. I rivali erano quelli che mi buttavano giù dal podio tipo Molella, ma era una rivalità sportiva. Eravamo dei team italiani che lavoravano in gruppo e facevano i numeri all’estero. Era una sana competizione: c’erano voglia di lavorare, i soldi, il benessere, non ci rendevamo conto di quello che avevamo in mano.
E…?
Abbiamo perso tutto perché abbiamo gestito male le cose. Oggi penso che eravamo pazzi. Facevo viaggi in business per fare tv, dormivo in hotel pazzeschi, c’erano grandissimi sprechi di denaro che nemmeno le grandi aziende si potevano immaginare.
Ma torniamo alla sana competizione nel mondo dance.
Ci faceva venire voglia di fare album nuovi. Poi con Zanetti abbiamo messo in piedi progetti con derive pop e siamo arrivati in Inghilterra, oltre che in Europa e in America Latina.
Quali pezzi hanno funzionato nel Regno Unito?
Uh La La La e Gimme Love. Sono andata addirittura a Top of the Pops. In Europa promuovevo le hit del 1999, in Inghilterra quelle del 1997, ma con il sound del ‘99.
Sei ancora famosa all’estero?
Ho ancora tour, Covid permettendo. Sono stata ferma due anni perché mi sono spaventata moltissimo e mi sono presa un periodo sabbatico. Non facevo live all’estero. Anche se mi dicevano che c’erano date, facevo notare che era tutto chiuso, che c’erano morti. E in Italia siamo stati tra quelli che si sono comportati meglio col lockdown. Quindi ritorno con dei concerti, ma con moderazione.
Sei anche un’icona gay.
Sì e mi fa molto piacere, è motivo d’orgoglio personale. Sento un affetto e una spinta verso quello che ho fatto e ho rappresentato, anche grazie all’aiuto che ho dato a molte persone che si dovevano confrontare con la propria famiglia per un argomento non così leggero. Nei momenti di difficoltà, quando ho volto rimettermi in gioco, sono ripartita proprio dai locali e i club gay. Non posso dimenticare il Pride a Milano, in Piazza Oberdan, a giugno 2017. È stato un evento bellissimo. Pazzesco.
Non hai mai fatto dei reality.
Ho fatto Star in the Star e non altri reality.
Perché?
Non ho tempi televisivi, non mi so vendere, mi mancano le risposte pronte, non ho quella forma mentis. Voglio solo cantare. Sarei inutile.
La giurata di un talent la faresti?
Il giudice lo farei, però… in realtà non so… se poi tagliano e mettono cose che piacciono a loro e non a me? Sarei in difficoltà. Preferisco farlo a telecamere spente, anche se non amo fare il giudice.
E perché hai scelto Star in the Star?
Era un esperimento: dovevo fare bene, ma non ci ho messo la faccia.
Il personaggio che interpretavi, Michael Jackson, l’hai scelto tu o te l’hanno dato loro?
Me lo hanno dato loro.
Vi hanno fatto pesare il flop di ascolti?
No. Non so perché non abbia funzionato, non sono un’analista della tv e sinceramente non ho neanche approfondito. Il mio scopo era dare il meglio. Non ho vinto perché mi mancavano 20 cm e 30 anni di ballo.
Eri una delle regine del Festivalbar. Non sarebbe bello tornasse?
È un peccato non ci sia più, secondo me qualcosa di simile dovrebbe tornare. C’è bisogno di un programma così, capace di unire un po’ tutti, come Sanremo. Oggi magari non ci sono i pezzi dance, ma potrebbe essere interessante mettere insieme vecchie e nuove generazioni abbracciando tutti gli ascoltatori, dai genitori ai figli. Sarebbe bello che Rai o Mediaset facessero una cosa fatta bene con bravi conduttori. Scelta non facile perché al Festivalbar prendevano dj dalle radio, volti interessanti. Oggi quando vedo un format simile non conosco nessuno. Anche se io la tv la vedo pochissimo. La musica in tv bisogna farla funzionare perché è cultura.
Delle nuove leve chi ti piace?
Non sono preparata (ride). Allora, Harry Styles, The Weeknd e ho una passione smodata per John Mayer…
E di italiani?
Ghali e Salmo.
Arriviamo a My Xmas, un disco natalizio, con canzoni non (troppo) mainsteam…
Ho fatto una ricerca. L’album è allegro e ci sono ritorni alle origini, al blues, al soul, volevo ripartire con qualcosa di leggero nell’animo. In questi momenti di grandissima crisi bisogna mantenere alto lo spirito e in questo disco lo spirito a mille. Voglio che la gente dica «oh cazzo, finalmente!». Non ci sono le canzoni tradizionalone, ma soprattutto pezzi natalizi cantati da uomini come Christmas Is All around, What Christmas Means to Me, mix delle versioni di Stevie Wonder e Paul Young, e Have Yourself a Merry Little Christmas alla Judy Garland, piano e voce, unica nota un po’ classica. Luca Serpenti, produttore giovane, ha messo in piedi una struttura musicale molto basic con un grand tiro. E il lavoro sporco l’ho fatto io con canto e cori. C’è anche un omaggio a Amy Winehouse, che ho amato tantissimo, con I Saw Mummy Kissing Santa Claus.
Chi è oggi Alexia?
Quella che avrei voluto essere da sempre: una persona che si vuole bene ed è sempre disciplinata, attenta e rispettosa verso gli altri e verso sé stessa, finalmente. Riconosco i miei strumenti e i miei limiti. Ho le idee più chiare sul mio passato, ma non rimpiango più nulla e non ho rimorsi.
Neanche un grande rimpianto?
Non aver capito le mie potenzialità come persona. E aver perso delle possibilità per via dei rapporti con la gente. Avevo paura degli altri. Ora sono più accogliente, quella che fa per prima il passo.
L’ultima volta che hai fatto il primo passo?
La settimana scorsa ho incontrato Amadeus per strada, sono andata da lui e mi ha riconosciuto.
Eh, certo.
Be’, io prima mi sentivo famosa per la gente, non per i miei colleghi. Che se vuoi era da psicoanalizzare. Quando ero in promozione per Gimme Love sono venuta in Italia per un programma su Italia 1 con la Panicucci. Vicino al mio camerino c’era Irene Grandi che fa «oh c’è Alexia!» e io mi sono sentita morire. Ho pensato: «Ma allora mi conosce».
Ma torniamo su Amadeus: gli hai detto che c’è una canzone per Sanremo?
Sì, gliel’ho detto.
E lui?
È una persona estremamente carina, garbata, educata e cordiale. Gli ho detto che c’era anche un mio brano da ascoltare tra le canzoni candidate al festival. Lui mi ha risposto: «Ma certo, ci mancherebbe altro!». Non poteva dire il contrario, ma va bene uguale