Primo violino della Scala e influencer. Può apparire un accostamento improponibile, eppure queste caratteristiche sono entrambe contenute nella figura di Laura Marzadori. Certo, non è facile immaginarsi la musica classica a braccetto con le storie Instagram, i brani di Beethoven e Mozart con l’esibizione degli outfit delle firme alla moda e la sponsorizzazione di brand. «Anche noi della classica dobbiamo adattarci al nostro tempo», ribatte Marzadori, 32 anni, primo violino di spalla alla Scala di Milano da quando ne aveva 25.
La violinista ha già provato cosa significa finire nel tritacarne del successo, dove ogni passo falso può tradursi in una vera e propria gogna mediatica. Le è accaduto quando, ospite di una trasmissione televisiva, alla richiesta del conduttore di ascoltare un passaggio dell’Aida l’ha confusa con la Traviata. Si è scusata, ma i commenti sui social le hanno fatto sperimentare «il bullismo fatto da dietro una tastiera del computer».
Nonostante tutto, sembra decisa a proseguire valorizzando sia l’aspetto più formale del suo mestiere che quello più pop attraverso i social network. E siccome da poco è uscita con un libro in larga parte autobiografico, L’altra metà delle note (HarperCollins), ne abbiamo approfittato per chiederle cosa ne pensa su tante altre questioni che ruotano intorno al suo ambiente. Sui teatri chiusi non ha dubbi: «Devono riaprire, non sono mai stati focolaio di contagio». Prende le distanze sulla diatriba sollevata da Beatrice Venezi a Sanremo, se sia più giusto per una donna definirsi direttore o direttrice d’orchestra: «Forse quello era il momento per dire qualcosa in sostegno del settore, mi è sembrata una occasione mancata». E alla fine, dopo un anno senza musica live ha una convinzione: «Non usciremo migliori da questa pandemia».
Hai ricevuto delle critiche per l’utilizzo che fai dei social?
È un fenomeno che va molto al di là delle semplici critiche. Quando è accaduto ad altre persone di essere attaccate mi sono schierata con loro, condannando quegli episodi che definirei di bullismo fatto dietro la tastiera di un computer. Certa gente fa cose che nella vita reale non avrebbe il coraggio di ripetere. Io non ho mai ricevuto una critica in faccia. Finché uno non ha il coraggio di dirtelo personalmente, questo mi sento di darlo come consiglio, non dovete considerarlo. Sono fortunata, perché le parole di ammirazione e supporto sono molte più delle critiche.
Nel tuo ambiente qualcuno ti ha fatto notare il tuo utilizzo dei social?
Direttamente non ho mai ricevuto nessuna critica, ma sono sicura che qualcuno nell’ambito della musica classica pensa che sia qualcosa di inusuale e inappropriato. Io invece sono convinta del contrario, perché anche per noi è venuto il momento di adattarci al nostro tempo. Soprattutto se vogliamo che quest’arte non muoia. L’età media del pubblico in sala è abbastanza preoccupante. Purtroppo, è un po’ colpa nostra che non ci facciamo vedere con sincerità per quello che siamo, cioè persone con tante passioni e hobby. Spesso dobbiamo dare una immagine austera, seriosa e polverosa. La trovo una visione un po’ bigotta, non sincera. Io sui social faccio tutto con rispetto, soprattutto per la mia persona.
In tv hai confuso l’Aida con la Traviata. Hai già risposto, parlando di un errore dettato dalla stanchezza. Però credo sia stato soprattutto quello che è accaduto dopo a coglierti di sorpresa, cioè la reazione di alcuni siti e dei social.
Esatto, quello mi ha stupito. Perché sull’errore ci sono passata sopra facilmente. Mi facevano sorridere le persone che pensavano che un lapsus potesse minare la mia sicurezza professionale. Ho sempre lavorato duramente e ricevuto i riconoscimenti che meritavo. Sul dopo ci sono rimasta male. Perché tanta gente che non mi conosceva, ma persino chi mi conosceva e forse non riusciva ad attaccarmi per meriti professionali ha preso la palla al balzo.
Cosa diresti a un giovane che considera la musica classica noiosa?
Non è colpa dei giovani. In Italia l’educazione musicale è molto indietro rispetto ad altri Paesi europei. Manca molto nelle scuole italiane, per cui i giovani la percepiscono come qualcosa di lontano. La musica leggera è ovunque, mentre la classica fatica ad arrivare. Ma come la storia dell’arte, andrebbe insegnata, magari in modo divertente mantenendo una certa professionalità. Se a un bambino fai sentire Mozart o Beethoven sono certa che non li troverà noiosi. La noia deriva da sovrastrutture che si formano con la crescita. Quindi a quel giovane direi: forse ti stai sbagliando, anche se non è colpa tua.
Come hai reagito alla diatriba sulla definizione direttore-direttrice sollevata da Beatrice Venezi a Sanremo?
Se fossi stata in lei non ci avrei tenuto a rimarcare questa sua idea. Mi è sembrato qualcosa volto a innescare la polemica. Perché da fuori ho pensato: puoi andare lì e parlare della musica classica, che ha un sacco di problemi, e concentrare su quello l’attenzione. Ho fatto varie storie su Instagram per difenderla dagli insulti perché non condivido questo modo di attaccare le persone. Ma nel merito, in un momento in cui c’erano tanti altri appelli da lanciare, davanti a un teatro vuoto è il momento di dire qualcosa sulla loro riapertura. Mi è sembrata un’occasione mancata. Le polemiche portano pubblicità, ma lasciano il tempo che trovano.
Cosa pensi di aver imparato dopo questa pandemia?
Sono rimasta molto male per la chiusura dei teatri ad ottobre. Mi sono davvero arrabbiata. Sono sempre stati un luogo sicuro e lo dimostra il fatto che in Paesi come la Spagna sono aperti da maggio 2020 e non sono mai stati focolai di contagio. Non mi va di essere ipocrita dicendo che usciremo migliori dalla pandemia. Siamo ancora ai teatri chiusi e adesso forse riapriranno con 500 posti su 2000, che sono insufficienti a permettergli di sopravvivere.
Mi pare che tu sia particolarmente amareggiata per come è stata trattata la cultura in Italia.
Se ci si fosse organizzati, dando il giusto peso a quello che la cultura può portare non saremmo arrivati a questa situazione. Io sono fortunata perché faccio parte di una realtà solida, ma ci sono musicisti e addetti ai lavori che hanno affrontato momenti di disperazione. Mi scrivevano, anche solo per un supporto morale, ma è difficile se vieni lasciato completamente solo.
Nelle tue storie Instagram ho visto che spesso condividi musica leggera. Con chi ti piacerebbe collaborare di quel settore, se ne avessi la possibilità?
Non ho preclusioni al suonare altri generi. Sono una grande amante della musica leggera. Adoro Vasco Rossi, così come Gianluca Grignani. Mi piace la musica anni ’80, soul e black. Mi sento più a mio agio nella classica, ma in passato ho suonato dei soli in un album di Baglioni e mi sono divertita. In Italia il sogno sarebbe collaborare con Vasco.
Nel frattempo hai scritto un romanzo, L’altra metà delle note. Da dove è nata questa esigenza?
Da una proposta che ho accolto, perché ho pensato potesse essere una occasione per rivivere certi momenti del mio passato. E se questa non è per intero la mia storia, attinge moltissimo da essa.
Come Tina, la protagonista, anche tu non hai ricordi senza un violino in mano?
Sì, anch’io ho iniziato piccolissima con una maestra bravissima che si chiamava Fiorenza. E infatti è l’unico personaggio con il suo vero nome: Fio era il suo diminutivo. Purtroppo, è scomparsa qualche anno fa e questo è stato un modo per ricordarla perché è stata importante nel mio percorso di musicista.
Com’è avvenuto il tuo primo approccio con lo strumento?
Ho cominciato con il metodo giapponese Suzuki dedicato ai bambini piccoli, attraverso il quale si imparano brani da subito. Il primo brano difficile sono arrivata ad eseguirlo quando avevo 8-9 anni: La primavera di Vivaldi. Ricordo poco dopo il primo concerto per violino e orchestra di Mozart.
Come nel romanzo, anche tu hai sofferto per il distacco dagli affetti familiari?
Sicuramente tanto di me è presente nella tempesta emotiva di Tina, derivata da un grande cambiamento. Non è facile lasciare il nido per affrontare la vita del musicista, sempre più esposto e sul quale pesano tantissime aspettative. Anche a me è accaduto. Ero ancora più giovane della protagonista quando ho iniziato ad avere problemi rispetto al cibo. Quella è una parte autobiografica. A 16 anni ho vinto un concorso nazionale che mi ha portato ad avere tanti concerti e quindi cambiamenti importanti. Ho lasciato il liceo per un anno e mezzo, dal Conservatorio con i miei amici sono passata al dover sopportare la solitudine. E quando una persona ha un carattere sensibile, c’è il rischio di doversi rifugiare in qualcosa di sbagliato. Il tutto sta nel trovare una chiave per uscire da una specie di illusione mentale che ti sei costruita.
Raccontare queste problematiche è anche un modo per essere d’esempio agli altri?
Quando ho deciso di scrivere il libro volevo proprio raccontare una testimonianza per un pubblico giovane, visto che i disturbi alimentari fra loro sono molto diffusi. È chiaro che, come nel libro, anche nella vita questi disturbi non sono causati da qualcosa di esterno. Nascono da dentro, nel profondo.
Quante ore di studio sono necessarie per diventare dei professionisti?
Io ho vissuto una infanzia e una adolescenza molto felici. Avevo una grande costanza, non c’era un giorno che passavo senza violino. Ma non mi sono mai chiusa in una stanza per ore a studiare con l’orologio. Per un periodo ho studiato 5-6 ore al giorno, mentre quando invece arriva il lavoro vero, come alla Scala, ho dovuto sfruttare tempi più ridotti perché tra viaggi, prove ed esibizioni non ho la tranquillità che avevo prima.
Quindi non serve studiare 12 ore al giorno, come immaginano alcuni?
Dipende molto dalla persona. Ma credo che precludersi la possibilità di vivere altre esperienze ti limiti come musicista. Se ti chiudi in una stanza per 12 ore al giorno della vita non assapori nulla, poi quello che metti in ciò che suoni si sente. Per me è stato così, poi è estremamente soggettivo.
Come sottolinei nel libro, non serve solo la tecnica, ma anche il cuore e il cervello.
Sì, e come la protagonista il confrontarsi con altri modi di vedere la musica. Io ho un atteggiamento istintivo, per me la priorità è trasmettere emozioni, rispetto a esibizioni estremamente controllate. È ciò a cui dovrebbero ambire tutti i musicisti. Il violino è uno strumento che deve servire a qualcosa di più grande. Se si rimane alla performance virtuosistica si perde molto.
C’è un modo per andare oltre la tecnica?
Credo sia la capacità di sapersi ascoltare. Non bisogna erigere delle barriere. Perché suonare è anche un po’ mettersi a nudo. Se riesci ad eliminare questi ostacoli raggiungi qualcosa di artistico. Ascoltando quello che senti, riesci a rimetterti in contatto con la tua natura. Non è sempre facile, perché come in tutte le performance c’è il timore di avere di fronte un pubblico persino se sei un bravissimo artista. Poi, ci sono concerti in cui riesci a comunicare qualcosa di speciale e in altri no. Ma è umano non arrivare sempre a questo obiettivo.
Da quando avevi 25 anni sei primo violino di spalla della Scala di Milano. Quali sono stati i momenti più emozionanti e quelli più difficili?
I momenti più emozionanti li ricollego al concorso che ho vinto. Così come la mia prima della Scala il 7 dicembre 2014 in cui ho suonato il Fidelio di Beethoven. Le difficoltà maggiori, invece, sono stati i sei mesi dopo il concorso, in cui verificano se sei idoneo o meno. Gli ultimi due, soprattutto, sono stati emotivamente molto pesanti. Era già tanto che lavoravo duramente e mi giocavo qualcosa di importante.