Una rabbia antica sotto nuove vesti, o vesti antiche per una rabbia inedita. Comunque le si voglia intendere le Lambrini Girls, duo noise punk originario di Brighton formato da Phoebe Lunny (voce e chitarra) e Lily Macieira (basso) che lo scorso venerdì ha pubblicato il primo album Who Let the Dogs Out, trovano compimento nella dialettica tra la rabbia che esprimono, quella della moderna consapevolezza delle minoranze schiacciate dall’antico capitalismo fatto di super-ricchi dall’immagine ripulita e sistemi finanziari e sociali che premiano la tracotanza, e le vesti punk. Quelle antiche del ’77 filtrate dall’esperienza del movimento riot grrrls e dal post punk, che si scoprono moderne grazie alla ristrutturazione mainstream del genere avvenuta soprattutto oltremanica a opera di band come Idles o Fontaines D.C.
Il progetto Lambrini Girls promette di aggiungere un tassello non indifferente a questo percorso di re-insediamento di certe idee e sonorità nel mercato internazionale e soprattutto mostra quanto l’attuale scenario politico e sociale mondiale sia – magra consolazione – terreno fertile per il ritorno in pompa magna della militanza e della protesta nelle canzoni. «Cazzo», esordisce Lunny, «è un mondo veramente pericoloso in cui vivere in cui il capitalismo al suo crepuscolo sta cercando di trascinarci tutti con sé. Ogni giorno vediamo una notizia nuova che ci fa infuriare perché è frutto della stessa matrice: abusi di potere sotto varie forme, da quelle private di stampo patriarcale a quelle esercitate dagli Stati attraverso la forza».
La militanza in passato ha fatto sì che le ragazze non si facessero problemi a boicottare festival qualora fossero in contraddizione con le loro convinzioni, ad esempio il SXSW l’anno scorso, in nome del sostegno alla causa palestinese. Non si tirano indietro di fronte alla prospettiva di tollerare la violenza. «Parlare di violenza per noi che siamo convintamente pacifiste non è per niente facile, tanto quanto parlare di minoranze e di oppressione sapendo che entrambe abbiamo, ad esempio, il white privilege», dice Macieira. «Però siamo arrivati a un punto in cui è evidente che chi è oppresso ha provato ogni strada per vedere rispettati i suoi diritti, che siano i diritti delle comunità queer, che siano i diritti rivendicati dal femminismo o che siano i diritti delle classi sociali più svantaggiate. Quindi non mi stupisco per nulla che una persona che ogni giorno subisce violenze da parte di chi sta più in alto a un certo punto arrivi a contemplare la violenza come ultima risposta disponibile. È naturale che succeda, e ci sono molti casi in cui non mi viene proprio da condannarlo».
La violenza, in questo caso verbale e musicale, è costantemente presente nel disco: la critica sociale di Who Let the Dogs Out è feroce, esplicita, sboccata e urgente, e le varie declinazioni della disuguaglianza sociale si mettono in fila, traccia dopo traccia, ad aspettare la loro lavata di capo: dalla violenza delle forze dell’ordine all’ipocrisia dei ricchi che si mostrano meno ricchi per moda, passando per le molestie sessuali, il machismo, l’omofobia, la transfobia, il razzismo, in una sorta di discesa negli inferi la società viene messa di fronte a sé stessa, girone per girone. Non mancano poi temi di natura più privata (anche se nel disco i confini tra pubblico e privato sono molto labili: «La vita di tutti i giorni è una serie di atti politici», dice Lunny, «in ogni cosa che fai c’è la possibilità di compiere una scelta politica»), come Nothing Tastes As Good It Feels in cui Phoebe Lunny scava con ironia nelle sue esperienze di disordine alimentare e Special Different, che parla di neurodivergenza, condizione che accomuna entrambe le componenti della band.
«Mi sono molto emozionata quando ho letto per la prima volta le cose che aveva scritto Phoebe in questa canzone. Credo che essere neurodivergenti significhi vivere in un mondo che non è pensato per te e che questa cosa accomuni la neurodivergenza e tutte le altre condizioni che determinano l’appartenenza a una minoranza. Questo perché il grande paradosso del capitalismo, che predica il culto della libertà, è che è di fatto un sistema sociale che non contempla la diversità. La ammette sulla carta, ma di fatto non fa nulla per includerla nel suo sistema. Per questo è così difficile e così importante, per la maggior parte delle persone appartenenti a minoranze, trovare un posto nel mondo che contempli anche loro. Per noi quel posto è sempre stata la musica e l’obiettivo fin dal primo momento è sempre stato da un lato auto-legittimarci attraverso questo strumento, dall’altro offrire una piattaforma che potesse dare voce a tutte le minoranze».
Il disco d’esordio delle Lambrini Girls, contrariamente alle dinamiche standard che vedono un’alternanza più o meno regolare tra i periodi in studio e i tour promozionali, è stato realizzato in un ritaglio forzato e autoimposto di tempo nel bel mezzo di una attività live che il duo portava avanti da più di due anni, lasciando dietro di sé una scia di aspettative altissime, alimentate anche dai numerosi riconoscimenti ricevuti – tra cui una nomination come Rising Star ai Rolling Stone UK Awards – e all’asticella delle apparizioni nel contesto dei festival che si alzava di mese in mese, fino a raggiungere Glastonbury e l’Iceland Airwaves.
La risposta delle due musiciste è stata raccogliere una manciata di idee, prendersi un mese di pausa dall’attività live, trovare una farm nell’Oxfordshire in cui ritirarsi e lasciare che le cose fluissero: una prima sessione efficiente (sveglia, jogging, lavoro fino alle 19, cena e letto), una seconda da apocalisse alcolica, con – dichiarate – 48 birre, una bottiglia di vodka, sei bottiglie di vino, due di Lambrini, rum e tequila bevute in una settimana. Anche se «è errato dire che la prima delle due sessioni sia stata più sobria», precisa Macieira, «come se fosse una nostra scelta. Semplicemente abbiamo finito l’alcol ed eravamo in un posto in cui senza auto era davvero difficile raggiungere nuovamente la Tesco, e quindi la seconda volta siamo arrivate più attrezzate».
Registrato con Daniel Fox dei Gilla Band e mixato da Seth Manchester, Who Let the Dogs Out riflette per certi versi questa genesi bifronte, con il caos che si inserisce in strutture solide e ragionate, ma soprattutto riflette il senso di urgenza, non solo comunicativa ma anche effettiva dei termini di consegna, riducendo all’essenziale gli elementi presenti e ricreando su nastro l’energia d’insieme rodata da due anni di attività live e punto di forza del progetto e forse anche del filone musicale in senso più ampio in cui le Lambrini Girls si stanno inserendo (a breve partiranno per un tour di supporto agli Idles).
Tutto questo fa sì che Who Let the Dogs Out abbia tutto il potenziale per rivelarsi un caso. Intanto perché è insolito che un disco di esordio sia così tanto atteso dagli addetti ai lavori e dagli appassionati di tutta Europa, quasi a scatola chiusa; in secondo luogo perché questa attesa incontra Phoebe e Lily in un momento della loro vita e della loro militanza in cui sembrano avere tutti i sintomi della consapevolezza necessaria a gestire quello che verrà. «Non ci rendiamo tanto conto delle aspettative su di noi», dice Lunny, «anche se ce lo stanno chiedendo in diverse interviste quindi probabilmente c’è qualcosa di vero. Noi siamo semplicemente impegnate nel promuovere la nostra musica e nell’affrontare giornate pienissime una dopo l’altra, e soprattutto a occuparci dei concerti, come abbiamo fatto negli ultimi due anni».