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L’artista che vuole insegnarci ad «ascoltare in modo diverso»

David Toop è un musicista sperimentale nonché uno dei più importanti teorici del suono (il suo ‘Oceano di suono’ è un must). Lo abbiamo intervistato prima della sua lecture e performance di sabato a Terraforma Exo a Milano tra ambient ed ecologia

Foto: Ruben Olsen Lærk

Ci sono i musicisti. Ci sono i giornalisti musicali. Ci sono gli scrittori. E poi c’è David Toop. Il settantacinquenne newyorkese (ma cresciuto in Inghilterra) nella sua carriera non si è fatto mancare nulla. Negli anni ’70 esordisce nella scena britannica, prima nelle improvvisazioni free jazz, per poi muoversi nella sperimentazioni d’avanguardia, proto-ambient, stringendo rapporti con Brian Eno per la cui etichetta Obscure Records ha pubblicato New and Rediscovered Musical Instruments con Max Eastley (ora ristampato nel mega-cofanetto The Complete Obscure Records Collection dall’italiana Space Echo Records/Dialogo Records).

L’opera nasce dalla sua prima pubblicazione, un saggio dal titolo omonimo, che anticipa due libri che riscuoteranno grande successo. Da un lato Rap Attack, uscito nel 1984, uno dei primi lavori a inquadrare il nascente movimento hip hop, dall’altro Oceano di suono, edito nel ’95 (qui un estratto), considerato il più importante saggio sulla musica ambient. A questi lavori seguiranno altri titoli fondamentali come Sonic Boom, Haunted Wheater, Sinister Resonance, Into the Maelstrom, Flutter Echo e la raccolta di scritti Inflamed Invisible uscito per Goldsmiths Press che riprende molto del materiale giornalistico di Toop.

Il pensiero di Toop mischia ambient music («qualcosa di più ampio rispetto a come la si pensa oggi che è diventata un genere») ed ecologia (inteso una ricerca di «connessioni tra suoni degli animali, suoni umani e strutture social»), e comprende una consapevolezza diversa dell’ascolto in scia con il deep listening di Pauline Oliveros.

Sarà questo il tema della sua lecture e performance di sabato 15 giugno al Teatro dei burattini in Triennale a Milano per Terraforma Exo, la nuova manifestazione culturale di Threes Productions (ve ne abbiamo parlato qui). Per noi è stata l’occasione di trovarci a conversare con uno dei pensatori più stimolanti dell’ultimo secolo.

Partiamo dal tuo prossimo passaggio in Italia. Sabato a Terraforma Exo a Milano sarai protagonista di un incontro doppio, una lecture e una performance dal titolo Resonance, Ecologies and Ways of Listening. Ci spieghi meglio di cosa si tratta?
Tenere una conferenza e poi una performance è abbastanza difficile perché si deve passare da un modo di essere a un altro, ma d’altra parte è molto interessante perché una delle cose di cui voglio parlare è l’idea di ecologia in relazione a ciò che faccio. Per me c’è un’idea molto forte di ecologia nei diversi modi di fare musica e nei diversi modi in cui faccio musica. Essendo uno scrittore, un pensatore, un docente di musica, in qualche modo ho dovuto collegare tutte queste diverse parti di me stesso. E portando questo dal vivo posso sottolineare le connessioni che ci sono tra queste parti e questa è ovviamente la parte fondamentale dell’ecologia, il modo in cui gli esseri viventi si collegano tra loro e il modo in cui si influenzano a vicenda, come interagiscono tra loro. E lo stesso vale per me come esecutore, come persona che registra musica e come persona che pensa alla musica, al suono, all’ascolto e che ne scrive. Sarà un’opportunità di vedere tutti questi elementi diversi messi insieme.

È interessante che una parte del titolo sia al plurale. Parli infatti di «modi di ascoltare».
Sì, c’è infatti l’aspetto funzionale dell’ascolto, il modo in cui ci ascoltiamo – o non ci ascoltiamo (ride) – nelle conversazioni, il modo in cui ascoltiamo il mondo, per cercare segnali di pericolo o altro, e poi, all’estremo opposto, c’è un tipo di ascolto intenso, quello che Pauline Oliveros ha chiamato deep listening, in cui ascoltiamo molto acutamente e usiamo l’ascolto come il senso più importante che abbiamo. Quest’ultimo è un modo di ascoltare che si è sviluppato nel corso della mia vita; in un certo senso si potrebbe dire che ho imparato ad ascoltare e ho imparato a interpretare il mondo attraverso l’ascolto.

Ci fai un esempio?
In questo momento sto leggendo Marcel Proust e c’è un suo passaggio in cui parla del fatto che può stare a letto con gli occhi chiusi e immaginare la giornata semplicemente restando in ascolto. Poteva ad esempio immaginare le condizioni atmosferiche o che giorno era semplicemente dai suoni che sentiva dalle finestre. Proust era famoso per restare a letto per gran parte del tempo, lì ci scriveva i suoi libri, quindi per lui questa idea di immaginare il mondo o di creare un mondo era cruciale per sentirsi vivo, soprattutto perché dopo un certo punto della sua vita non aveva molti contatti fisici con il mondo. Lo trovo interessante perché se ci pensi ti rendi conto che è qualcosa che facciamo anche noi, automaticamente. Interpretiamo costantemente ciò che sentiamo in un modo piuttosto dettagliato e lo facciamo come fosse una specie di seconda natura.

E questo come si rapporta alla tua musica?
Sono un musicista che lavora con i micro suoni, suoni molto piccoli che utilizzo sia live che su disco. Mi servono per creare spazio, o per simulare lo spazio. E visto che sono suoni molto piccoli costringo il pubblico a una maggiore attenzione, come se incoraggiassi le persone ad ascoltare a livelli sempre più profondi. È la stessa cosa succede quando suono dal vivo. A volte suono cose che nemmeno io riesco a sentire. Cose molto, molto, molto silenziose. A volte sono talmente silenziosi che questi suoni non si sentono quando li produci. Ne diventi consapevole dopo cinque, dieci minuti. E così la totalità di ciò che stai producendo si accumula gradualmente. Si parte da suoni così piccoli da essere quasi impercettibili. Ma poi ci si abitua. Il corpo risponde a questa nuova esigenza e ciò significa che si sta scendendo a livelli di ascolto sempre più profondi. Per me, quindi, è un successo se riesco a costruire una performance composta di suoni parecchio silenziosi riuscendo comunque coinvolgere le persone. E magari dopo l’esibizione qualcuno si ritrova ad ascoltare nella vita in un modo leggermente diverso.

Mi viene in mente una polemica che ritorna spesso in questi anni, ovvero la nostra fruizione all’ascolto. Soprattutto le nuove generazioni si sono abituate ad ascoltare la musica tramite auricolari, smartphone, casse bluetooth. Spesso a discapito di certi range di frequenza. Pensi anche tu, come molti, che l’ascolto sia in qualche modo peggiorato?
Ogni generazione sente in modo diverso a causa delle mutate condizioni ambientali e della tecnologia. Credo che questo sia sempre accaduto, ma certamente dal XIX secolo il processo è accelerato e i cambiamenti tecnologici sono stati davvero rapidi. Anche nella nostra vita quotidiana siamo chiamati ad adattamenti molto veloci. Suppongo quindi che questo crei un rapporto diverso con l’ascolto. L’ascolto in cuffia da un lato stabilisce un rapporto molto intimo con la musica, dall’altro taglia fuori il resto dell’ambiente. Non è solo una questione di frequenze, ma anche di spazio.

Questo è un tema ricorrente nella tua musica e nel tuo pensiero: la spazialità del suono e il suono nello spazio. In poche parole, l’ambiente.
Esatto, gli auricolari ci chiudono in un mondo. Ci si trova in una stanza intima, in una specie di recinto. È quasi come se si fosse in una tuta spaziale. Si è completamente chiusi. E per me uno dei grandi piaceri dell’essere in un ambiente sia quello di percepirne la grandezza. Noi siamo in grado di percepire suoni molto lontani e molti vicini. Magari calpestiamo una foglia secca e sentiamo un suono molto vicino e personale. Magari invece udiamo il suono di una sirena della polizia a molti chilometri di distanza, e si ha questo senso che mischia vicinanza e profondità. È questa è un’esperienza diversa rispetto agli auricolari: c’è un cambiamento costante, un costante adattamento. Ma io sono ottimista, è un cambiamento generazionale.

Nel tuo classico Oceano di suono racconti un episodio legato a Brian Eno, ovvero il momento in cui ha realizzato di poter creare una musica in grado di convivere con l’ambiente circostanze invece di sovrastarla. Ora invece, la nuova esplosione dell’ambient music sembra più legata a un ascolto personale, privato, spesso di guarigione. Non a caso dalla pandemia l’ambient ha trovato nuova vita e anche nei live degli artisti del genere possiamo trovare tantissime persone, anche molto giovani.
L’ambient è diventato un genere, uno stile, e naturalmente non appena ciò è accaduto si è assistito a una sua interpretazione commerciale. Ma quando ho scritto Ocean of Sound ho cercato di aprire il più possibile la possibilità di ciò che la musica ambient poteva essere. Per me ambient significa semplicemente ambiente, per cui ci sono molti modi diversi di pensarlo e credo che la musica ambient non debba necessariamente parlare di relax, di benessere e così via. Può riguardare molte cose, come la paura per esempio.

La paura?
Ho scritto molto sulla paura e sull’ascolto. Ero un bambino molto timoroso, spesso spaventato dai suoni che sentivo… sai, i suoni normali di una casa di notte spesso legati al riscaldamento che si raffredda o al legno che si contrae quando cambia la temperatura. Da bambino ero molto spaventato da questi suoni. Quindi, se penso ai micro suoni, quella componente di paura è incorporata in quel suono, fa parte dell’energia dell’ascolto di quei suoni. Ricollegandomi a quello che dicevo sull’ecologia, in questo periodo trovo soddisfazione a lavorare con materiali molto semplici, come la carta, per esempio, o il cartone, o semplicemente le cose che trovo nel mio giardino, come certi tipi di piante o foglie. Da qui puoi ricavare suoni molto silenziosi, ma anche molto intensi. E cos’è l’ambient alla fine? Riguarda i suoni che ci circondano, riguarda le cose che ho raccolto dal mio giardino, non riguarda necessariamente il rilassamento.

Ascoltando i tuoi lavori e leggendo i tuoi libri, mi viene da chiedere: come pensi la tua musica?
Da flautista più che alle tonalità e all’armonia penso al suono di certi animali, alle canzoni di certi uccelli sentiti in Venezuela o Australia, al suono di un piccolo di foca, al vento tra gli alberi, ovvero a tutte queste immagini forti che mi hanno colpito nella vita come il rumore del vento intorno alla casa quando ero bambino, la sensazione molto particolare di essere in casa e di percepire il freddo fuori. Magari altri hanno le stesse immagini: sono questi i modi di connettersi con le persone e io sto lavorando con quella che si potrebbe chiamare l’ecologia del pubblico all’interno della performance.

E come reagisce il pubblico a tutto questo?
Ti racconto un aneddoto. Ultimamente ho suonato alla Tate Modern a Londra e una coppia mi si è avvicinata dopo la performance: lui mi ha detto che non era riuscito a sentire quasi nulla, mentre lei mi ha detto che non si rilassava così da mesi. L’ascolto è anche molto soggettivo. Non puoi mai davvero sapere quello che l’altro sta sentendo.

Nell’ultimo periodo è stato ristampato anche tutto il catalogo della Obscure Records, etichetta di Brian Eno che in pochi anni – dal ’75 al ’78 – ha pubblicato 10 album all’avanguardia. Tra i nomi, oltre a Eno (che per la sua etichetta firmò il capolavoro Discreet Music), anche John Cage, Penguin Cafe Orchestra, Harold Budd, Gavin Bryars. E un lavoro firmato da te e Max Eastley titolato New and Rediscovered Musical Instruments. Che relazione hai oggi con quel disco uscito 50 anni fa? Che effetto ti fa questa ristampa?
Quando si invecchia, se si è fortunati, ti viene chiesto di poter ripubblicare dei tuoi libri. Un libro, un articolo, un disco. Da un lato quindi sono molto felice che ci sia un rinnovato interesse per qualcosa che ho fatto anni fa, ma dall’altra parte sento come il peso della storia. Bisogna fare i conti con quello che è successo tanto tempo fa. Nell’ultimo anno ho lavorato a varie raccolte del mio passato. In primis all’archivio della mia etichetta di cassette, la Quartz Mirliton, per cui ho scritto un booklet da 200 pagine sul materiale pubblicato tra il ’71 e il ’79, e poi al cofanetto della Obscure Records (di cui ho anche scritto un saggio) che citi tu. È stato un lavoro enorme, che ha comportato la consultazione di archivi e l’ascolto di vecchio materiale, in modo molto approfondito. È stata un po’ come scomparire nel passato. Quindi è una sensazione doppia, molto contraddittoria, ma il risultato mi rende felice.

Immaginavi che la musica prodotta ai tempi della Obscure Records sarebbe rimasta rilevanti anche dopo tutti questi anni? Era un sentimento che percepivate?
Non avevamo idea che ci sarebbe stato interesse. Pensa anche solo al nome scelto da Brian Eno per l’etichetta, Obscure Records; era già una dichiarazione che quello che stavamo facendo fosse oscuro. E probabilmente pensavamo lo sarebbe sempre stato, in fondo e in parte lo è ancora, ma il livello di interesse è molto più alto ora di quanto non lo fosse ai tempi. Con questo cofanetto si può avere però una comprensione di ciò che fu quel periodo, di cui finora si era raccontato poco.

Tu che ricordi hai di quel periodo e di quella scena minimalista d’avanguardia?
C’erano molte cose in ballo e mi ricordo che personalmente in quegli anni ho vissuto un grande cambiamento: ho lavorato per cinque anni in un’area molto diversa, quella dell’improvvisazione libera, e poi ho deciso che volevo fare qualcosa di diverso, volevo comporre, ma non ero un compositore esperto, non conoscevo la musica su nastro. Volevo lavorare con chi improvvisava, ma stavo cercando una nuova forma, un nuovo modo per farlo. All’epoca ascoltavo molta di quella che allora era, in altre parole, musica globale di vario tipo, dalla Papua Nuova Guinea alla musica cerimoniale dalla Corea, e così via. Inoltre anche ascoltando un sacco di suoni bioacustici, suoni di animali, uccelli, insetti, pesci. E tutti questi tipi di suoni hanno avuto un grande impatto su di me.

Tanto che hai iniziato a costruire strumenti da te, come cita anche il titolo del tuo album del catalogo, New and Rediscovered Musical Instruments.
Sì, eravamo alla ricerca di nuovi suoni e uno dei modi per trovarne era quello di sperimentare con la costruzione di strumenti. Così ho pubblicato un saggio intitolato New and Rediscovered Musical Instruments e ne ho mandato una copia a Brian [Eno], che mi ha telefonato e mi ha detto: «Sto avviando un’etichetta, ti va di fare qualcosa?». A quel tempo andavo spesso a casa sua: a volte parlavamo di musica, a volte sperimentavamo coi suoni, ci scambiavamo idee. Era un contesto interessante, e credo che in qualche modo si ricolleghi all’idea di ecologia di cui parlavo all’inizio della nostra conversazione.

Vuoi chiarire meglio questo punto?
Ero molto interessato al movimento ecologico, che all’epoca era molto nuovo e rappresentava l’inizio del pensiero ambientalista contemporaneo. Per me si trattava di trovare connessioni tra i suoni degli animali, i suoni umani e le strutture sociali. Quindi questo era parte della motivazione, suppongo, che stava alla base del disco che ho realizzato.

C’è un grande fermento intorno al mondo delle ristampe. Ci sono molte etichette – Light in the Attic, Numero Group, Soul Jazz, Music From Memory, ma anche l’italiana Space Echo Records / Dialogo Records che ha pubblicato The Complete Obscure Records Collection – che stanno facendo un profondo lavoro in questo senso. Quale pensi sia la motivazione dietro questo rinnovato interesse? È un effetto nostalgia? È colpa della poca futurabilità della musica oggi?
È una domanda molto complessa. Credo che ci sia – inevitabilmente – una certa dose di nostalgia. Personalmente non sento la nostalgia in quel senso, ma penso che a volte le persone che sono troppo giovani sentano la nostalgia per qualcosa che non hanno mai potuto vivere e pensano «wow, avrei voluto essere vivo». Abbiamo parlato di ambient, di musica sperimentale, ma anche il free jazz ora è tornato molto in voga.

L’improvvisazione, come citavi, è un altro pezzo della tua sfaccettata carriera.
Quando ho iniziato a suonare musica improvvisata alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70, il free jazz era diventato molto difficile per me perché io ero un flautista e quando partecipavo a queste sessioni di free jazz non riuscivo a farmi sentire, c’era così tanto rumore, un rumore incessante, che andava avanti senza tregua. E io ero interessato all’opposto, ero interessato al silenzio e alla musica tranquilla. Quindi il free jazz per me a quel tempo era molto problematico e l’unico modo in cui potevo affrontarlo era suonare la chitarra elettrica in modo da poter essere più rumoroso di tutti.

Perché il passato non è tutto oro…
Spesso ci si dimentica che certe cose sono nate da situazioni molto complesse ed è importante ricordare che c’erano aspetti molto negativi quanto aspetti positivi molto sorprendenti.

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