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L’America di Giorgio Poi

Appena tornato da un tour oltre oceano con i Phoenix, il cantautore racconta lo stato della musica italiana all'estero, tra l'eredità del passato e po' di paura per il futuro.

Giorgio Poi. Foto di Kimberley Ross

In un periodo storico così florido e stimolante per la nostra musica, c’è chi si domanda se sia arrivato il momento buono per farla uscire dallo stivale. In realtà non sembra un’impresa facile: passata la belle époque dell’eurodance nei ’90, dopo siamo riusciti ad esportare solo la lirica pop, i dj, alcuni produttori trap e qualche cantante della vecchia guardia. E Giorgio Poi, ovviamente. I Phoenix se ne sono innamorati, lo hanno portato sul palco con loro prima in Italia, poi a Parigi e infine nelle dieci date in USA, divise tra il Brooklyn Steel di New York e il Fonda Theatre di Los Angeles, che si sono concluse poche settimane fa. Lui è consapevole di non essere ancora pronto a diventare il nuovo simbolo del made in Italy nel mondo, ma – come ogni cervello in fuga che si rispetti – ha le idee molto chiare sul valore della nostra tradizione e di quanto sia importante oggi cantare in italiano. Ci racconta le sue canzoni e tira le somme su tutto quello che gli è successo in meno di due anni, da quando Bomba Dischi ha pubblicato Fa niente, il suo esordio da solista.

Partiamo dall’inizio. Prima della data a Parigi o di quelle in America, c’è stato quel famoso messaggio che poi abbiamo letto tutti. Il 6 ottobre ricevi un sms da parte dei Phoenix che ti invitano ad aprire il loro concerto di Milano. Quando l’hai visto come hai reagito?
Forse un “cazzo” sarà partito, non ricordo bene (ride). Ovviamente ho risposto che ne sarei stato felicissimo. Inizialmente lo screenshot l’avevo fatto per dare la notizia agli altri due ragazzi della band, poi ho deciso anche di utilizzarlo in comunicazione. Mi sembrava un modo carino per dirlo al resto delle persone.

Quali sono i tuoi pezzi preferiti dai Phoenix?
Tutto è partito da Branco, o meglio, da sua moglie che aveva scoperto il mio disco in streaming e gliel’ha fatto sentire. La prima ad averli colpiti era Acqua Minerale, mentre la sua preferita penso sia Semmai. Inizialmente non la suonavamo così spesso ma, per queste ultime date, mi ha chiesto se potevamo inserirla in scaletta. Effettivamente è quella che ha avuto più presa sul pubblico straniero e meno sugli italiani. Non so perché, non sono mai riuscito a spiegamelo.

Con le tue precedenti band – Vadoinmessico e Cairobi – avevi già fatto festival importanti e ti eri trovato di fronte a moltissima gente che non era lì solo per te. Come è andata questa volta?
La novità è che, per la prima volta, andavo a cantare in una lingua che il pubblico non avrebbe compreso. Non sapevo nemmeno se il pubblico se l’aspettava. Ai primi pezzi vedevo sempre delle facce del tipo “ma che sta a dì questo”, poi, man mano che si andava avanti, si scioglievano. Si sono dimostrati molto calorosi e questa non era una cosa scontata. Fare un concerto di quaranta minuti tutte le sere con la gente presa male – si parlava di duemila persone a concerto, per dieci concerti – poteva diventare un problema, invece è andata bene. È stato un ottimo riscontro per me.

La tua più grande paura prima di salire sull’aereo per New York qual era?
Oltre all’accoglienza del pubblico, diciamo che ero preoccupato per gli aspetti più banali. Era un impegno grosso, era importante non fare cazzate. Ormai sono abbastanza disincantato a riguardo, non credo che nel mondo della musica esista ancora una singola cosa che ti fa davvero svoltare, a meno che tu non faccia il Superbowl o eventi simili, è sempre un percorso che procede passo per passo, ma questo era un passo più grande rispetto agli altri.

Che rapporto hai con l’adrenalina?
Negli anni ho capito che ti serve in una certa quantità: se ce n’è troppa diventi eccessivamente nervoso, se ce n’è poca ti manca quella giusta dose di tensione che ti tiene attento. La situazione migliore per me è quando sono tranquillo prima di iniziare ma, appena salito sul palco, mi prende qualcosa allo stomaco e allora sono costretto a reagire.

Com’è fare così tante repliche dello stesso show e nello stesso posto?
Mi è piaciuto molto, prendi sempre più confidenza con la sala e con le dimensioni del palco, ogni volta provi a fare meglio. Infatti il concerto migliore di New York è stato il quinto, mentre a Los Angeles il terzo dei cinque. Con la band, dopo ogni live, parliamo sempre di come è andata, cosa ha funzionato e cosa no, e in questo tour ci sono state alcune che possiamo considerare come le migliori date in assoluto fatte finora. Intendo proprio come performance e come show, a prescindere dalla risposta del pubblico.

In camerino tutti bravi ragazzi?
Intendi noi o i Phoenix?

Se vuoi fare la spia fai pure.
(ride) Tutti bravi ragazzi. L’alcool, poi, serve sempre, qualcosa lo devi bere se vuoi sciogliere la tensione. I Phoenix in tour sono molto particolari: a bordo palco sembrano un gruppo da liceo alla sua prima volta. Li vedi molto concentrati, qualcuno è un po’ più nervoso, qualcuno meno, ma c’è sicuramente un’aria frizzante. Li stimo molto, sono riusciti a creare delle dinamiche che chiunque faccia il mio lavoro invidierebbe, sia tra loro che con i loro tecnici. C’è davvero un bellissima atmosfera.

Questo tuo tour con i Phoenix ha generato un certo entusiasmo tra gli addetti ai lavori. Per alcuni è l’esempio che la nostra musica può risultare nuovamente interessante anche fuori i confini i nazionali. Io non sono particolarmente d’accordo, tu?
È sicuramente un interesse di nicchia, è chiaro, l’americano medio non ascolta certamente il mio disco. Sono convinto, però, che se qualcuno si avvicina alla nostra musica, lo fa con un approccio da appassionato di world music e gli interessi sentirla in italiano. Se, ad esempio, volessi scoprire qualcosa di più sulla musica russa non mi cercherei una band che canta in inglese ma nella sua lingua originale. Lo stesso vale per un ascoltatore che si incuriosisce delle nostre canzoni, no?

E noi italiani cosa possiamo esportare?
Un gusto per la melodia che è solo nostro. Ed è trasversale, prescinde dai generi o dagli stili. Abbiamo un modo di sentire e scrivere la melodia molto preciso e riconoscibile. Forse l’abbiamo un po’ abbandonato negli anni perché, per un certo periodo, la musica italiana era un po’ vista come sfigata e per essere alternativi si finiva per evitare riferimenti melodici di un certo tipo, ma recentemente questa tendenza è sicuramente cambiata.

Lavori tanto sulle melodie?
Tantissimo. La melodia è il motivo per cui, se non mi convince, butto via una canzone. Anche nella scelta delle cover il fattore melodico è molto importante: me lo devo sentire vicino, molto più del testo che devo interpretare. Per questo Ancora, Ancora, Ancora di Mina non mi sembrava una scelta così difficile, toccava delle cose che, in qualche modo, me la facevano già sentire mia.

Sei consapevole di essere molto intonato, no?
Mah, non lo so. Io ho sempre una sensazione di pericolo quando canto, lo sento che basta un niente e si va fuori, si perde la magia. Non mi percepisco come una voce molto intonata, oltre a non avere la classica bella voce. Ho una voce un po’ strana e, di rimando, mi piacciono le voci un po’ strane.

Chi sono stati i tuoi maestri?
Lucio Dalla è sempre stato molto importante per me, soprattutto per il ritmo che dava alle melodie e alle metriche che usava. Lo sentivo fin da piccolo, a casa mia se si faceva un viaggio in macchina bisognava mettere Lucio Dalla. Oppure Battisti, ho un video di mia madre che mi dava da mangiare quando avevo sei mesi e nel mentre cantava Acqua Azzurra, Acqua Chiara. Sono cose che ti rimangono dentro. Magari da adolescente la rifiuti perché ti sembra una musica da vecchi, ma poi ti ci riavvicini perché ti tocca delle corde che nessun altro riesce a toccare.

Dici spesso che Fa Niente rappresenta bene la tua idea di musica italiana, in realtà è molto distante da cosa sentiamo di solito. Che ne pensi?
In quel disco ci sono sicuramente i miei modelli di riferimento, ma puoi anche vederlo come l’idea che un italiano si è fatto della musica del suo paese nonostante non ci vivesse da undici anni. È sicuramente una visione un po’ distorta, ma ti assicuro che mi sono proprio seduto a tavolino e mi sono detto “voglio fare la cosa più italiana di sempre”.

In meno di due anni il tuo pubblico è cresciuto tanto, mi racconti come è andata?
È stata una crescita piuttosto lenta e naturale. La maggior parte dei miei colleghi hanno avuto percorsi più convulsi e sicuramente molto diversi dal mio. Fa Niente è un disco che si scopre pian piano. Molte persone, ad esempio, mi hanno detto che all’inizio trovavano la mia voce fastidiosa e dopo, invece, hanno imparato ad apprezzarla.

Missili in tutto questo è servito?
Non l’ho capito manco io, sai? Da poco è pure diventato disco d’oro. Sicuramente se l’avessi prodotta io e non Takagi e Ketra avrebbe avuto meno successo. Io mi sono divertito molto, sia perché mi ha portato fuori da una determinata comfort zone, sia perché mi fatto conoscere Frah, con cui sono rimasto amico e che ho continuato a frequentare. Ne sono uscite solo cose positive, insomma.

La prima canzone quando l’hai scritta?
A 12 anni e mi faceva schifo. Era una canzone d’amore per questa ragazzina che mi piaceva, ma non l’avevo mai fatta sentire a nessuno, se non a quello che ai tempi era il mio migliore amico. A lui era piaciuta e, dal momento che eravamo innamorati della stessa ragazza…

Non dirmi che gliel’ha cantata lui.
Sì, gliel’ha cantata dicendo che era sua. Io gli avevo dato il permesso, pensavo che fosse così brutta e credevo che l’avrebbe tolto dalla corsa… invece.

Giorgio è una storia tristissima, oltre a farmi notare che il tuo livello di autostima non è mai stato dei migliori. Dove ti vedi tra cinque anni?
A lavorare in un bar?

Ma non eri il nuovo Bocelli?
(ride) Posso dirti solo le mie speranze, ovvero continuare a fare concerti, magari avere dei figli. Nonostante siano tanti anni che faccio il musicista, non riesco ancora ad avere la certezza che mi andrà sempre bene. Sai, la musica cambia, ad un certo punto puoi piacere meno o, peggio, non avere più niente da dire. È la cosa che mi terrorizza fin dalla prima canzone: hai sempre la sensazione che quella hai scritto potrebbe essere l’ultima cosa decente della tua carriera. Mi spaventa tantissimo il pensiero di trovarmi con foglio e chitarra e non avere idee, anche perché in realtà succede che ci siano momenti dove proprio non ne hai. La mia paura è che quel momento possa essere prolungato e diventare giorni, mesi, anni in cui non produci nulla.

Che esagerazione… In America hai stretto contatti, hai fatto un po’ di pubbliche relazioni?
No (ride). Dici che dovevo lasciare a tutti il mio biglietto da visita? Ho conosciuto Beck ma, in effetti, non gliel’ho lasciato. Magai la prossima volta.

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