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L’anno orribile di Mike Patton: «Isolato, asociale, impaurito»

«Non ho niente da nascondere». Il cantante di Faith No More, Mr. Bungle e Dead Cross racconta per la prima volta la sua lotta per la salute mentale. «Stare in mezzo alla gente mi mandava fuori di testa»

Foto: Sebastien Bozon/AFP via Getty Images

Con grande sorpresa del suo entourage, Mike Patton vuole parlare di come la sua vita sia deragliata negli ultimi anni. «È buffo, perché il mio manager e il mio addetto alle relazioni pubbliche mi dicevano: “Ma davvero vuoi parlare di salute mentale in un’intervista?”», spiega. «“Ti faranno domande sull’argomento. Possiamo declinare”. E io: “No. Lascia che chiedano ciò che desiderano. Non ho niente da nascondere”. È davvero d’aiuto parlare di questa roba, sapete?».

Ora che i Dead Cross, il supergruppo hardcore punk di cui fa parte dal 2016, si preparano a pubblicare il secondo album, Patton è pronto ad aprirsi. E quando gli chiedi com’è nato il disco, scoppia a ridere. «Amico, quanto tempo hai a disposizione?».

È dal 2020, quando hanno pubblicato una cover di Rise Above dei Black Flag, che i Dead Cross cercano di rimettersi in pista. Quando il chitarrista Michael Crain, che è anche nei Retox, s’è preso il Covid e ha ricevuto una diagnosi di tumore in stadio avanzato (ora è in fase di remissione), ha scritto una serie di riff devastanti che utilizzava come terapia catartica e che ha inciso con gli altri Dead Cross, il bassista Justin Pearson (Retox, Locust) e il batterista Dave Lombardo (Suicidal Tendencies, Misfits, ex Slayer).

Patton ha registrato le sue tracce vocali da solo, nel suo studio casalingo: non sarebbe una cosa così strana, se non fosse che durante la pandemia gli è stata diagnosticata una forma di agorafobia. Si era accorto che qualcosa non andava quando, lo scorso autunno, non riusciva più ad uscire di casa e ha perciò bloccato l’attività delle sue band, Mr. Bungle e Faith No More, per «motivi di salute mentale». In aprile, poi, il batterista dei Locust e cantante originale dei Dead Cross, Gabe Serbian, è morto improvvisamente (le cause del decesso non sono, a oggi, ancora state rese pubbliche).

A dispetto di queste difficoltà, il gruppo ha continuato a lavorare a Dead Cross II. «La musica era pronta e avevamo la spinta giusta», dice Patton con tono allegro e scattante. «E poi dopo quello che aveva passato Crain ci siamo detti che dovevamo farlo. Non ci siamo posti il problema se continuare o meno».

L’album uscirà il 28 ottobre e sprigiona la medesima furia del precedente, con tutte le bizzarrie che i fan di Patton si aspettano da lui. Il cantante sussurra, urla, grida, duetta con Pearson in pezzi che parlano di circolazione delle armi (Christian Missile Crisis), di amare qualcuno al punto di «cagarmi addosso» (Love Without Love) e di come l’umanità sia il peggior nemico di se stessa (il singolo Reign of Error). Nel mentre, con le sue tipiche esplosioni di violenza, chiama in causa Billy Joel, Vince Neil e Chi Pig, il compianto frontman della punk band canadese SNFU. L’album, proprio come lo è Patton, è del tutto imprevedibile.

Patton non sa ancora se i Dead Cross andranno in tour, dato il disagio che gli scatena l’idea di viaggiare. A dicembre farà un tentativo on the road con un paio di date dei Mr. Bungle, se le sue condizioni psicologiche glielo permetteranno. Al momento si accontenta di vivere giorno per giorno e parla dei suoi problemi con grande candore.

Come avete deciso di andare avanti con Dead Cross II?
Gli altri avevano già iniziato a incidere prima della pandemia. Poi il nostro chitarrista ha preso il Covid e gli è stato diagnosticato un tumore. E come si può reagire di fronte a una cosa simile? «Gesù Cristo», ho pensato, «mettiamo questa roba in stand-by per un po’». Lui però è stato un vero carrarmato. Ha detto: «No, ho bisogno di fare questo disco. Mi aiuterà a guarire. Mi farà stare meglio. Sarà un po’ la mia cura». E, maledizione, aveva ragione. È guarito. Poi ho avuto anch’io dei problemi, anche se non dello stesso tipo, per cui abbiamo impiegato più del dovuto a finire l’album.

Quando i Faith No More e i Mr. Bungle hanno cancellato i loro concerti, hai diffuso un comunicato in cui facevi riferimento alla tua salute mentale. Ci puoi raccontare cosa è successo?
Non è ancora finita, ma ora va meglio. (Si ferma, nda). È facile dare la colpa alla pandemia. Ma devo essere onesto, amico. All’inizio della pandemia dicevo: «Che figata, posso starmene a casa e registrare». Sai, ho uno studio in casa. «Qual è il problema?». Poi è scattato qualcosa e mi sono isolato completamente, sono diventato quasi asociale, mi spaventavano le persone. Quella specie di ansia, o come vogliamo chiamarla, ha portato ad altri problemi di cui però non voglio parlare. Mi sono rivolto a dei professionisti affinché mi aiutassero e ora mi sento meglio, mi sento più vicino alla guarigione. Verso la fine dell’anno farò i miei primi concerti in circa due anni ed è il periodo più lungo che io ho mai passato stando fermo, da quando ho iniziato.

Quando dici che hai avuto altri problemi ti riferisci alle sostanze? All’alcol?
È stato un mix di tante cose. Ma principalmente, per me, è stata una faccenda mentale. Ho incontrato un po’ di psicologi e specialisti del genere e per me è stata la prima volta in assoluto. In pratica mi hanno diagnosticato l’agorafobia, il terrore delle persone. Mi mandava fuori di testa stare in mezzo alla gente. Probabilmente è stato causato dal fatto che ho passato due anni chiuso in casa durante la pandemia. Non saprei. Forse sono emersi problemi latenti che già avevo. Ma sapere di cosa si trattava e parlarne è stato molto d’aiuto. E vedremo come andranno le cose in dicembre.

Quando ti sei reso conto che qualcosa non andava?
Proprio quando i Faith No More stavano per tornare on the road. In quel momento ho perso la testa, è stato davvero brutto. Pochi giorni prima di partire ho detto agli altri: «Amici, non penso di farcela». Non avevo più fiducia in me stesso. Non volevo stare di fronte alla gente ed è strano, perché ho passato metà della mia vita facendolo. Era difficile da spiegare. Ci sono stati problemi da entrambe le parti, ma non avevo scelta, sarebbe potuto accadere qualcosa di molto brutto.

Avevate già iniziato le prove coi Faith No More?
No. È successo la sera prima di cominciarle. Sono uscito di testa. Ho detto: «Non riesco». Loro avevano già provato insieme per un po’… per cui anche io, al loro posto, mi sarei incazzato. E infatti erano incazzati. Credo lo siano ancora. Ma bisogna conoscere i propri limiti. E io sapevo che, se mi fossi spinto oltre, il risultato sarebbe stato un disastro. Mi sono detto: «Al diavolo. Forse non devo farlo. Anche se ho accettato e in tanti si incazzeranno. Devo prendermi cura di me». Sto diventando un po’ più bravo a farlo.

Adesso in che rapporti sei coi Faith No More?
Silenzio radio (ride). Forse riprogrammeremo le cose. Ma anche no. Non so dire altro. È strano e difficile. Se lo faremo, bene. Altrimenti va bene lo stesso.

Come ti senti in mezzo alle persone ora? Hai registrato con gli altri dei Dead Cross?
Ho inciso tutto da solo (ride), quindi non lo so, ma mi sento meglio e più sicuro, la fiducia sta tornando. Devo provare e vedere come va.

Cosa ti fa stare bene?
Il mio cane. E il mio giardino, è molto d’aiuto. E poi l’aiuto che mi dà la psicoterapia, i miei psichiatri e tutte queste cose. A volte è faticoso, ma so che è molto utile. E poi, lo ammetto, gli Alcolisti Anonimi mi stanno aiutando parecchio.

Mi è sempre piaciuta la Preghiera della serenità dagli Alcolisti Anonimi. E durante il lockdown mi è parsa davvero utile perché ti faceva dire: ok, queste cose posso cambiarle, mentre queste altre sono fuori dal mio controllo.
Sì è grande. Anche durante la pandemia, quando gli incontri erano online e non in presenza, quella roba funzionava. È una questione di rituale. Diventa una faccenda legata alla ripetizione e più lo fai, più vai a fondo. Me lo dicono tutti i miei amici…

Anche costruirsi una routine, come ad esempio fare dei dischi, aiuta.
Certo. Ma c’è il rischio che ricada nelle vecchie abitudini facendo quelle cose e lavorando come ero abituato. Sto cercando di cambiare il modo in cui lavoro, provo a essere meno maniacale e ossessionato, cerco di lasciare andare: «Ehi, non deve per forza succedere stanotte. Possiamo farlo domani o un altro giorno». L’unico che mi fa pressione sono io stesso. E quando capisci che sei tu il tuo peggior nemico, allora le cose si fanno meno dure e c’è meno stress.

All’inizio della pandemia hai detto a Rolling Stone che avevi diversi progetti in piedi. I Dead Cross erano uno di questi?
Sì, ma abbiamo finito quasi un anno fa. Il disco esce fra poco. Poi ho un paio di altre cose in ballo di cui sono molto entusiasta e rappresentano una specie di inversione di marcia rispetto a ciò che ho fatto in passato. Ma non posso dire altro.

In che senso «inversione di marcia»? Non hai già sperimentato di tutto?
Fidati, sarà diverso. Molto cool ed entusiasmante. Però, almeno per il primo dei due progetti, ho sottoscritto un accordo di riservatezza per cui non posso dirti di cosa si tratta.

Ora c’è il disco dei Dead Cross in arrivo. Cosa ti attrae ancora della musica heavy?
Dipende da cosa intendi per musica heavy. Se parliamo di musica a volume alto e aggressiva, non so… ce l’ho nel sangue. Coi Dead Cross in particolare per me è stato molto interessante, perché non ero mai stato in una band hardcore punk così, prima. Ero sempre stato più sul versante metal. Quando Gabe ha lasciato nel 2016, Dave Lombardo mi ha mandato un messaggio dicendo: «So che mi dirai di no, ma ti interesserebbe una cosa del genere?». Ho subito risposto: «Sì, al 100%. Facciamolo». In quel momento era perfetto. Così come l’altro progetto di cui non posso dirti nulla. Non è roba che ho cercato. È capitata. Forse, in un certo senso, sono un opportunista. Perché non sono io a concepire tutte queste cose… mi accadono intorno. E poi io dico: «Oh, dovrei buttarmi in questa cosa? O forse no?».

Eri amico di Gabe e sono certo che la sua morte abbia scosso tutti voi. Che ripercussioni ha avuto sui Dead Cross? È stato difficile finire questo album?
Ancora non riesco a credere che non ci sia più. Non so come gli altri abbiano reagito, ma quando accade una cosa del genere è durissima. E non provi mai emozioni nette. Sei triste, sei deluso, sei arrabbiato e a volte anche rancoroso. Di fronte a morti del genere succede e nessun se lo aspettava. Nessuno.

Abbiamo tutti provato sentimenti diversi. Ma quello principale è stato l’amore. Amavamo quel ragazzo e la sua personalità. Io avevo alcuni progetti in ballo e volevo lavorare con lui alla batteria. Era un batterista pazzesco, uno dei più grandi per me. E non siamo riusciti a fare nulla di tutto quello. Questa è una cosa che mi rimarrà sempre impressa. Porca miseria. E poi c’è molto altro. A dirla tutta, ho rimpiazzato due diversi cantanti in vita mia (Chuck Mosley dei Faith No More e Gabe Serbian, nde) ed entrambi sono morti. Cosa dovrei pensare? È una cosa dura da digerire.

Considerato quello che è accaduto a Gabe e il cancro di Michel Crain, andare avanti è stata una scelta coraggiosa.
Non ci siamo nemmeno posti il problema. Lo volevamo fare. E neppure ne abbiamo parlato, l’abbiamo fatto e basta. Credo che tutti condividiamo questa mentalità.

Ho apprezzato alcuni dei rischi che ti sei preso nell’album, come il cantato sussurrato in Love Without Love. Non è una cosa che si sente spesso nell’hardcore.
Già. Ed è questo il punto, in un certo senso. Tipo: fin dove posso spingermi?

Nello stesso brano dici «Ti amo così tanto», che non è molto punk, ma la frase finisce con «da cagarmi addosso».
È una cosa che dico da sempre. È normale per me. È il mio modo di parlare.

Hai cantato tutto tu nel disco?
No. Direi che metà delle voci sono di Justin Pearson. Se ascolti attentamente te ne accorgerai, perché lui ha questa voce pazzesca, con cui può urlare tantissimo. Lo sapevo fin dall’inizio perché sono stato in tour coi Locust e siamo amici da anni. Una cosa di cui mi rammarico, nel nostro primo disco, è che non abbiamo usato abbastanza la sua voce. È un’arma segreta che abbiamo nel nostro arsenale. Così mentre scrivevo i testi ho tenuto ben presente la cosa: «Ok, aspetta, questo verso è per lui. Quest’altro per me». È un approccio fondato sullo scambio. E credo che ci sia venuto bene.

Pensi che andrai in tour coi Dead Cross?
Vedremo. Chi può dirlo? Prima di tutto devo riprendere la mano, ma a un certo punto mi piacerebbe farlo.

Sembra proprio che tu voglia tornare a esibirti dal vivo, solo che quando c’è stata la possibilità di farlo non era il momento giusto.
Non è una questione di volere. È più una faccenda legata al poterlo fare. Ed è una cosa che ancora devo capire. Credo che col tempo ci riuscirò. Andrò avanti a piccoli passi.

Tradotto da Rolling Stone US.

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