La solitudine di Florence
«Con ‘High as Hope’ ho capito come essere creativa anche senza il caos». La cantante di Florence + the Machine si racconta
Foto di Kimberley Ross
È la vigilia della partenza del tour americano e Florence Welch è a Vancouver alla ricerca di un modo per sfruttare al massimo il poco tempo libero a disposizione. È curioso, ma ha dedicato tutta la mattinata a visitare una mostra di baite e capanni. «Sono cresciuta con un feticismo per La casa nella prateria», spiega dopo una risata imbarazzata. «Ero ossessionata. Abitavo a South London, dove non c’erano certo praterie. Indossavo il mio piccolo abito, stendevo un “fiume” di asciugamani e il letto era la mia capanna di legno. Mia madre diceva… “Ma che stai combinando?”». Ride ancora.
Conversando Florence Welch è molto più spensierata che nelle sue canzoni. I testi dell’ultimo album di Florence + the Machine – il pop intimo e decorato di High as Hope – sembrano quasi pagine di un diario. Dieci canzoni in ci parla di disordini alimentari, incontri con persone fatte d’ecstasy e di come trovare la giusta via di mezzo tra gioia e depressione. Lontana dal microfono, però, la 32enne dai capelli ramati ha una voce da soprano, ride in abbondanza e dimostra una tenerezza e una modestia che non ti aspetteresti da un’artista con un curriculum ricco di dischi di platino.
Florence Welch è sobria da quattro anni, controlla la sua ansia al meglio delle sue possibilità e si considera forte nonostante i testi che scrive suggeriscano il contrario. Crede addirittura di potersi rifare una vita in una capanna di legno. «Ce la farei solo con il mio telefono», dice ridendo. «Anche se credo che il punto sarebbe proprio non avercelo, il telefono. Avevo un ex che mi diceva cose del tipo “Credo che te la caveresti bene con la sopravvivenza. Hai una stramba determinazione”. Ho paura di un sacco di cose, ma quando si tratta di vero terrore, allora tiro fuori il mio coraggio».
Quali sono le tue paure più grandi?
Ho paura di volare. Ho conosciuto davvero tante hostess gentili che mi hanno tenuto per mano durante le turbolenze, e ho voluto scrivere delle lettere per ringraziarle. Ho paura della gente, quando torno dai tour soffro un po’ di agorafobia: se ti rendi vulnerabile di fronte a tante persone per così tanto tempo, camminare per strada e incontrare lo sguardo di un singolo sconosciuto può diventare un’esperienza estrema, difficile da gestire. Sono un po’ ansiosa quando si tratta di uscire, per questo è così divertente frequentarmi (ride).
Ti sentivi così anche prima del successo?
Questa sensibilità esagerata c’era già. Non credo che il successo possa fare del bene a una persona troppo sensibile. Ripeto sempre alla mia manager: “Non voglio diventare più famosa di così, OK?”, lei risponde, “Se non è già successo, non succederà mai”.
Come gestisci i fan più ossessivi?
Una volta alcuni bambini si sono presentati a casa mia, erano davvero carini e indossavano una maglietta del gruppo. All’inizio ho pensato “Oh, cavolo. Forse questa cosa non è OK”, poi ho capito che volevano parlare di storia dell’arte, e cose del genere, e ho detto: “Vi adoro e apprezzo il vostro supporto, ma ho bisogno dei miei spazi per lavorare, scrivere e pensare. So che non volete uccidermi, ma vi accontentereste di questo libro?”, e gli ho dato un libro.
Com’è il tuo umore mentre lavori?
Viaggio per la maggior parte del tempo, e mi ritrovo spesso a guardare fuori dal finestrino e a pensare a cose tristi e desolanti. Mi viene una sorta di rabbia esistenziale, talmente grande che devo chiamare i miei e dire “Ma che significa tutto questo? Io non capisco”. Ormai ci sono talmente abituati che rispondono in automatico. Mio padre mi dice: “Gli esseri umani sono così, a volte non capiscono”. Non è molto d’aiuto.
Hai un tatuaggio che dice “Always Lonely”. Perché?
Beh, perché ero super triste. Il missaggio di High as Hope è stato uno dei periodi più solitari della mia vita. Ero a New York, e venivo da una rottura – una di quelle tristi, non troppo drammatiche. Cercavo di superare quel momento, che è solitario per eccellenza, pensavo alla fine della mia relazione e mi dicevo “Perché mi sento come se l’album venisse prima di tutto? Sto alimentando la mia stessa solitudine?” La relazione più duratura della mia vita è quella con la musica. Allo stesso tempo, comunque, mi sembrava tutto ridicolo.
In Hunger canti dei tuoi disordini alimentari: “At 17 / I started to starve myself”. Come ha reagito la tua famiglia?
Mia sorella mi ha detto: “Ma che stai facendo? Stai bene? Non ne hai mai parlato, nemmeno con la mamma, e adesso ci hai fatto una canzone pop? Sei fuori di testa?”. Io ho risposto: “Beh, sì. Non so cosa sto facendo”. Quel pezzo ha tirato fuori delle cose nella mia famiglia, ma alla fine ci ha fatto bene. Ne ho parlato anche con mia madre. È curioso: a noi inglesi basta parlare del problema e poi tutti continuano sulla loro strada. Ci dicamo “Ok, abbiamo risolto. Mettiamo tutto nel cassetto e andiamo avanti”.
Quando hai capito di essertene liberata?
Non è una cosa che succede da un giorno all’altro, è uno dei mali più insidiosi che possano capitarti. Adesso ho una relazione sana con il mio corpo, ma ci è voluto tempo. E ti rimane comunque tutto dentro in modi strani. Quindi è difficile rispondere alla domanda, perché anche quando ti sei liberata di alcuni comportamenti, è la roba che hai in testa quella difficile da battere. È di questo che ho parlato nel disco. È difficile accettare l’amore: se ti sei privata del cibo, allora hai una tendenza a privarti anche del nutrimento emotivo.
Adesso sei sobria. Quand’è l’ultima volta che hai bevuto?
Il due febbraio di quattro anni fa. Essere un’alcolista era una grossa parte della mia identità. La musica e l’alcool sono stati in qualche modo i miei due primi amori. Quando ho smesso sentivo come se avessi deluso il fantasma del rock, qualcosa del genere. È stato monumentale. Mi sono detta “Voglio sentirmi sana, voglio cambiare ritmo. Altrimenti morirò. Devo smettere”.
Te l’ha detto un medico?
Me l’ha detto molta gente (ride). Anche se riuscivo a gestirlo a livello fisico, ho smesso perché a livello psicologico l’alcool mi rendeva molto depressa. Ero così stanca della ripetitività delle sbronze. Ero arrivata al punto in cui era solo faticoso, non mi divertivo più. Ero fuori controllo.
È stata una rivelazione.
Sì, ma anche esaurimento. Sono stata in tour per due anni, dal 2009 al 2011, e solo allora sono riuscita a prendermi un anno per rilassarmi. Ma non mi rilassavo affatto, perché non avevo ragioni per non bere. È stato l’anno meno rilassante di tutta la mia vita. Ero anche nel pieno di un’ossessione amorosa per qualcuno che non voleva avere niente a che fare con me. Sono sempre stata con persone capaci di gestire la mia follia, ma non in quel caso. Non riuscivo a spiegarmelo, ero ubriaca e strillavo “Per questo! È colpa di questo!”. Quell’esperienza è finita tutta dentro How Big, How Blue, How Beautiful. Era come Dante, L’Inferno e Il Purgatorio.
Qual è il tuo vizio peggiore, adesso?
I vestiti vintage, i libri. E bevo troppo caffè.
Come te la cavi con i libri vecchi?
Bene. Anche tu giudichi in silenzio le persone giudicando i libri che hanno in casa? Vivo nella paura che qualcuno possa farlo con me, quindi ho molta cura dei miei libri.
In Patricia hai scritto che Patti Smith è la tua stella polare. Perché?
Ho scritto High as Hope pensando di capire come vivere creativamente senza il caos. La sua scrittura è un modello. Tratta la vita con grande rispetto e ha un modo di essere che mi ispira continuamente. Se scrivesse un libro su cosa mangia a colazione lo leggerei volentieri. L’ho incontrata, una volta, a New York. Sono ossessionata da Patti Smith, e sapevo che l’Omen era uno dei suoi ristoranti preferiti, quindi ci andavo in continuazione. Un giorno l’ho vista e ho pensato: “Oddio, sono letteralmente una stalker”. Mi vergognavo, come se tutto fosse diventato troppo reale.
Patti, comunque, ha apprezzato molto la canzone, mi ha mandato un messaggio molto gentile. È stata così dolce: ha una bellezza luminosa, e quando l’ho incontrata mi ha preso la mano, un gesto che mi ha fatto tornare timida. Mi ha detto: “Mi sembra di conoscerti da tempo”, e io ero come uno di quei bambini che sono venuti a casa mia quella volta. Ho pensato “Oh, adesso è super reale. È tutto reale”. Una magia.