Chiedo a Steve Albini, proprietario dello studio Electrical Audio e iconoclasta del rock underground, come se la passa e lui risponde con sarcasmo: «Lo sai, vero, che va tutto male?». Però poi spiega i danni causati dalla pandemia: «Non dare ad attività come la nostra delle linee guida su come lavorare in sicurezza è stato un chiaro fallimento dell’amministrazione Trump», dice a metà ottobre, poche settimane prima delle elezioni presidenziali. «Ci siamo dovuti inventare noi un protocollo».
«Abbiamo organizzato una session che coinvolgeva più persone di quelle che ci sembrava giusto avere nell’edificio, quindi abbiamo scaglionato gli arrivi. Quando sono arrivati, abbiamo misurato la temperatura e ci siamo assicurati che non avessero sintomi. Bisogna indossare la mascherina, lavare le mani, sanificare ogni cosa. Se non l’avessimo fatto e qualcuno si fosse ammalato sarei stato malissimo. All’inizio eravamo arrivati a chiederci: è responsabile da parte nostra mettere delle persone sotto uno stesso tetto? Dovevamo trovare il modo di lavorare in sicurezza».
Gli Stati Uniti affrontano un’altra ondata di coronavirus, il lockdown incombe su molti Stati, le imprese faticano. È da marzo che l’industria musicale subisce un colpo dopo l’altro. Gli studi di registrazione, in particolare, stanno lentamente cercando di tornare ad essere operativi. I tentativi di riapertura hanno fatto segnare passi avanti e indietro. Sia gli studi più di nicchia come quello di Albini che imprese più grandi come i Capitol Studios a Hollywood hanno adottato distanziamento e mascherine, limitato l’ingresso agli entourage degli artisti, controllato i movimenti.
Albini ha aperto Electrical Audio a Chicago nel 1997. Ha ospitato session di Breeders, Neurosis, Iggy and The Stooges, Shellac (la sua band) e di tanti altri. Ultimamente lo studio, in cui lavorano quattro persone, opera tra il 25 e il 30% delle sue possibilità. E anche se Albini possiede l’edificio che ospita lo studio, deve gestire un’enorme pressione economica: paga un mutuo e deve sostenere, tra le altre cose, l’assicurazione sanitaria dei dipendenti. Per superare il crollo delle entrate ha costretto tutti a prendere un congedo: due dipendenti saranno in vacanza in dicembre, gli altri due a gennaio.
Riverito nel giro dei musicisti indipendenti per la sua schiettezza, Albini dà la colpa all’amministrazione Trump. «La possibilità di tenere in piedi questa attività dipende dalla risposta dell’amministrazione alla pandemia. E finora è stata afallimentare. Credo che nessuna attività potrà permettersi di lavorare in queste condizioni».
Larry Crane ha co-fondato il Jackpot! Recording Studio di Portland, Oregon, nel 1997 insieme a Elliott Smith. Negli anni R.E.M., Pavement, Sleater-Kinney e ovviamente Smith hanno suonato in quelle sale. Nonostante negli ultimi mesi Crane abbia organizzato delle session con M. Ward e i Last Giant, a novembre lo Stato dell’Oregon è rientrato in lockdown. I suoi clienti, però, avevano iniziato a cancellare le session già prima delle nuove restrizioni e Crane, che lavora anche per il magazine Tape Op, si è occupato di alcuni mix e di aiutare i musicisti a registrare in remoto. Ha cancellato tutte le session previste per dicembre. Prima dell’ultimo lockdown, stimava che al Jackpot ci sarebbe stato un calo di quasi il 90% delle prenotazioni e sta facendo di tutto per tenere l’attività in piedi. «Cerco di non fare nient’altro che questo», dice.
C’è un posto dove le cose vanno un po’ meglio. Si tratta dei Capitol Studios di Hollywood che a partire dal 1956 hanno ospitato Frank Sinatra, i Beach Boys, Justin Timberlake e i Migos, tra gli altri. Dato che lo studio è di proprietà di Universal Music Group, i manager hanno approfittato del primo lockdown in California per rinnovare lo Studio B e sostituire il banco. Adesso è l’unica attività aperta nella Capitol Tower, il che ha reso più semplice il controllo del distanziamento sociale. Katy Perry, Ariana Grande, Carrie Underwood e Danny Elfman sono solo alcuni degli artisti che hanno registrato lì dopo la riapertura di luglio.
Roey Hershkovitz, uno dei vice presidenti di Capitol Studios e responsabile della gestione Covid, doce che lo studio ha organizzato circa l’80% delle session che avrebbe fatto normalmente, e prima del coprifuoco avevano già fortemente limitato le session notturne e nei weekend. «Non ci interessa spingerci al limite, vogliamo lavorare in sicurezza», dice. «Facciamo tutto quello che possiamo per far sì che questo sia un ambiente sicuro».
I conti economici delle sale di incisione sono sempre stati precari, dice Maureen Droney, senior managing director della Producers and Engineers Wing della Recording Academy. «Credo che i margini di profitto non si siano ridotti drammaticamente come quelli dei ristoranti, ma di certo le cose non vanno bene. Abbiamo bisogno di un sistema discografico in salute. Abbiamo bisogno che gli artisti guadagnino e che quel denaro finisca a chi lavora dietro le quinte. Era difficile già prima della pandemia e ora c’è un altro peso da sopportare. I problemi si sono sommati».
La Recording Academy ha cercato di alleggerire la responsabilità di mettere a punto protocolli anti-Covid pubblicando il memo “Safe Studio Consideration”, una lista elaborata da Droney sulla base delle informazioni raccolte da vari studi, dai produttori dei Grammy Awards e dai sindacati. Le linee guida incoraggiano tutti a stare a un metro di distanza, indossare la mascherina, limitare la capienza degli studi, usare filtri per la ventilazione dell’aria. Ci sono anche indicazioni più specifiche sulla pulizia dei microfoni, l’utilizzo dei filtri anti-pop, le protezioni a forma circolare che riducono l’effetto di alcune consonanti, l’uso di cuffie personali.
Crane ha apprezzato le linee guida della Recording Academy e le ha applicate al Jackpot. Il Capitol ha invece seguito le indicazioni fornite da Universal (probabilmente elaborate sulla base di quelle della Recording Academy). Albini, invece, ha consultato dei medici. Ma, dice, non avrebbe dovuto farlo se l’amministrazione Trump avesse gestito le cose meglio.
«Tutti sono in attesa di una risposta ragionevole a livello nazionale», dice Albini. «Se guardi ai Paesi dove la pandemia è stata gestita bene come la Nuova Zelanda e praticamente tutta l’Europa, che ha fatto meglio di noi, in sostanza hanno pagato la gente per restare a casa. Lo fai per un mese e riduci il contagio fino a livelli gestibili. Poi fai tornare in strada chi ha un lavoro essenziale. Devi avere abbastanza strumenti di protezione individuale, devi fare i tamponi e il tracciamento. È così che tieni le cose sotto controllo ed è così che le economie possono ripartire, con una risposta nazionale. Noi non ce l’abbiamo e non sarà così finché non cambierà il presidente. Siamo tutti in attesa di liberarci di Trump».
Crane è d’accordo con Albini e trova offensivo l’atteggiamento di Trump nei confronti degli scienziati. «Uno studio di registrazione è una fighissima intersezione tra arte e scienza», dice. «Dobbiamo rispettare le leggi dell’elettronica, dell’acustica e della fisica per fare grandi dischi. Guardare quest’amministrazione sminuire i medici è atroce».
Finché Biden non entrerà in carica, a gennaio, gli studi dovranno continuare a prendere da soli le migliori decisioni possibili. Nella prima parte del lockdown lo staff dei Capitol Studios si è concentrato sui mix, lavorando a progetti di Bob Marley, Rolling Stones e Billie Eilish. Hanno riaperto le porte a una session dal vivo quando Katy Perry, un’artista della Capitol Records, ha chiesto di registrare. Era incinta, e lo staff era particolarmente preoccupato dalla sua sicurezza.
«Ci siamo detti: ok, se non riusciamo a riaprire per un singolo artista, allora che stiamo facendo?», spiega Hershkovitz. «Katy è arrivata e ha subito apprezzato i protocolli e le precauzioni. Non si tratta solo di mascherine. Riaprire in sicurezza significa fare tante cose diverse. Quando se n’è accorta è stato molto gratificante, sembrava che il nostro lavoro fosse finalmente servito a qualcosa».
«Monitoriamo il traffico nei corridoi e le temperature di tutti», dice Paula Salvatore, vice presidente dei Capitol Studios. «Ci siamo uniti per trovare un modo per seguire il protocollo e restare aperti». Dopo la riapertura, ai Capitol c’è stato un momento d’imbarazzo quando Ariana Grande, felice di vederla, ha cercato di abbracciare Salvatore. «Abbiamo dovuto fermarla», dice lei ridendo, «ma sono contenta di non aver messo in studio cartelli “niente abbracci”». «Un batterista voleva mangiare un panino poggiato sul timpano», dice Hershkovitz. «Adesso non lo si può fare, ma non vediamo l’ora di tornare alla normalità». Salvatore aggiunge ridendo che «non è stato mica facile togliergli quel sandwich dalle mani».
I ragazzi del Capitol non hanno misurato quanto tempo di preciso impiegano a disinfettare lo studio dopo una session, anche perché non ne fanno più di una al giorno. Ma si assicurano che ogni artista usi un microfono e delle cuffie diverse, e cambiano i filtri pop con grande cura. Nel sistema di ventilazione hanno messo un grosso filtro HEPA industriale e lo fanno partire ogni volta che c’è una pausa. Offrono anche session virtuali su Zoom, così gli artisti e i produttori non devono ammassarsi nello stesso posto. «Ci siamo spinti oltre per poter dire a tutti: senti, devi continuare a fare musica, siamo qui per te, possiamo farcela», spiega Salvatore.
Anche Steve Albini vuole tornare alla normalità, ma non ha intenzione di mettere a rischio la salute del suo staff, dei clienti e della sua famiglia. Oltre a lavorare all’Eletrical, canta e suona la chitarra negli Shellac del 1992. La band stava lavorando al nuovo album e contava di riprendere a suonare in giugno quando è arrovato il lockdown. Il batterista Todd Trainer vive in Minnesota e Albini non lo vede dalla cancellazione del tour dello scorso marzo. «Mi manca quella parte della mia vita», dice. «La rivoglio indietro, ma non posso rischiare la sicurezza di nessuno. Non posso creare una bolla in cui suonare con gli altri, dopo dovremmo fare tamponi e quarantena per tornare alle nostre vite. Serve una risposta nazionale alla pandemia, qualcosa che ci permetta di gestire tutti questi aspetti».
A metà novembre Albini dice di sentirsi esattamente come a ottobre: «Serve un lockdown nazionale. Non dobbiamo capitolare agli impulsi più stupidi e avidi di questo Paese. Facciamo session seguendo protocolli stringenti, ma non è il massimo. Vorrei che tutti fossero pagati per restare a casa, così da rompere il ciclo di infezioni. Dovremmo congelare l’economia per un paio di mesi. È l’unico modo per fermare la trasmissione e dare a tutti una pausa da questo orrore. Fino ad allora resto chiuso in casa, vado in studio solo se necessario. È stato l’anno peggiore di sempre e ha fatto emergere i peggiori istinti della gente». Ci sono anche ragioni per essere ottimista. «Sono continuamente sorpreso dalla resilienza della comunità musicale. È incredibile cosa è disposta a fare la gente per esprimersi. Mi dà speranza per il futuro».
Crane e Droney conoscono solo due studi che hanno chiuso definitivamente negli ultimi mesi. Sembra che tutti vogliano andare avanti, anche se ora sono appesi a un filo. La Recording Academy sta collaborando con entrambi i partiti al Congresso per introdurre il cosiddetto Hits Act, dove Hits sta per “Help Independent Tracks Succeed”. L’obiettivo è consentire ai proprietari degli studi di dedurre dalle tasse il 100% dei costi di produzione. La legge è stata presentata al Congresso il 30 giugno e al Senato pochi giorni fa, e ha attratto dozzine di sostenitori, ma non si è ancora arrivati al voto. Se dovesse passare, sarebbe un piccolo passo per aiutare gli studi, che cercheranno di andare avanti a tutti i costi.
«Credo che ci riprenderemo», dice Crane. «Non ho letto di nessun focolaio negli studi di registrazione, questo mi dà speranza. Venire qui è diverso da andare in chiesa o al centro commerciale, perché qui c’è solo il personale necessario».
«Quando l’industria discografica tornerà a marciare, prevedeo sentimenti di gratitudine e amore», dice Salvatore. «Guardo i musicisti e penso che non ho mai visto qualcuno così felice di stare in studio con gli altri. Se quest’atmosfera dovesse sopravvivere, avremo tanta gente felice di lavorare insieme agli altri, poco narcisismo, tanta gioia per essere sopravvissuti a tutto questo».
«Vedere gli altri registrare mi dà speranza», dice Droney. «Loro sono la ragione per cui faccio questo lavoro. Amano quel che fanno e trovano sempre un modo per farlo. È dura. Non che sia mai stato facile. Nessunosa che cosa accadrà. Ma la musica è un linguaggio universale. Chi fa questo lavoro lo sa».
Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.