«Tornare indietro nel tempo, per un musicista, non è mai facile. Noi poi ci troviamo proprio in un periodo in cui abbiamo voglia di scrivere, pensare e sperimentare cose nuove. Però era da un sacco che discutevamo tra noi di questa idea: portare dal vivo la versione completa di quel disco, quindi con gli archi e tutto, anche se per tutta una serie di ragioni non eravamo mai riusciti a farlo. Tranne forse una volta a Parigi, in una serata in onore di Serge Gainsbourg dove ne eseguimmo buona parte, più, ovviamente, qualche cover». A parlare, senza nascondere l’imbarazzo rispetto a quella che potrebbe apparire a tutti gli effetti come un’operazione nostalgia è Amedeo Pace, che con il fratello gemello Simone e Kazu Makino è da sempre uno dei vertici di quel triangolo perfetto noto con il nome di Blonde Redhead.
E quando si parla di Blonde Redhead, “quel disco” non può che essere Misery Is a Butterfly: l’album della svolta, il primo pubblicato da 4AD, quello che ha segnato un decisivo e definitivo cambiamento di rotta e allargato gli orizzonti musicali della band. Misery Is a Butterfly, però, è anche la fotografia di un momento preciso che i Blonde Redhead stavano cercando di lasciarsi alle spalle. Un momento scandito dal dolore – appunto – e da una serie di vicissitudini personali che ne avevano segnato la composizione e compromesso le registrazioni: «Decidemmo di allungare il tour del nostro disco precedente – Melody of Certain Damaged Lemons – e durante una tappa in Francia venne fuori che Kazu si era ammalata. Si prese una brutta broncopolmonite e fu costretta a fermarsi per un sacco di mesi; quando guarì, Guy Picciotto fu colpito da un lutto giusto qualche giorno prima di entrare in studio, e di nuovo fummo obbligati a sospendere i lavori».
Poteva andare peggio? Poteva piovere: «È stato durante quella pausa che Kazu ebbe il terribile incidente con i cavalli. Quello per cui dovette passare un lunghissimo periodo a letto, completamente immobilizzata, e i tempi si dilatarono oltre ogni misura. Però nella sfortuna abbiamo avuto la possibilità di tornare sulle canzoni e svilupparle come mai avevamo fatto in passato e alla fine possiamo dire che tutto quello di negativo che è successo in quel periodo ha influenzato in maniera positiva il disco che poi è venuto fuori”.
Un disco talmente personale e puro che poteva essere raccontato in maniera onesta, senza filtri, solo dalle persone che lo hanno realizzato. Per questo motivo abbiamo deciso di lasciare la parola proprio ad Amedeo e Guy Picciotto, eliminando domande e mediazioni, alla maniera di “Please Kill Me” (uno dei capolavori della letteratura musicale di tutti i tempi).
Quella che andrete a leggere ora, quindi, è la storia orale di Misery Is a Butterfly.
Buona lettura!
Guy Picciotto:
“Avevo già prodotto dei dischi per diverse band della scena da cui provengo, quella di Washington DC, prima di lavorare con i Blonde Redhead. All’epoca ero nei Fugazi, e col gruppo avevamo investito in un po’ di attrezzatura da registrazione, che avevamo messo nello scantinato della casa che condividevo con altri musicisti del posto. La chiamavamo la ‘Pirate House’, e l’attrezzatura era molto scarna: un registratore a bobine da 8 tracce, un banco mixer molto semplice e un po’ di outboard. Non avevamo una vera e propria sala riprese, ci sistemavamo in sala da pranzo o in cantina. Avevo prodotto delle sessioni con gruppi come The Make-Up, Metamatics, Crainium, Meltdown e Slant 6, fra gli altri, e avevo anche lavorato sui dischi dei Fugazi, quindi avevo imparato le basi del sound engineering. È stato a quel punto che i Blonde Redhead si sono messi in contatto con me.”
Amedeo Pace:
“La prima cosa che abbiamo fatto con Guy è stato un 45 giri, o forse addirittura due? Mi ricordo che registrammo insieme questi due pezzi – Kazuality e Symphony of Treble – che poi finirono pure su Fake Can Be Just As Good, e poi altri due (uno era sicuramente la cover di Le Chanson de Slogan di Serge Gainsbourg per il tributo che aveva messo in piedi John Zorn).
Noi comunque ci conoscevamo già da parecchio tempo, perché avevamo fatto un sacco di concerti insieme ai Fugazi ed eravamo diventati amici. Ogni volta che passavamo da Washington D.C. stavamo a casa sua, uscivamo insieme… tant’è che abbiamo deciso di farci produrre da lui senza sapere davvero come se la cavasse in studio. A noi bastava averlo vicino, nutrirci un po’ della sua grande energia. Sono stati quei due singoli a farci capire che anche il suo modo di lavorare era adatto a noi e che ci trovavamo bene insieme anche da quel punto di vista: lui è uno molto serio in studio, con Guy non si scherza, incute quasi timore. Che poi è un po’ il tratto distintivo di tutti i componenti dei Fugazi: sono serissimi, sembrano sempre incazzati, ma quando vogliono ti fanno anche ridere come nessun altro.”
«È il tratto distintivo di tutti i componenti dei Fugazi: sono serissimi, sembrano sempre incazzati, ma quando vogliono ti fanno anche ridere come nessun altro» Amedeo Pace
Guy:
“A parte il lavoro con le mie band e quello che ho fatto più tardi con Vic Chesnutt, quella con i Blonde Redhead è stata probabilmente l’esperienza di collaborazione creativa più lunga che io abbia avuto. La reazione chimica scatenata dal nostro incontro era davvero intensa.
Erano ovviamente musicisti molto bravi e con le idee chiare, ma avevano anche un’apertura mentale alla collaborazione che era molto gratificante. Erano sempre disponibili a lasciarmi fare le cose più assurde, tipo quando io suggerivo di rallentare la velocità di registrazione del nastro nel bel mezzo di un live mix, come abbiamo fatto in una traccia di In an Expression of the Inexpressible, distorcendo l’intero pezzo. Hanno accettato subito!
Alla fine dei conti, il triangolo è una forma geometrica molto solida, ma può essere anche difficile da gestire nel processo decisionale, perché è sbilanciata, e quindi penso che per loro sia stato un bene – almeno per un periodo – avere una voce esterna che spezzasse il circolo e mettesse in gioco altre forme. Erano spesso molto duri l’uno con l’altro, ma chiunque sia stato in una band sa che quel genere di intensa corresponsabilità è fondamentale, quando non c’è una persona sola che prende tutte le decisioni. Quando tutti sono coinvolti a livello creativo e hanno investito nel risultato, l’energia che si sprigiona dà vita a soluzioni inaspettate. Non tutti i musicisti sono in grado di gestire un rapporto di quel tipo, ma per quelli che ci riescono è fantastico. Tutti i membri dei Blonde Redhead hanno capacità straordinarie. Amedeo, Simone e Kazu per me sono come dei supereroi che riuniti formano un gruppo ancora più forte.”
Amedeo:
“È stato un vero e proprio salto nel vuoto, per noi: all’epoca sentivamo l’esigenza di fare un passo avanti, crescere, per cui ci sentimmo costretti anche a cambiare casa discografica. E questo nonostante i rapporti con Touch & Go fossero ottimi: loro avevano fatto un gran lavoro su di noi, ma per come era impostata l’etichetta e dopo tutti quegli anni insieme era diventato necessario dare una svolta alla nostra collaborazione. Solo che non avevamo davvero idea di come muoverci, quindi decidemmo di provare a finanziare tutto con le nostre forze e senza sapere chi davvero avrebbe pubblicato il disco. Non ci siamo mai messi a scrivere con l’idea che poi saremmo finiti con 4AD, anzi: non vorrei dire una bugia, perché non ricordo bene come è andata, ma secondo me loro hanno cominciato a parlarne con noi che il disco era già finito o comunque molto vicino alla chiusura. Per cui anche questo fattore ha influito: per noi era davvero tutto nuovo in quel periodo, stavano succedendo un sacco di cose, ma non c’era nessun disegno, nessuna traccia da seguire, nessun contratto. Alla fine tutto quello che è successo dopo è come se fosse successo per caso, ma con noi è sempre stato così: anche quando passammo dalla Smells Like Records – l’etichetta di Steve Shelley dei Sonic Youth, quella che aveva pubblicato i nostri primi due album – alla Touch & Go non è che ci pensammo poi tanto. Ricordo che eravamo a Chicago e una sera Ian MacKaye ci disse una roba del tipo: ‘Ma perché il prossimo disco non la fate con la label di questo mio amico? Se vi va lo invito al concerto, così magari lo conoscete’ e da lì è partito tutto.”
Guy:
“I Blonde Redhead stavano attraversando un periodo piuttosto difficile, e autofinanziarsi era sicuramente un rischio molto grosso, visto che quando avevano avviato il progetto non sapevano dove sarebbero andati a parare. Ma avevano fede e si sono impegnati a fare tutto quello che serviva per fare in modo che il disco fosse eccezionale. Dal punto di vista tecnico è stato di gran lunga l’album più complicato a cui abbia mai lavorato. Quasi certamente nessuno lavorerebbe più così, e se lo facesse sarebbe quasi una forma di perversione, dati gli sviluppi nella tecnologia della registrazione digitale, ma credo che quella decisione abbia pesato molto nel modo in cui il disco ha finito per suonare. Non solo per la qualità della registrazione su nastro, ma anche per i metodi di lavoro arzigogolati a cui eravamo costretti.”
Amedeo:
“Ricordo che cambiavamo sempre sala prove: il primo pezzo scritto e provinato fu Elephant Woman, e mi piacerebbe riuscire prima o poi a pubblicare il demo, perché secondo me merita di essere ascoltato. Comunque la prima cosa che facemmo una volta deciso che avremmo cominciato a lavorare su un nuovo disco fu acquistare un Clavinet. Lo avevamo già usato molto nell’album precedente, ma non ne avevamo mai posseduto uno ‘nostro’. Siamo partiti da lì: all’epoca eravamo molto ispirati da Gainsbourg e i suoi dischi sono caratterizzati proprio dal suono del Clavinet e del clavicembalo. In ogni modo: quella sala era a Brooklyn, nel retro di una falegnameria. Eravamo sempre pieni di polvere ovunque e alla fine fummo costretti ad andarcene da un’altra parte.
Nella seconda saletta, se non sbaglio, sono nate Melody e Messenger e poi ci spostammo a Greenpoint. In pratica il disco è nato così: traslocando. Anche perché si può immaginare lo sbattimento di portare gli strumenti da una parte all’altra, ma anche il lavoro che abbiamo dovuto fare per sistemare quei posti. Le sale prove di solito sono così: o c’è troppa roba o sono completamente vuote. E ogni volta ti devi dare da fare per renderle vivibili. Spesso non ci sono neanche le finestre…
Dopo quella prima fase ce n’è stata un’altra, casalinga: io all’epoca vivevo con Kazu, e mentre lei era costretta a stare a letto, dopo l’incidente, io continuavo ad appuntare idee su idee. Anche lei, comunque, si dava da fare: se non sbaglio il testo di Magic Mountain l’ha scritto proprio nel periodo in cui non si poteva muovere, ma anche quello di altri brani. È stato un processo molto molto lungo, non solo a causa di quello che è accaduto nel mentre: tra i primi demo che abbiamo realizzato e gli ultimi è passato quasi un anno. Di solito per noi funziona così: io porto delle idee che poi sviluppo con Kazu. Lei lavora moltissimo sulla melodia: adatta questi bozzetti alla sua interpretazione, fa diversi cambiamenti, e quando riteniamo che la canzone abbia acquisito una forma compiuta, parlo ovviamente solo della scrittura, andiamo finalmente in sala prove e con Simone cominciamo a lavorare sull’arrangiamento.”
«Per fortuna i Blonde Redhead cucinavano dei gran pranzi, pranzi proprio di alto livello, quindi anche se non dormivo almeno ero ben nutrito» Guy Picciotto
Guy:
“Le registrazioni di Misery Is a Butterfly mi hanno salvato la vita, in un certo senso. Ero veramente messo male, e avere avuto la possibilità di isolarmi in studio e lavorare in maniera intensiva per un periodo molto lungo, completamente immerso in canzoni meravigliose con amici intimi, è stato davvero importante. La sessione fu divisa in due parti: la prima in uno studio in campagna che si chiamava Long View Farms, dove facemmo il grosso delle registrazioni del trio. Poi portammo i nastri ai Magic Shop Studios di New York per aggiungere le sovraincisioni di archi e altri strumenti, e per finire il missaggio. La prima sessione al Long View me la ricordo come un’allucinazione, perché per tutto il tempo non riuscii quasi a dormire. Mi alzavo intorno all’alba e andavo a piedi fino a un lago vicino allo studio, e stavo lì fermo come uno zombie finché non era ora di iniziare a registrare. Per fortuna, come in tutte le sessioni che ho fatto con loro, i Blonde Redhead cucinavano dei gran pranzi, pranzi proprio di alto livello, e quindi anche se non dormivo almeno ero ben nutrito.”
Amedeo:
“Era da una vita che provavamo a includere gli archi nei nostri dischi, ma non c’eravamo mai riusciti: era un’idea astratta che per tutta una serie di ragioni pensavamo sarebbe sempre rimasta tale. Un desiderio irrealizzabile a causa del tempo e dei soldi. E infatti anche Misery l’abbiamo composto come se gli archi non dovessero esserci, non è che abbiamo ingaggiato un arrangiatore e poi abbiamo costruito il disco. È stato solo una volta in studio, praticamente quando ormai avevamo già finito, che abbiamo capito che avevamo i margini per provarci. Diciamo che noi avevamo lavorato lasciando lo spazio per inserirli, ma quella cosa sarebbe anche potuta non accadere mai. Per gli arrangiamenti siamo stati aiutati un nostro amico – Eyvind Kang – che speriamo tantissimo di riuscire ad avere con noi anche per questi concerti italiani.”
Guy:
“L’etica del lavoro del gruppo mi ha sempre colpito, ma “Misery” era proprio a un altro livello. Kazu aveva appena avuto quell’incidente a cavallo molto grave che le rendeva difficile cantare, ma era forte come un pugile, come Muhammad Ali: era disposta a spingersi all’estremo per fare le cose per bene. La gente vede la delicatezza in questo gruppo e nella sua musica, ma sarebbe un grosso errore sottovalutare la sua forza. Sono fra i musicisti più capaci con cui abbia mai lavorato. Sono tutti disciplinati all’estremo, hanno una capacità di concentrazione profondissima e l’incapacità di ignorare quelli che ad altri sembrerebbero dettagli marginali. Sono anche disponibili a scommettere sulla felice riuscita di eventi accidentali e capaci di apprezzare le imperfezioni. Io forse non ho grandi capacità tecniche o una grande educazione musicale, ma come loro sono capace di mantenere quel livello di concentrazione ossessiva, e anche a me piacciono le cazzate e le imperfezioni, e per questo forse eravamo una bella squadra.”
Amedeo:
“Uno dei pezzi chiave del disco è sicuramente Equus. Ci mise davvero in crisi: era una canzone che volevamo a tutti i costi nel disco, ma al tempo stesso non riuscivamo a svilupparla in una direzione che ci convincesse del tutto. Guy è stato fondamentale: è lui che ha trovato la chiave giusta e l’ha portata avanti fino alla fine. Per certi versi è come se fosse una sua canzone: io l’avevo concepita più simile a come poi è venuta fuori Melody, molto più a vicina a quello che poi è il suono che caratterizza il resto dell’album, però andando avanti era diventato chiaro che avesse bisogno di un vestito diverso. Ultimamente, proprio preparando il tour, ho ritrovato un sacco di demo di quel periodo e prima o poi mi piacerebbe riuscire a pubblicarli perché sono molto belli e spesso anche molto diversi da come poi i brani sono stati registrati nell’album.”
Guy:
“Se non sbaglio l’abbiamo assemblata quasi da zero in studio, quella canzone. In quei giorni ero ossessionato dal suono di Street Fighting Man dei Rolling Stones, in particolare dall’attacco, e per qualche motivo quella canzone fece da catalizzatore, anche se ora i due pezzi non mi sembra si somiglino per niente. Equus era un pezzo di cui la band aveva dei bellissimi frammenti, e mi hanno permesso di aiutarli a unirli in una forma caleidoscopica. Il basso suonato dal loro amico Skuli Sverrison ha aggiunto una coloritura stupenda, morbida e discendente come una banda elastica, e i primi quattordici secondi sono già da soli uno splendido mini-arrangiamento. C’era qualche sovraincisione vocale che è stata complicata da fare dal punto di vista tecnico, ma era una cosa che facevamo spesso insieme e che funzionava benissimo, anche in pezzi come In Particular, che è su ‘…Damaged Lemons’, e che è uno dei miei preferiti.”
Amedeo:
“Fin dal primo momento in cui Simone, Kazu e io abbiamo suonato insieme, anche nei nostri dischi più grezzi, la melodia è sempre stata il centro di tutto. Siamo sempre partiti dall’idea che ci piaceva riuscire a scrivere belle canzoni, al di là dell’arrangiamento e dei suoni che poi finivano per caratterizzarle. Questa forse è l’unica cosa che è rimasta immutata nel tempo, che è uguale da sempre: la nostra ossessione per la melodia. La cosa interessante dello scrivere canzoni è che non esiste una formula da seguire, non esiste la canzone perfetta: è come essere alla guida di una barca a vela che viene trasportata dal vento da una parte all’altra. Credi di avere il controllo, ma in realtà non è mai così: tu puoi seguire una rotta, puoi avere un punto di partenza e uno di arrivo, ma la navigazione la fanno gli imprevisti. Che poi non sono altro che le cose che ci ispirano, i gruppi nuovi che attirano la nostra attenzione, quelli vecchi, certa musica italiana, quella francese, il fado portoghese. Tutte cose che filtrate attraverso la nostra sensibilità acquistano un sapore diverso e danno vita a quello che poi senti nei dischi che facciamo.”
«Se riascolto Misery is a Butterfly adesso non lo trovo così dark come era sembrato a certa stampa. Semmai umorale, malinconico, forse anche un po’ triste, ma con una sua leggerezza di fondo.» Amedeo Pace
Guy:
“Sono successe un sacco di cose strane durante le registrazioni di ‘Misery…’: un giorno siamo impazzati a cercare di individuare da dove provenisse un fischio che arrivava dal microfono mentre Kazu provava a incidere una voce, e alla fine abbiamo capito che era il risultato di una leggera spaziatura nella sua mandibola dovuta all’incidente, quando è stata scalciata e calpestata dal cavallo. Non sapevamo come risolvere il problema fino a che proprio Kazu ha preso un filtro da caffè e ha fabbricato un tappo per coprire la spaziatura e riuscire a finire la parte.
L’altra cosa che non dimenticherò mai è il suono delle due macchine a 24 piste che si inseguivano per trovare la sincronizzazione ogni volta che dovevamo riavvolgere i pezzi. Ancora adesso mi sembra la cosa più bella che abbia mai sentito in uno studio, il modo in cui il nastro trascinato avanti e indietro sulle testine a varie velocità mentre le due macchine si cercavano a vicenda produceva gli incidenti più casuali ed esilaranti. Vorrei che ci fosse un modo di fare un disco solo di quei suoni: erano tipo il canto delle balene.”
Amedeo:
“Quello che era successo a Kazu aveva ovviamente avuto delle conseguenze ed eravamo molto dispiaciuti e preoccupati per lei. Misery Is a Butterfly è stato per forza di cose influenzato dal momento che stavamo vivendo noi come persone, come esseri umani, prima ancora che come band. Ma alla fine è così per tutti i dischi che abbiamo fatto: ogni nostro album rappresenta una fase di passaggio, una fotografia. Se lo riascolto adesso però non lo trovo così dark come era sembrato a certa stampa, semmai umorale, malinconico, forse anche un po’ triste, ma con una sua leggerezza di fondo. È attraversato da uno stato d’animo che accompagna e guida l’ascoltatore lungo tutti i brani e questa è una di quelle cose che come musicisti abbiamo sempre inseguito e che poi è diventata una caratteristica presente anche in tutto quello che abbiamo fatto dopo. Forse solo nei primi album l’approccio era diverso, magari anche più libero: procedevamo a tentoni, come se ancora dovessimo capire fino a che punto ci potevamo spingere, e quindi provavamo a suonare, a scrivere canzoni, e nel mentre imparavamo davvero a farlo. Stavamo trovando la nostra voce. Un punto di svolta, per me, è stato Fake Can Be Just as Good: la nostra maturazione è partita lì. Ma è innegabile, come ho già detto, che Misery… sia stato davvero fondamentale nella nostra storia e che, insieme a Melody of Certain Damaged Lemons, abbia anche segnato un ricambio dal punto di vista del pubblico. Forse alcuni di quelli che ci seguivano prima di quei due dischi, parlo di gente appartenente a una certa scena, quella dei Fugazi, appunto, ma anche quella più legata al noise rock, in quel momento hanno smesso di farlo e sono arrivati nuovi ascoltatori. La nostra musica ha smesso di essere essenzialmente ‘americana’ ed è diventata più europea. Però, insomma, noi facciamo il nostro percorso, disinteressandoci di quello che pensa il pubblico. È successo anche con gli album che abbiamo realizzato in questi ultimi anni: probabilmente quelli che avevano amato Misery Is a Butterfly e 23, poi non hanno gradito e trovato molto strano Penny Sparkle. Io invece sono fiero di avere fatto quel disco, così come Barragan perché rappresenta in tutto e per tutto quello che eravamo in quel periodo, e noi avevamo proprio bisogno di fare un lavoro del genere in quel momento lì. È un po’ come quando pensi alla carriera di Neil Young e scopri che ha fatto dei dischi che possono anche sembrarti assurdi se confrontati all’idea che tutti hanno di Neil Young, ma a loro modo sono perfetti perché scandiscono un momento ben preciso della sua vita, cosa stava passando, quali erano gli ascolti che lo stavano influenzando… A noi è successa la stessa cosa: a un certo punto ci siamo messi a fare una musica che seguiva le evoluzioni della nostra vita. E cambiare fa parte di noi, anche se poi so benissimo che c’è un tipo di ascoltatore che ti vorrebbe sempre uguale a sempre. Ma non è che l’uscita di nuove canzoni cancelli e renda meno valide quelle vecchie, no?”
Guy:
“Io sono molto felice del mio percorso con i Blonde Redhead, e magari ci sono delle singole canzoni che abbiamo fatto insieme e che per me, dal punto di vista personale, sono state importanti quanto Misery…, ma quel disco è stato un ottimo modo per concludere una collaborazione davvero gratificante. Il punto perfetto da mettere in fondo a un’amicizia davvero profonda”.
Amedeo:
“Io faccio fatica a raccontare i miei sentimenti per Misery Is a Butterfly perché io quel disco l’ho fatto, l’ho vissuto, l’ho suonato in giro e ora se ci ripenso mi vengono in mente solo gli errori che abbiamo compiuto e che ora non rifaremmo, oppure certe scelte di suoni, missaggio, che magari col tempo mi convincono meno. C’è un momento in cui, se sei un musicista, ti succede questa cosa che forse è terribile però è anche naturale: l’emotività nei confronti di quello che è stato il tuo passato sparisce e diventa semplicemente una cosa tra le tante, importanti, che hai fatto per poi passare avanti. Non mi emoziono quando ascolto la nostra musica vecchia, non riesco a farci nulla, però magari mi commuovo guardando delle vecchie foto. È strano.
Per esempio: stiamo preparando le ristampe dei nostri primi due album – ‘Blonde Redhead’ e ‘La mia vita violenta’, per questa etichetta di Chicago molto bella, la Numero, e loro ci hanno chiesto di mettere a disposizione del materiale vecchio: foto, video, tutto quello che abbiamo conservato.
Per cui ho passato diversi giorni a spulciare tra quelle cose e mi sono davvero commosso, perché anche se abbiamo cominciato abbastanza tardi a fare musica eravamo praticamente dei bambini, e col tempo siamo invece diventati delle persone diverse; e sì, quella cosa lì mi ha davvero colpito.”