Danny Brown siede al tavolo del ristorante di un hotel del West Village, a Manhattan. Ha lo sguardo perso nel vuoto e un’espressione imperturbabile. Non ci sono altri avventori oltre a lui e al suo manager, ma anche se fosse pieno di gente il rapper si farebbe notare. Oggi poi ha un look sgargiante: camicia di un blu sfumato, jeans decisamente baggy, stivali MSCHF rosso brillante, tipo Astro Boy. Arriva il cameriere per le ordinazioni e Brown gli chiede di portare via il menu degli alcolici. «Per me è un buon momento dal punto di vista della testa», assicura. «Sono felice e tutto il resto. È solo che ora come ora non voglio quella roba attorno».
Avremmo dovuto incontrarci a Detroit, dove Brown è nato e dove sono iniziati i suoi problemi con le sostanze. E invece siamo a New York, in un pomeriggio in cui il fumo degli incendi canadesi ammanta la città di una coltre di nebbia grigia. Da quando si è trasferito da Detroit ad Austin, nel 2021 (e soprattutto da quando è entrato in rehab questa primavera) Brown sta cercando di adottare uno stile di vita più sano. Quando il cameriere torna, ordina petto d’anatra e Coca.
L’amore di Brown per le droghe e l’alcol è stato uno dei temi principali della musica che l’ha fatto diventare uno dei rapper più selvaggi e popolari della sua generazione. È successo a partire dall’album del 2011 XXX in cui raccontava di aver bevuto bicchieri di Hennessy con l’aggiunta di MDMA e di aver “sniffato Adderall sul bancone della cucina”. Ascoltarlo era come cadere all’indietro da una scogliera: le canzoni erano cariche di adrenalina, di euforia e di una sensazione di imprevisto che sembrava elettrizzante.
Brown ha un bel ricordo delle session di XXX, che si sono tenute nelle ore buche in uno studio di Detroit in cui lavorava un amico. «Mi svegliavo alle 5 del mattino, ci intrufolavamo lì e lui mi lasciava un’ora o due a disposizione», ricorda. «Ce la facevo a buttare giù tre, forse quattro canzoni». Col senno di poi, in quel periodo non era tutto positivo. «Ero fuori controllo», ammette. «Avevo appena iniziato a sperimentare con le droghe e tutto il resto. Era la fase del divertimento. Ma ero già abbastanza adulto da sapere in cosa mi stavo cacciando».
La vita gli è cambiata radicalmente dopo l’uscita di XXX. Compiuti i 30 anni (ora ne ha 42) ha cominciato a fare tour a tappeto. Per la prima volta, ha preso a guadagnare molto bene con la musica. «Mi stressavo tantissimo pensando a come sarebbero stati accolti i dischi. Mi sballavo per affrontare quella roba. Non ci dormivo. Mi svegliavo preoccupato che la gente dicesse che la mia musica faceva schifo e che la mia carriera sarebbe finita».
Il settimo album in studio Quaranta uscirà in autunno e rappresenta un’occasione per chiudere una fase. È il disco più personale di Brown, una confessione che nasce dal dolore, dall’isolamento e dall’avere toccato il fondo. Rispetto ai lavori precedenti, suona più serio e lucido, e prende di mira i propri difetti e i colleghi rapper mediocri. «Volevo buttare fuori tutto», spiega. «Non sapevo quanto a lungo sarei vissuto. È stato uno di quei momenti tipo: adesso dico il cazzo che voglio su questa roba, farò sapere al mondo come mi sento».
Un uomo si avvicina al tavolo e, prendendo spunto dagli stivali, inizia a parlare con Brown dei cambiamenti della moda nelle generazioni più giovani. Poco dopo offre di venderci dell’erba. «Un anno fa avremmo fatto comunella», dice Brown mentre lo sconosciuto si allontana deluso. «Non avevo la minima intenzione di smettere di fumare erba. Volevo solo andare in rehab per l’alcol. Ma una volta dentro impari tante cose».
A fine marzo, dopo un’ospitata disastrosa in un podcast in cui criticava la sua etichetta, la Warp, Brown è entrato in riabilitazione grazie a un fondo elargito dal programma MusiCares della Recording Academy. «Ho iniziato a mangiare sano, c’era del cibo pazzesco, il centro di riabilitazione in cui sono andato è un cazzo di posto da 50 mila dollari al mese».
Oltre a una dieta più sana, Brown ha trovato fede, spiritualità e una nuova visione della vita. Una decina d’anni fa l’idea della morte lo spaventava. «Mi metteva paura, ora invece penso che arriverà quando deve arrivare. Mettiamola così: la vita è una scuola e quando muori è il giorno del diploma. Quando la volontà divina è pronta a farti diplomare, tu ti diplomi. Ma io non ho ancora portato a termine quello che devo fare qui». Questa presa di coscienza non è cominciata dopo essersi ripulito: «Una volta ho avuto un trip pazzesco di funghi allucinogeni in cui ho visto la mia tomba e roba del genere. Da allora mi sono sentito molto più sereno».
La scorsa estate, dice, è arrivato a prendere fino a 14 grammi di funghi allucinogeni al giorno. «Credo che mi abbia davvero incasinato il cervello, quando mi corico per andare a letto vedo immagini e roba così. Una persona che non ha mai preso i funghi prima si spaventerebbe di fronte alle cose che vedo quando chiudo gli occhi». Ora come ora dorme dalle otto alle dieci ore a notte. «Forse sto recuperando tutto il sonno che ho perso quando mi drogavo. E faccio sogni vividi, come dei film».
Probabilmente Brown non è mai stato un rapper brillante quanto lo è oggi. Quaranta arriva dopo l’album del 2019 uknowhatimsayin¿, prodotto da Q-Tip; dopo la collaborazione a sorpresa con JPEGMafia di quest’anno intitolata Scaring the Hoes; e, forse la cosa migliore di tutte, dopo una barra di quelle che spaccano in Year Zero di Billy Woods. «Amo ancora l’hip hop. Sono arrivato al punto in cui ho smesso di preoccuparmi degli aspetti negativi e ho iniziato a guardare a tutti quelli positivi».
Purtroppo non ricorda nulla della session con Woods. Era sbronzissimo. «Ero un alcolizzato, sono un alcolizzato. Camminavo per il Lower East Side, mi fermavo nei bar, bevevo ovunque… probabilmente non avrei dovuto partecipare visto lo stato in cui ero. Ma quando sei ubriaco fradicio cerchi di fare le cose che ti sembrano divertenti. Mi son detto: “Cosa? Billy Woods è in studio? Andiamoci, cazzo!”. Sono arrivato e ho rappato. E non mi ricordo un cazzo».
Ha scritto il grosso di Quaranta nella sede della Bruiser Brigade a Detroit, dove lui e gli artisti dell’etichetta da lui fondata lavoravano ognuno ai propri progetti. Era un periodo difficile: stava vivendo una brutta separazione e si era trasferito nel centro di Detroit, un luogo in fase di rapida gentrificazione, proprio allo scoppio della pandemia. «Ero bloccato in quel cazzo di attico. Non potevo avere ospiti. C’era la security alla porta. Ero da solo, depresso, mi facevo di coca e mi ubriacavo ogni sera, da solo».
Allo stesso tempo, si trovava ad affrontare difficoltà economiche dovute alla cancellazione degli spettacoli, tra cui un tour europeo già organizzato. «Stavo letteralmente per trovarmi al verde», racconta. «Tutti i miei risparmi erano andati in fumo. La mia carta di credito era bloccata. Ma era anche colpa mia. Mi drogavo: prima che me ne rendessi conto mi ero sniffato la casa e non guadagnavo più un soldo».
Nel corso dell’ultimo anno Brown ha ripensato al periodo vissuto a Detroit negli anni ’80. Nel complesso, da bambino ha avuto una bella vita, coi videogiochi che lo tenevano lontano dalla strada. Sapendo che era appassionato di rap, il padre gli aveva anche procurato l’attrezzatura per registrare. «Sono cresciuto usando roba economica. Ho visto un vero studio solo quando ho compiuto 18 anni e ho avuto dei soldi miei: a quel punto sapevo già come si faceva».
Lui e i suoi fratelli venivano spesso lasciati soli dai giovani genitori. «In un certo senso, volevano essere ancora ragazzi. Volevano vivere la loro vita. Mia madre voleva andare in discoteca nei fine settimana e così ci lasciava con chiunque ci potesse tenere, uno zio, un cugino o altri. Ed è lì che siamo venuti a contatto con molte delle cose brutte che i ragazzi non dovrebbero sperimentare».
Brown sta anche imparando ad assumersi la piena responsabilità delle proprie azioni. Sta praticando la Preghiera della serenità che ha imparato in rehab. Fare Quaranta, uno sfogo catartico di tutto quello che stava passando prima di farsi aiutare a risolvere i problemi di droga e alcol, è stata un’occasione per ricominciare.
«È stato il mio modo di scaricarmi. Ero ossessionato dal pensiero: domani sarò ancora vivo? Mi sono detto: nel caso dovessi morire, questo è ciò che ho da dire. È tutto lì dentro».
Da Rolling Stone US.