Dopo la morte di Prince avvenuta nel 2016, il compito di preservarne l’eredità è stato assegnato alla sorella minore Tyka Nelson. Possiede un sesto delle sue proprietà, che comprendono migliaia di canzoni inedite contenute negli archivi. I fan chiedono insistentemente di ascoltare la musica che Prince non ha potuto pubblicare da solo. Tyka, insieme ad altre persone fidate, ha passato gli ultimi quattro anni a scoprire e preservare tesori che solo un artista di quel calibro era in grado di creare. Farlo le dà la possibilità di esaudire i desideri del fratello, desideri che le aveva confidato tre anni prima di morire. «Non lascerò questo pianeta finché ogni singola cosa a cui ha lavorato duramente non sarà preservata a favore di tutto il mondo», dice.
Questa settimana, gli eredi hanno annunciato l’uscita di Welcome 2 America, un album che Prince ha registrato nel 2010 ed è rimasto inedito. È solo un assaggio della sua musica che il mondo deve ancora ascoltare. Prince era notoriamente scettico nei confronti dell’industria discografica e, con una mossa in anticipo sui tempi, ha combattuto per riprendere possesso dei suoi master. Ora, mentre la sua eredità continua a vivere, il lavoro di chi ha preservato quelle creazioni comincia a dare i frutti.
Con i suoi quattro album e un singolo di successo (Marc Anthony’s Tune è arrivata al 33esimo posto della classifica Hot R&B/Hip Hop Song di Billboard, nel luglio 1988), Tyka sa cosa significa combattere con la discografia. La cantante e autrice, 60 anni, ha raccontato a Rolling Stone cosa significa preservare l’eredità artistica di Prince, cosa pensa dell’industria musicale e come mai il fratello ha colto l’importanza di archiviare e documentare tutta la sua produzione.
Si sa che Prince ha imparato a suonare da autodidatta e che la vostra era una famiglia molto musicale. Quando hai capito che sarebbe diventato una star?
Per parecchio tempo ho pensato che non fosse al livello di Madonna e Michael Jackson, anche se il mondo sembrava convinto del contrario. Era un situazione grandiosa, ma surreale. Ricordo la première del film Purple Rain, c’erano Eddie Murphy e tutte quelle star e io mi chiedevo: ma perché sono tutti qui? Era come se il mio cervello non riuscisse ad accettarlo, se devo essere onesta ci sono riuscita solo quattro anni prima che morisse. È stato allora che ho realizzato che mio fratello era una star. Aveva un sangue freddo…
Ti sei chiesta come mai ti ci è voluto tanto tempo?
Lavoravo per lui e guardavo i video, ascoltavo tutte le canzoni, ogni nota, lo vedevo in azione continuamente, ma non capivo. Visto che sono anche io un’autrice, non volevo che il suo nome influenzasse il mio. Non volevo copiarlo in alcun modo. Non volevo che associassero i nostri nomi. Non volevo che facesse niente per me perché così non avrei mai saputo cosa pensava la gente della mia musica. Quindi ho smesso di ascoltare la sua, mi sono persa un sacco di anni e non ho visto quello che era davanti agli occhi di tutti. Poi, quando è morto e il mondo si è tinto di viola, non ho avuto più dubbi. Sono ancora meravigliata. Dopo la sua morte, moltissimi fan hanno condiviso le storie che lo riguardavano, hanno raccontato cosa significava per loro la sua musica. E io ne ero sopraffatta, era incredibile.
Prince teneva molto alla sua indipendenza, così tanto che a volte lavorava senza manager o etichetta. Che impatto ha avuto sull’industria discografica?
Voleva avere il controllo perché sapeva cosa sarebbe successo. «Se mi metto alla guida dell’auto adesso, non andremo fuori strada. Perché devo starmene seduto a farmi dire dove andare da questa gente? Voglio il controllo perché so che direzione prendere». L’idea di riprendersi i master è stata replicata da Taylor Swift e Kanye West, anche loro hanno capito che senza controllo cosa ti resterà in futuro? Prince conosceva il futuro. «Se non riprendo il controllo dei master, cosa succederà tra 10 anni?». Lo diceva spesso e mi sembra che gli artisti che oggi sfidano l’industria lo facciano dalla stessa prospettiva.
Una volta ha detto al Los Angeles Times: «Se avessi saputo quello che so adesso, non sarei mai entrato nell’industria discografica». Secondo te a cosa si riferiva? Qual era il suo problema più grande con l’industria?
La mancanza di libertà creativa. Non voleva altro quando ha iniziato a fare musica. Ha sempre voluto il controllo della sua musica, sapeva cosa aveva in mente e come raggiungerlo. Se qualcun altro non riusciva a capirlo, lui non aveva bisogno di convincere nessuno della forza della sua visione. Un’altra cosa a cui teneva era potersi muovere secondo i suoi tempi. Prince faceva musica a un ritmo più veloce di quello di tutta l’industria. «Perché non posso pubblicare un album al mese? Perché non posso farlo tre volte l’anno? State incasinando la mia musica. Ho un sacco di roba chiusa nel cassetto e non volete pubblicarla. Ci sono dischi già registrati, pubblicateli». La gestione del tempo era un problema.
E poi c’era il controllo dei master. Lui voleva riprenderlo perché, faccio solo un esempio, «un disco costa 12 dollari e io ne guadagno uno. Eppure sono quello che l’ha scritto. In copertina c’è il mio nome. Mi faccio il culo per renderlo grandioso, mentre voi state seduti a incassare. Mmmh. Non ricorda un po’ lo schiavismo?». L’ha dimostrato più avanti, ai tempi di Emancipation e del cambio di nome, la scritta “slave” sulla guancia…
Com’è stata gestita la sua eredità dopo la morte?
Fortunatamente è stato semplice, perché lui aveva già deciso cosa fare. Aveva pianificato tutto, non so dire quando abbia iniziato o perché si fosse messo a fare tutte quelle cassette, i film, le sceneggiatura, e a conservare tutto. Dopo l’acquisto di Paisley Park, pensavo che sarebbe stato uno studio, ma è stato anche sala prove e locale per feste. Poi si è messo a pensare al museo. Aveva spiegato ogni cosa, quindi non è stato difficile capire cosa fare. Dovevamo solo seguire il piano e occuparci delle uscite su vinile o CD, migliorare la qualità delle immagini o quella dell’audio. Ma è stato Prince a lavorare per noi, si è preservato da solo. Lui si è sempre preoccupato della sua eredità.
Una volta ha detto a Michael Howe, un dirigente di un’etichetta: «Tutte le registrazioni dell’archivio vedranno la luce quando non ci sarò più». Pare che nell’archivio ci siano migliaia e migliaia di inediti, cosa possono aspettarsi i fan? Un’altra uscita come Piano & A Microphone ?
Prince ha sempre voluto che la gente ascoltasse la sua musica. Come potrei osare fare diversamente, dopo che si è spaccato la schiena per tutta la vita? Non permetterò a nessuno di non far ascoltare quella musica. Non permetterò a nessuno di non aprire il museo, di non farlo visitare. Lui ha messo in moto tutto e non lascerò questo pianeta finché ogni singola cosa a cui ha lavorato duramente non sarà preservata e messa a disposizione di tutti.
I lavori incompleti resteranno riservati, ma nell’archivio hai trovato qualcosa di sorprendente o eccitante, almeno a livello personale?
Sorprendente no, straordinario sì. Sono davvero felice che abbia messo in musica la sua vita. Da quanto so, prima di morire Cicely Tyson ha scritto un libro di 400 pagine. Ecco, per me Prince ha fatto lo stesso con la sua musica. Quella è la sua vita. Aveva vecchie cassette che documentavano la sua vita. Nell’archivio ci sono cose straordinarie e Michael è stato bravissimo a esplorarlo. Ma ci sono anche brani incompleti, canzoni in cui dopo il ritornello smette di cantare. Sono solo una degli eredi, non posso parlare a nome di tutti, ma non mi dispiacerebbe far sentire a tutti anche le cose più piccole, le minuzie che ha fatto giocando col telefono. Magari insegneranno a un ragazzino come mettere insieme una canzone. Chissà. Vorrei far uscire tutto. Se potessi vivere cent’anni, sarei là fuori a supervisionare tutto. Ma sono sicura che la musica di Prince vivrà più a lungo di me.
In un’intervista del 2018, Howe ha anche detto che Prince ha continuato a registrare fino all’ultimo, e che nell’archivio ci sono incisioni che risalgono a un periodo vicinissimo alla fine della sua vita. Ha mai pensato di ritirarsi?
Quella parola non esisteva nel suo vocabolario. La usava, certo, ma mai per descrivere se stesso. Nel suo ultimo concerto, qui a Paisley Park, ha detto a tutti che avrebbe smesso di suonare la chitarra per migliorare al pianoforte. Credo che fosse perché Judith era più forte, forse pensava di dover arrivare al suo livello. Era questo il suo piano, non voleva certo smettere. Ritirarsi per lui era impossibile.
Come credi che vorrebbe essere ricordato?
Come un artista sopraffino. Ma quando dici artista, aggiungi anche designer: disegnava i suoi abiti e le scarpe, inventava cose che gli altri poi costruivano. E ovviamente voleva essere ricordato come musicista, chitarrista, batterista… sapeva suonare anche il sassofono. Suonava ogni cosa, ogni singolo strumento che vedevi sul palco. Vorrei che fosse ricordato come uno in grado di fare quelle cose. Non ha mai avuto bisogno di una band. Ce l’aveva solo perché non poteva suonare tutto contemporaneamente. Non è una cosa che sanno tutti. Aveva anche iniziato a scrivere un libro, quindi era anche scrittore. Ma cosa non era? È stato un filosofo, un filantropo. Un nero venuto fuori dal nulla. Da bambini avevamo a malapena una radio. Non eravamo nessuno, ma un giorno si è messo a parlare di quando sarebbe diventato famoso… e ci è riuscito.
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.