The Weeknd giura che, a differenza di millennial annoiati di Instagram, durante la quarantena non ha fatto il pane. «Sono un pessimo cuoco», dice ridendo all’idea su Zoom. Siede a una scrivania al centro di una stanza arredata con gusto, ed eccezionalmente lunga, nella sua casa di Los Angeles. La libreria nera che si trova alle sue spalle ospita diversi vasi monocromatici, mentre la tv a muro trasmette pubblicità mute.
Vive a Los Angeles da quasi sei anni. Alcuni li ha passati in una villa da 20 milioni di dollari nel quartiere chiuso al pubblico di Hidden Hills. I suoi vicini di casa erano Drake, Britney Spears e i Kardashians. In verità, ha passato buona parte del decennio in giro per il mondo e considera Toronto, la città in cui è nato, come la sua vera casa. «Prima di lasciare il Canada non avevo capito quanto fossero gentili i canadesi».
Oggi la pop star, vero nome Abel Tesfaye, 30 anni, indossa una semplice maglia nera. Domani riapparirà con un maglione bianco altrettanto sobrio. È strano vederlo senza lo splendido abito rosso e gli occhiali vintage con le lenti arancio chiaro che ha indossato per il resto dell’anno, durante la promozione del quarto album After Hours.
È asmatico e per questo dall’inizio della pandemia ha preso qualche precauzione extra. Lavora con un piccolo team che include il fotografo Nabil Elderkin e amici e collaboratori della sua etichetta, la XO. Tutti fanno il test per il coronavirus ogni due settimane. In agosto ha festeggiato il compleanno del suo doberman Caesar con una torta che sicuramente non cha fatto lui. Guarda un sacco di film, soprattutto coreani ultraviolenti (i suoi preferiti sono The Wailing, un horror del 2016 che parla di una malattia misteriosa, e I Saw the Devil, action-thriller del 2010 su un uomo in cerca di vendetta). Di recente ha finito Waco e Unsolved Mysteries, insieme ad altri show di Netflix e Hulu che guarda per passare il tempo. A volte scrive canzoni sui personaggi e le storie che vede. «Scrivo delle loro relazioni, cose del genere», dice. «Potrei non pubblicarle mai. È un esercizio. Mi piace».
Il tempo da riempire è diventato tantissimo. Tesfaye ha cancellato o rimandato tour e attività promozionali previste dopo l’uscita del suo disco. «Sto impazzendo», ammette. In realtà, rinchiudersi in un posto non è una cosa così insolita considerando il suo metodo di lavoro. Tesfaye, che si autodefinisce un workaholic, ha messo insieme After Hours in studi di New York, Los Angeles, Toronto e a casa sua. Ci sono voluti due anni e alla fine ha costruito uno dei mondi più complessi della sua carriera, un ambizioso ciclo di immagini e musica pieno di lotte, figure misteriose, luci al neon e demoni interiori. L’atmosfera drogata e nichilista dei testi di Faith e Heartless rimandano ai momenti più turbolenti del suo passato, tra cui l’arresto del 2015 con l’accusa di aver preso a pugni un agente di polizia di Las Vegas.
Per promuovere l’album ha sperimentato col camp come non aveva mai fatto prima: si è trasformato in un personaggio autodistruttivo, con tanto di cerotto sul naso spaccato, che sembrava venire fuori da un film di David Lynch. Ogni foto, video musicale e apparizione televisiva era un’estensione del suo mondo che deforma la realtà come una casa degli specchi.
Questo lavoro tanto immersivo è servito a togliersi uno sfizio che risale ai suoi primi mixtape indipendenti, a partire da House of Balloons del 2011. La visione che portava negli shooting fotografici e nei video di quei progetti, che nel 2012 ha inserito in Trilogy, ha dato origine a una mistica che è stat importante per lanciare la sua carriera. «Ho cercato di fare quel che vedi in After Hours in tutti i dischi che ho scritto», dice, «ma non avevo le risorse, il budget o il tempo per rendere tutto coeso e unico come l’estetica di quest’album».
Il risultato lo mette in prima linea in molte categorie dei Grammy Awards 2021, una cosa di cui è orgoglioso. «Forse non è il mio disco migliore», dice, «e forse non è quello che la gente ascolterà in futuro. Mi auguro di sbagliarmi. Ma in ogni caso lo considero il mio disco perfetto. Lo riascolto e non mi viene nessun appunto da fare, nessuna cosa da cambiare».
A quanto pare, il resto del mondo è d’accordo con lui: After Hours è uno dei grandi successi dello scorso anno e da quando è uscito ad agosto ha venduto 1,5 milioni di copie equivalenti solo negli Stati Uniti. Blinding Lights, il singolo ispirato al pop anni ’80, è stato saldamente in classifica per mesi ed è anche una delle hit più grandi di TikTok, la app virale che negli ultimi due anni è diventata importante nel decretare i successi pop. La canzone ha generato una challenge, un ballo che comprendeva mosse aerobiche adatte solo ai più coordinati (come molti altri trentenni, Tesfaye dice che non imparerà mai quella coreografia).
«Lavoriamo duramente, come tutti, per mantenere quella mistica e il nostro suono originale, ma allo stesso tempo cerchiamo di andare oltre e portare qualcosa di nuovo», dice. «A volte le stelle si allineano e basta».
Tuttavia, la sua voce tradisce un po’ di frustrazione quando spiega perché il successo di After Hours è diverso da quello di Beauty Behind the Madness del 2015 – il suo primo vero blockbuster, trainato dal singolo prodotto da Max Martin Can’t Feel My Face – o da Starboy del 2016, quando si è imbarcato con i Daft Punk in un viaggio pop sperimentale. «Sono chiuso qui da quattro mesi. Le altre volte sentivo la mia musica al club o in radio. Non mi sono goduto i frutti del mio lavoro».
Due anni fa, Tesfaye ha pubblicato a sorpresa l’EP My Dear Melancholy. Era un progetto particolarmente dark anche per i suoi standard, pieno di meditazioni cupe sulla fine di un amore. Dopo aver suonato da headliner al Coachella, ha iniziato a scrivere le canzoni per l’album successivo. Poi ha deciso di frenare.
«Mi sono preso del tempo per vivere a New York», dice. Era una vita che sognava di farlo. Dopo aver passato anni al centro dell’attenzione, stare a New York gli sembrava una cosa speciale. In Escape from L.A., una canzone di After Hours, dice che la sua casa nella West Coast «sarà la mia fine». New York era anche una scusa per prendersi una vacanza da The Weeknd, affittare un attico a TriBeCa e stare alla larga dal mondo delle celebrità in una situazione di privacy anti-paparazzi impossibile da trovare a Los Angeles.
«Finalmente ero una persona normale: andavo al bar, scrivevo, incontravo gente, facevo amicizia», dice con tono nostalgico. «Non mi sono mai sentito una persona normale come a New York».
Invece di continuare a lavorare all’LP che aveva iniziato a comporre, ha fatto una cosa diversa: ha scritto una sceneggiatura di cui però non parla. Ed è solo uno dei tanti progetti che continua a concepire. «Ancora non posso parlarne», dice. «Prima di farlo voglio che si realizzi ufficialmente».
L’amore di Tesfaye per il cinema è sempre stato parte integrante della sua musica, dei video, dei tour. Nei video di After Hours fa riferimento a un sacco di cose, dall’omonima dark comedy del 1985 di Martin Scorsese all’adattamento di Terry Gilliam di Paura e delirio a Las Vegas fino a Chinatown di Roman Polanski, tutti film su personaggi che si perdono in una raccapricciante odissea di peccati, inganni ed eccessi.
Nel bel mezzo della scrittura di After Hours, ha scoperto che cosa significa stare sul set di qualcun altro. I fratelli Safdie l’hanno scritturato per una piccola parte in Diamanti grezzi, il chiacchierato film con un Adam Sandler da Oscar su un gioielliere del Diamond District e la sua dipendenza da gioco d’azzardo. Tesfaye ha interpretato la versione del 2010 di sé stesso: un enigmatico cantante R&B in ascesa che nel backstage ha un flirt con la fidanzata del gioielliere, flirt che li porta a una rissa. «Dopo la scazzottata Adam continuava a chiedermi se stavo bene e io facevo lo stesso», dice. «Era come uno zio. È un ragazzo gentile».
La trasformazione nella vita reale dall’essere un artista simile a quello che interpreta in Diamanti grezzi in una delle maggiori pop star al mondo non gli ha lasciato tempo per inseguire il sogno del grande schermo. «È la prima volta che faccio qualcosa d’altro, ho passato dieci anni a lavorare al progetto The Weeknd. Può essere logorante. Ho capito che devo allontanarmi un po’ per tornare ad averne nostalgia».
Nell’ultimo anno, Tesfaye è apparso anche in episodi di American Dad e Robot Chicken, due tra le serie animate che apprezza di più. Era particolarmente eccitato per American Dad e sul suo Instagram si parla più del suo ruolo – una sua versione animata, virginale e rigida – che dell’ultimo album (in realtà, gran parte dei post ritraevano Roger, l’alieno della serie, mentre interpretava le cover di tutti gli album di The Weeknd).
«Sono fissato con Adult Swim. Ci sono cresciuto. Quando stavo male mi permetteva di staccare. Far parte di quella serie era un modo per dire grazie per esserci stati e per avermi fatto ridere. La comicità è sempre stata importante a casa mia».
Sulla sua lista è rimasta solo una cosa, un rito di passaggio per tutti i musicisti: partecipare a una puntata dei Simpson, un altro balsamo che ha usato per una vita. Ma quando si parla di un’apparizione sullo schermo, non aspettatevi che The Weeknd faccia delle audizioni. Vuole avere il controllo, scrivere e dirigere i suoi progetti.
Non sarà la prima popstar a sognare Hollywood, ma è sicuramente una delle più appassionate. «Voglio fare il regista», dice, «voglio fare grande cinema».
Mentre la paura della pandemia si diffondeva in tutti gli Stati Uniti, The Weeknd ha scelto di non rimandare l’uscita di After Hours prevista il 20 marzo, uno dei pochi big a farlo. L’idea di rinviare l’album lo ha a malapena sfiorato. «Dovevamo farlo uscire», dice. «Pensa come sarebbe stato tenerlo da parte fino a oggi. Un incubo. Mi avrebbe mangiato vivo».
C’era il pericolo di fare numeri basso allo streaming, ma la cosa non lo preoccupava. «Siamo andati controcorrente, ma non mi interessa», dice. «Non me ne fregava un cazzo dei dati della prima settimana. Volevo solo far uscire quella musica».
Prima di iniziare la quarantena, aveva iniziato a lavorare al video pubblicato di recente di Snowchild, collaborando con il primo studio di anime giapponese guidato da persone di colore, D’ART Shtajio, anticipando quello che hanno fatto molti colleghi che di recente hanno scelto l’animazione al posto delle riprese in persona. Ha scritto il soggetto di altri tre video (Too Late, Escape from L.A. e Faith), ma non si sa quando li girerà. Ha fatto abbastanza shooting fotografici col distanziamento per capire che non fanno per lui. «Sono strani, non si crea alcuna connessione», dice Tesfaye. «È difficile lavorare con un fotografo con la mascherina. Non capisci cosa vuole dire. Preferisco aspettare che si torni alla normalità».
Verso la fine dell’estate, ha iniziato a esplorare nuovi modi di connettersi col mondo, come “l’esperienza virtuale” che ha offerto su TikTok ai fan che aspettavano i suoi concerti. L’obiettivo adesso è mettere in scena la storia di After Hours: una notte infinita e solitaria, piena di caos e vizi, che potrebbe sembrare fin troppo reale a chi è in isolamento a casa.
Tutto questo non gli ha lasciato molto tempo per sentire nuova musica. Quando gli chiedo cosa ha ascoltato durante l’anno, fatica a rispondere. Gli piacciono Roddy Ricch e Megan Thee Stallion ed empatizza con i tantissimi artisti che quest’anno non sono riusciti a lavorare.
«I nuovi artisti hanno bisogno dei tour», dice con l’aria del vecchio saggio del pop. «Sono i tour che mi hanno trasformato in The Weeknd. Era difficile dimostrare a quelli delle etichette – o al resto del giro – che ero qualcosa di più di un artista underground. Devi convincerli a venire ai concerti. Devi mostrargli 15 mila persone che cantano tutte le parole di pezzi che non passano in radio».
Sul palco il suo sound ha esteso la sua influenza su colleghi e anche sui suoi eroi, da Drake a Beyoncé. Col passare del tempo, The Weeknd gravitava sempre più verso il pop mainstream. «Ho sempre detto chiaramente che volevo diventare una pop star. Pensavo che House of Balloons fosse pop».
In giugno i Grammy hanno rinominato la categoria Best Urban Contemporary Album, in cui ha vinto i suoi tre Grammy, dopo che lo scorso gennaio Tyler, the Creator ha detto che gli sembrava un nome omnicomprensivo per gli artisti neri che suonano musica che va oltre i confini di genere. «È stato strano», dice Tesfaye della categoria, che ora si chiama Progressive R&B. «Mettere dischi come Starboy e Beauty Behind the Madness nella stessa categoria di altri artisti non è stato corretto». Quei due dischi erano orgogliosamente pop e hanno sconfitto un gruppo d’artisti decisamente eterogeneo: Childish Gambino, Lianne La Havas e SZA.
«C’è una varietà incredibile nell’r&b e nella musica nera. Se ci mettono tutti nella stessa categoria sarà comunque ingiusto. Vedremo come andrà a finire».
Tesfaye ha osservato con attenzione il risveglio dell’industria discografica che ha seguito le proteste contro l’uccisione di George Floyd per mano della polizia di Minneapolis. Ha destinato 500 mila dollari agli aiuti legali per i manifestanti e per il movimento Black Lives Matter. Ha pubblicato le ricevute delle donazioni e ha chiesto alla sua industria di alzare la voce per i diritti dei neri dopo aver sfruttato per decenni il loro talento: ha fatto specificamente i nomi di Universal Music Group (che possiede l’etichetta Republic), Sony e Warner, così come delle piattaforme streaming come Spotify e Apple Music.
«Il silenzio era assordante. Ho deciso di cominciare da solo a diffondere l’idea. Ho taggato mezzo mondo. Ho chiesto soldi a un sacco di gente, mica succedeva tutto su Instagram. Chiedevo di farlo per la comunità, per la cultura. Dovevamo farlo». È un’energia che il cantante non ha smarrito nel corso dell’anno. Il suo TikTok si è trasformato in una raccolta fondi per Equal Justice Initiative, organizzazione non profit che mira a porre fine all’incarcerazione di massa negli Stati Uniti, raccogliendo 350 mila dollari. Dopo l’esplosione al porto di Beirut, Tesfaye ha donato 300 mila dollari a Global Aid for Lebanon.
Quando gli si chiede degli altri modi in cui l’industria può aiutare gli artisti neri, Tesfaye spiega che «non è solo una questione di soldi. Bisogna avere il possesso della musica. È la nostra anima, nessun altro la deve possedere». Lui ce l’ha: possiede i suoi master fin dall’inizio e attraverso la XO, l’etichetta che ha fondato nel 2010 con il direttore creativo La Mar Taylor, ha fatto lo stesso con gli amici Nav, Belly e Black Atlass. Sarà la XO a produttore il film che sogna di fare, se mai verrà realizzato. «Mettiamo il 110% del nostro impegno in qualunque progetto: il film, Nav, Weeknd. Un impero è grande solo se ha un cuore e un’anima».
L’impero di The Weeknd potrebbe arricchirsi di un altro album prima del ritorno alla normalità. Ha infatti cominciato a produrre nuove canzoni in uno studio improvvisato nel suo appartamento. «Per quando sarà finita la quarantena potrei avere un disco pronto», dice mentre un sorrisetto traspare dalla voce, come se già pregustasse un altro inevitabile successo. Non è ancora appagato e non vuole diventarlo mai e difatti ha passato mesi interi a scrivere a casa e vedere horror coreani.
«Lo confesso: voglio far meglio dell’ultimo album. Ma non voglio ripetermi. Non sono fatto così fortunatamente. Lavoro con un’ampia tavolozza di colori».
La musica che sta scrivendo è parecchio diversa da quella di After Hours: un nuovo pianeta è apparso nel Weeknd Cinematic Universe. «Cerco l’equilibrio perfetto tra film e musica, e finora è andata bene. Forse ho decifrato l’enigma».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.