Non c’è titolo migliore di Ghost Stories per quello che, stando a quanto dice la band americana, sarà l’ultimo album in assoluto dei Blue Öyster Cult. Da sempre la storia, i testi e l’immaginario del gruppo hanno girato intorno al misterioso, al nascosto agli occhi, all’esoterico. Eppure, Ghost Stories è ben diverso da The Symbol Remains, l’ottimo album uscito in piena pandemia che aveva fatto gridare al miracolo dopo decenni di silenzio discografico. Non per la qualità dei brani, sempre elevata, ma perché Ghost Stories è composto da canzoni concepite e registrate tra la fine degli anni ’70 e l’inizio del decennio successivo, quando il gruppo ricopriva ancora un ruolo di prim’ordine in ambito hard & heavy. Va da sé che questa è anche la prima uscita a vedere riunita la formazione originale dai tempi di Imaginos, per molti il loro ultimo vero capolavoro, datato 1988.
Per l’occasione abbiamo fatto due chiacchiere con Donald “Buck Dharma” Roeser, cantante, chitarrista e fondatore della band insieme a Eric Bloom e Allen Lanier.
C’era molta curiosità intorno a Ghost Stories, sia per la possibilità di sentire ancora una volta all’opera la formazione classica dei Blue Öyster Cult, sia per l’emozione di trovarsi tra le mani brani inediti di un periodo molto creativo per voi. Ti ricordavi di tutti i brani ritrovati?
Mi ricordavo solo alcuni brani e chiaramente non nel dettaglio. Però riascoltarli mi ha aiutato ad aprire una porta temporale nella mia memoria e devo ammettere che è stato piacevole. Ho ricordi splendidi di quel periodo della nostra storia, spesso considerato meno importante del precedente, ma che forse mi sono goduto di più. Eravamo più consapevoli e non dovevamo più dimostrare nulla. E Cultösaurus Erectus, Fire of Unknown Origin e anche The Revölution by Night restano grandi dischi.
Qualche anno fa siete tornati a far parlare di voi con un disco di inediti potentissimo. Perché non proseguire su quella strada?
Onestamente, ero convinto non ci sarebbero più stati nuovi album. Erano passati decenni prima di farne uno e pubblico e critica ci avevano confermato che poteva essere un ottimo modo per salutare i nostri fan. Poi sono rispuntate queste tracce, Richie Castellano (chitarrista odierno e produttore del disco, nda) ha fatto un lavoro incredibile per demixare le tracce originali e mixarle nuovamente, aggiungendo nuove nostre parti, senza farle sembrare musica diversa da quella che facevamo in quegli anni. Dando una coerenza a brani che di fatto non potevano averla, provenendo da session differenti.
Non avete mai puntato sull’effetto nostalgia, né su prodotti di facile consumo o senza ispirazione. Piuttosto non avete fatto album per anni. Ne doveva valere la pena.
Non so se ne valesse la pena o meno. Di fatto la nostra storia non cambia senza questo disco. Però è bello aver dato luce e senso a brani che sarebbero andati persi o magari utilizzati chissà quando, senza il nostro consenso esplicito. In un album cerchi di inserire i brani migliori che hai, ma spesso quelli che lasci fuori non sono meno validi. Magari non funzionavano nel contesto di un disco o semplicemente non c’è più spazio e sei costretto a fare delle scelte. Da alcuni di quelli riparti per il disco successivo, ma tante canzoni si perdono. Penso a So Supernatural, che avrebbe potuto far parte di tutti quei dischi: mi ha fatto venire molta nostalgia di quella formazione, avevamo qualcosa di speciale. E poi ho pensato tanto a Allen (Lanier, scomparso nel 2013, ndr).
Che cosa vi differenziava così tanto dalle altre band americane alla fine dei ’60?
Quando ci siamo formati c’era forse solo una grande band americana che andava palesemente contro l’ordine costituito e i concetti di peace & love che imperversavano all’epoca: i Doors. Noi in qualche modo ci siamo inseriti in quel filone, ma con un suono e dei testi che, anche volendo, non avrebbero mai potuto scalare le classifiche. Ti parlo di prima di (Don’t Fear) The Reaper, chiaramente. Amavamo la fantascienza, i film horror, leggevamo tutti tantissimo. Parlavamo di cose innominabili. Soprattutto eravamo molto eclettici, forse anche troppo per l’epoca. Ognuno di noi, poi, scriveva e cantava. Insomma, forse in quello eravamo diversi dagli altri.
È buffo, perché l’ultima volta in cui tu, Bloom, Lanier e i fratelli Bouchard avete collaborato fu per Imaginos, un’opera per certi versi simile a questa. Fatichi ancora a ritenere Imaginos un disco dei Blue Öyster Cult?
Se ci hai fatto caso, l’edificio nel video di So Supernatural ricorda quello sulla copertina di Imaginos, ma si tratta di album molto diversi. Faccio fatica a considerarlo un nostro disco semplicemente perché non nacque come tale, ma come un progetto di Albert Bouchard e Sandy Pearlman. Albert era uscito dal gruppo e aveva ripreso in mano una storia di Sandy da cui avevamo già tratto diversi pezzi in precedenza. Ecco perché in Imaginos sono presenti brani già molto noti al nostro pubblico. Quando la Columbia si rifiutò di pubblicare quello che avevano messo insieme, Sandy ci chiamò per chiederci di metterci le mani e farlo uscire a nome Blue Öyster Cult. Ma di fatto resta un album loro e dei musicisti che ci hanno suonato. Anche Ghost Stories è stato assemblato, ma quelli eravamo noi tutti insieme in uno studio, con una visione comune.
La storia secondo cui Patti Smith avrebbe potuto essere la vostra cantante è vera o è una specie di leggenda metropolitana? Ne ho letto e sentito parlare spesso, ma sempre senza grandi dettagli.
Come saprai, Patti e Allen sono stati insieme diverso tempo. Era il periodo in cui lei andava in giro improvvisando reading e spettacoli per strada, però si capiva che con quel talento sarebbe arrivata lontano. Per quello, a un certo punto, più che offrirle un posto di cantante nel gruppo, come hanno scritto in molti, ci siamo offerti di farle da backing band. Non ricordo bene perché la cosa non andò in porto, ma mi piace pensare che sia stato meglio così per entrambi. E poi a noi sono rimasti dei pezzi stupendi scritti da lei (ride).
Quasi per uno scherzo del destino siete sempre rimasti una band di culto. Quando vedete gruppi che vi devono moltissimo riempire gli stadi, pensate mai di aver sbagliato qualcosa?
Qualche volta è successo, ma tutto sommato poteva andare solo così, proprio per quello che ti dicevo poco fa. C’è stato un momento in cui probabilmente avremmo potuto diventare grossi, sarebbe bastato comporre qualche brano in più come Godzilla o Reaper, ma trovavamo molto più divertente fare altro. Inoltre, e questo può essere stato un errore, non ci siamo mai interessati al business, a quello che si muoveva a livello economico. Come tanti giovani gruppi siamo stati fregati per la nostra ingenuità, ma anche una volta maturati abbiamo continuato a vedere con sospetto il lato economico. Siamo comunque riusciti a fare una bella vita e a divertirci senza diventare superstar, non credo sia una cosa da poco.
Siamo sicuri che non ci saranno più nuovi album dei Blue Öyster Cult?
Per quanto mi riguarda, sì. Nessuno si sarebbe aspettato che in una manciata d’anni potessimo comporre un nuovo album e una raccolta come questa. Credo che chiudere la nostra storia con la vecchia band al completo sia la cosa migliore che possiamo fare. D’altra parte, non sono l’unico membro del gruppo e magari un giorno mi convinceranno. Gli anni però passano. Ora suoneremo questi pezzi dal vivo in almeno un’occasione, e io intanto ho appena chiuso il mio nuovo brano solista, che a breve verrà pubblicato. Ho chiuso il mio ciclo infernale, tutto quello che arriverà lo prenderò con gioia, senza ansia.