Laurent Garnier è di buon umore quando ci vediamo su Zoom qualche giorno prima della sua serata ai Magazzini Generali dove stasera suonerà per tre ore di dj set: «Sono contento di tornare in Italia, prima a Milano e sabato a Napoli, insieme a Irvine Welsh. Non so bene cosa aspettarmi con Welsh… (ride) forse scriveremo un libro?».
Di certo il suo legame con l’Italia ha radici lontane, e il suo sogno di bambino di diventare dj si alimentava di suggestioni agli ingressi delle discoteche romagnole. «Tutte le estati andavo a Cattolica con la mia famiglia. Sognavo di entrare nelle discoteche, ma avevo soltanto 12 anni, era impossibile. Mi piaceva il club La Baia Imperiale, aveva come logo un’immagine di Marilyn Monroe, e anch’io nella mia stanzetta di ragazzino avevo tappezzato le pareti della sua immagine insieme a luci strobo, tende con pailettes, dischi ovunque. Volevo abitare in un club». Per il dj dei dj, come spesso viene chiamato, a quell’epoca ballavano il fratello e la mamma: «Tutte le volte che i miei facevano feste in casa, e succedeva spesso, cercavo di attirare i loro amici nella mia stanza, e farli ballare nel mio dancefloor».
Oggi il suo pubblico è internazionale e ovunque vada, a 58 anni, Laurent Garnier riempie le piste. I suoi dj set sono ormai considerati rituali, concerti, un’antologia dell’evoluzione della musica techno, da quando cominciò giovanissimo all’Haçienda di Manchester, svelando il sound oltreoceano, a quando ha deciso di contaminarlo con la sua sconfinata cultura musicale. «Il mio segreto? Essere sincero. Sono sempre stato molto sincero rispetto al mio lavoro. Credo di non aver mai accettato compromessi. In francese si dice: je suis resté droit dans mes chaussures (sono rimasto nelle mie scarpe, ndr). Potrebbe essere quello il segreto della mia longevità».
Il rispetto nei confronti di un artista, secondo Garnier, nasce da lì: la coerenza, la curiosità, il diavolo lontano dalla tua anima e un pubblico di raver che è cresciuto con lui. «Oggi quando suono vedo ballare clubber della mia età, li riconosco, sanno i miei pezzi, li prevedono, li aspettano, li ballano come se avessero ancora 20 anni. Ma ci sono anche tanti giovani che magari non hanno mai sentito parlare dell’Haçienda di Manchester, ma che mi ascoltano perché la mia ricerca musicale è senza sosta, attenta alle novità. Se fossi rimasto alla vecchia musica che idolatro, sarei diventato un coglione. Il mio mestiere di dj è cercare le novità nella musica, e mixarla, reinventarla. La cosa che a me interessa è il mélange. Anche il mio pubblico lo preferisco mixato. Giovani e meno giovani. Quella è la formula vincente, sempre».
Sono trasversali i discepoli di Laurent Garnier, che non è soltanto un dj, in effetti, ma anche produttore, speaker radiofonico, cuoco in stile sushi, cinefilo e appassionato di danza (ha collaborato con la coreografa Marie-Claude Pietragalla e con Angelin Preljocaj). Sono migliaia che, dagli anni in cui la techno arrivava da Detroit («i giovani si radunavano in un posto per ascoltare musica, capisci che bello?»), lo seguono come un pifferaio magico. Attraverso il sound degli anni ’80, quando la Thatcher governava la Gran Bretagna e i giovani cercavano sollievo annullandosi nella musica elettronica, Laurent Garnier ha intercettato un momento e un contesto «pronto per la rivoluzione». Di quegli anni racconta: «L’acid house era la soundtrack di quel bisogno, di quella trasformazione». Poi è cambiato tutto.
«Adesso, dopo 35 anni, c’è quasi un turismo di massa per questa musica; essere in molti luoghi l’ha globalizzata. E poi c’è stato anche il Covid, e il post Covid, con alcuni dj che sono diventati famosi grazie a internet. Siamo al punto che la techno, che era il sound più duro, più marziale, a volte difficile, è diventata la dance più commerciale, più popolare, diversa da quella cosa che era all’inizio, quel raduno clandestino dove tutti ci riconoscevamo come simili».
È il club la dimensione di Laurent Garnier. Ci tiene a ribadirlo – e spesso – nella nostra chiacchierata. Nel suo racconto non c’è soltanto malinconia per un luogo dove le distanze sono annullate e la magia del sound è una terapia collettiva, c’è qualcosa altro, di più intimo e importante, per un artista. «Trovo che il club abbia una specie di identità, è il luogo migliore dove ascoltare la mia musica. Nei club, sotto il dancefloor, ci sono le radici di questa musica, la famiglia più prossima. Bisogna preservare quest’energia», insiste, «non bisogna farla uscire troppo dai club, altrimenti rischiamo di vederla morire. Il club è il posto dove il dj ha più tempo per esprimersi e dove le persone possono abbandonarsi, scordar sé stesse, partire per un viaggio con chi suona, con me. I club sono i luoghi dove l’artista riesce a esprimersi meglio. Lì io esprimo la mia anima».
A un dj della vecchia guardia che sa suonare tutto, che sa mixare tutto, e che cita Carl Cox tra i suoi compagni di merende e di coerenza artistica, non chiedete mai un’opinione sui dj tiktoker. «Sarò molto chiaro. Prima cosa: non ho Tik Tok e non m’interessa. Seconda, non me ne fotte niente dei dj tiktoker e dei loro follower. Terza e ultima: se qualcuno mi manda musica e nella mail di presentazioni dichiara i suoi follower, cancello immediatamente senza nemmeno ascoltare. Se la preoccupazione di queste persone è il numero di follower, non voglio averci a che fare. Fottetevi. I tiktoker fanno solo video brevi, mentre il lusso del dj è il tempo. Un viaggio col dj inizia dopo tre ore, che cosa vendono questi tiktoker? Non ne voglio sapere».
Il sorriso lo riconquistiamo parlando del progetto che ha realizzato per Fabric, il club di Londra per antonomasia: «Mi hanno chiesto di essere il cerimoniere di Fabric Presents, un dj mix che incorpora tutta la sfera elettronica immaginabile, in tutti gli stili musicali possibili: UK bass, techno, house. Un progetto molto prestigioso per i 25 anni del Fabric. All’inizio però ammetto di aver rifiutato, pensavo di non essere la persona più adatta a farlo. In questi 25 anni ci ho suonato solo tre volte lì e c’erano sicuramente dj più rappresentativi di me. Ma loro hanno insistito. Mi ha fatto molto piacere. Così ci ho riflettuto perché cercavo qualcosa di ambizioso e ho proposto quattro mix, uno per ogni sala del club e per stile musicale. Il primo è techno, molto deep, da Detroit a oggi, il secondo è un mix di house che viaggia verso Africa, Chicago, NYC, Europa. Il terzo riguarda la UK bass fino alla drum’n’bass». E il quarto? «Ambient, elettronica più soft», spiega Garnier premuroso, «perché se dopo il club la gente volesse continuare la serata a casa propria? La quarta sala di Fabric è nel salotto di ciascuno di noi. Et voilà».
I quattro mix, con un EP formato da quattro singoli di Garnier, usciranno il 29 novembre mentre il mega party al Fabric di Londra è previsto per il 7 dicembre. «Questo potrebbe essere l’ultimo mix che faccio», commenta Garnier, abbassando un po’ la voce. Sono quindi vere le voci sul suo imminente ritiro? Così risponde: «È vero, sto pensando di ritirarmi… Ascolta, ho 60 anni tra un anno e mezzo. Sono più vicino all’uscita che all’ingresso. Non smetterò di condividere musica. Continuerò a fare radio, ho la mia etichetta discografica, ho sempre quel bisogno vitale di ascoltare musica, suonarla, conoscerla, di farla scoprire. Ci passo tutti i giorni, sai? Stamattina è dalle 9 che ascolto musica, capisci cosa vuol dire? Ho ascoltato 100 album oggi, e domani saranno 80. Mi devo calmare!». Sospira, poi riprende: «Mi fa sempre piacere suonare, e succederà ancora l’anno prossimo. Ma dal 2025 mi darò una regolata. L’amore per la musica, però, quello non potrà mai fermarsi».
Ci salutiamo con la promessa che «qualche serata la farò ancora, bien sûr», con la rivelazione che quando pubblicò il suo primo singolo A bout de souffle non sapeva ci fosse un film di Jean-Luc Godard con lo stesso titolo («poi ho recuperato, adesso so tutto della Nouvelle Vague!») e con un commento inaspettato sullo stile danceflooor: «Le persone ballano in modo strano, primitivo, quasi infantile. Si abbandonano. Il fatto che questa musica le faccia ballare per sei ore, però, è geniale» E soprattutto con la promessa di imparare a impastare la pizza, «è uno dei mie prossimi progetti, o forse il mio destino».
L’immagine Zoom si chiude con la sua voce che mi assicura: «Sì! Quelli che vedi in questa stanza non sono libri, ma dischi! Sono 14 mila, à bientôt». Che per noi è stasera ai Magazzini Generali di Milano. I feel love.