«Abbiamo ancora bisogno di dimostrare che il clubbing è cultura? Beh, sembra proprio di sì». Non ci gira attorno Laurent Garnier, uno dei più grandi dj di tutti i tempi (e a parere personale di chi scrive: il più grande), nell’iniziare la chiacchierata attorno a Off the Record, il meraviglioso film-documentario finalmente in arrivo dalle nostre parti che sarà in selezionati cinema italiani dal 10 al 12 gennaio (qui l’elenco delle sale). Un lungometraggio importante, che vi consigliamo di non perdere: per forza filmica da un lato, perché il tocco del regista Gabin Rivoire è veramente elegante e misurato; per l’intensità del contenuto dall’altro, perché questa lunga carrellata su trenta, trentacinque anni di storia della musica è davvero esaltante proprio come narrazione, come – scusate la parola – storytelling. No, non è una video-biografia sul dj Laurent Garnier («Anche se più di una casa di produzione mi aveva avvicinato proponendomi di fare esattamente questo: zero, li ho respinti al mittente», racconta); è invece Garnier che ci fa da guida al mondo della club culture nella sua interezza, nel suo spirito più profondo ed autentico. Se ne mette al servizio. Se parla di sé, lo fa solo come pretesto, non come obiettivo.
«Io non sarei nulla senza la scena: senza il pubblico di appassionati di techno e house, e senza quello che hanno fatto negli anni i miei colleghi. Nulla. Ecco perché mai avrei voluto fare un film che parlasse di me, solo di me, di cosa ho fatto, di cosa non ho fatto, di cosa ho raggiunto: mai. Per certi versi, Off the Record è un documentario molto atipico. Lo so. Pochi fatti, molte emozioni. Chiaro, i super-appassionati del genere comunque troveranno cose per loro, credo; ma io prima di tutto volevo creare qualcosa che fosse in grado di comunicare con tutti, con chi conosce certa musica e certe scene anche solo superficialmente e per sentito dire, e che avesse una forza poetica, che fosse in grado cioè di trasmettere la magia provocata dal ballo. E anche di quando il ballo è calato in determinati contesti politici e sociali, attenzione, perché la club culture in questo comunque è peculiare: se non capisci certe cose, se non capisci come nascono e come si sviluppano certe dinamiche che vanno al di là della musica in sé, non potrai mai comprendere davvero cosa sono techno e house e cosa possono significare. Io ho scelto Gabin proprio perché lui di techno e house, in origine, non sapeva nulla di nulla: il suo sguardo era “puro”». Nulla ma proprio nulla? «Nulla! Figurati che la prima volta che gli hanno parlato di me lui ha dovuto cercare su Google il mio nome per capire chi diavolo fossi… Ecco. Lì ho subito capito che era lui la persona giusta! Accidenti se lo era…».
Deve averlo capito molto bene, Rivoire, chi e cosa sia Garnier. Perché il film-documentario è calibratissimo e “respira” la personalità di Laurent – in primis: la sua passione contagiosa – in ogni singolo fotogramma. Quel misto di generosità, passione maniacale, felice sfrontatezza. Sfrontatezza che ogni tanto guadagna qualche antipatia a Garnier. Abbiamo spesso sentito dire a chi lo ha incontrato, conoscendolo poco o nulla, «Sì, è bravo, ma non è proprio simpaticissimo». Ecco: questo è un colossale equivoco. Se i modi di Garnier qualche volta sembrano bruschi, è solo perché è bruciato da una passione che gli fa fare cose – e lo fa argomentare – con una passione quasi spigolosa, spesso ingombrante. Ma lui davvero anche quando sembra aggressivo e altezzoso lo è solo perché si sente, come dire?, un soldato in missione. Una missione di pace e benessere. «Vorrei che la gente capisse che cosa bellissima possono essere il ballo e la club culture. Vorrei che gli scettici scoprissero invece che ci sono delle cose preziosissime, in tutta questa scena. Non solo stupidaggine, superficialità, disimpegno».
Quindi sì, se siete piuttosto perplessi o direttamente maldisposti verso le robe con la cassa in quattro, Off the Record è qui per voi, sissignori. E rischia veramente di convincervi. Del resto Garnier non si è mai limitato solo a suonare: parlare e scambiare opinioni con lui è sempre un’esperienza; e in realtà lo è anche leggerlo, visto che questo film-documentario è in qualche modo collegabile ad Electrochoc, libro – bellissimo anch’esso – scritto da Garnier anni fa (e tradotto fortunatamente anche in Italia), dove la componente autobiografica è molto più marcata ma dove comunque non manca certo la spinta “ideale” e “di scena”.
«In un libro hai più tempo e modo di sviluppare gli argomenti. Ma un film, beh… Puoi usare in un libro tutte le parole che vuoi, per descrivere la magia di quando la gente si trova a ballare; ma riesci a descriverla veramente solo con la forza delle immagini». In entrambi comunque è ben presente la voglia di raccontare, tramandare, di spiegare: «Le persone devono tornare ad essere un po’ più esigenti. Chi balla, chi ascolta, chi guarda, chi legge. Oggi abbiamo tutti una predisposizione a fruire le cose solo in velocità, in superficie – a vederle insomma solo nel qui e ora. Io dico: guarda che vale sempre la pena approfondire un po’. Non è che devi sapere tutto per forza, ci mancherebbe: ma conoscere un minimo della storia e dei contesti di ciò che ascolti, balli o guardi è – semplicemente – bello. Bello davvero, capisci? Rende tutto più divertente, rende l’esperienza più profonda ed esaltante. Perché rinunciare a tutto ciò?».
Ma chiudiamo il cerchio. Ritorniamo da dove siamo partiti: abbiamo insomma ancora bisogno di dimostrare che clubbing, ballo, techno e house sono anche cultura? «Sì. O almeno, diciamo che mi riferisco alla Francia, visto che gli ultimi due anni causa pandemia sono rimasto confinato praticamente quasi sempre a casa mia. Verso la fine di Off the Record Gabin ha voluto inserire le immagini della cerimonia della consegna dell’onorificenza della Legion d’onore al sottoscritto: credo fosse un modo per dire “Ecco, Laurent come altri hanno combattuto a lungo per farsi prendere sul serio – e ora finalmente i riconoscimenti sono arrivati”. In parte è vero: io e tantissime persone della scena abbiamo combattuto davvero tante battaglie, e proprio guardando i fatti e le emozioni narrate dal film ti viene da pensarlo, da averne conferma. Poi però senti l’attuale Ministro della Cultura francese dire sia in televisione che alla radio che il ballo, i dj, il clubbing e tutte queste cose non sono di sua competenza, ma del Ministero dell’Interno: lo ha detto veramente? Sì che lo ha detto, maledizione. Quindi ecco, magari saremo anche andati avanti e avremo vinto mille battaglie, ma evidentemente c’è ancora parecchio lavoro da fare. C’è bisogno di altri film. E di altri libri».
C’è bisogno anche di suonare in giro, di continuare a suonare in giro? «Quando è scoppiata la pandemia, io ho avuto un momento di repulsione viscerale verso la techno. Sai perché? Per me la musica è sempre legata al contesto, a una serie di idee ed emozioni. La techno è sempre stata nella mia vita, e nell’esserlo ha sempre rappresentato prima di tutto una spinta verso il futuro. Il Covid, quando è arrivato, è parso cancellare ogni idea di futuro – esisteva inevitabilmente solo l’esigenza e la paura del presente, una paura che ti rendeva immobile. È come se all’improvviso fossi stato circondato dal buio. E non capivo perché ci fossero dj che avessero voglia di suonare o produrre techno, non riuscivo proprio a sintonizzarmi sulla loro lunghezza d’onda. Mi ha aiutato molto collaborare qualche mese più tardi con una band francese di rock psichedelico, i Limiňanas, dargli una mano a completare il disco. Questo mi ha riavvicinato al produrre musica. Poi piano piano è tornata la voglia di immergermi in sonorità da dancefloor, inizialmente quelle più morbide e soulful della house; e poi è tornato tutto, è tornata anche la techno. Ho prodotto un sacco di brani, negli ultimi tempi. Con l’entusiasmo di sempre. Ma ora, cazzo, ci stanno rinchiudendo di nuovo…».