Di fronte all’ottavo album delle CocoRosie, Little Death Wishes, una cosa è chiara: Bianca e Sierra Casady non hanno mai avuto paura di camminare sul filo dell’eccesso. Per oltre vent’anni hanno smontato e riassemblato il concetto stesso di musica indipendente, muovendosi tra folk, elettronica e sperimentazione con la naturalezza di chi non appartiene a nessuna scena, se non alla propria.
Eppure, il loro viaggio non è mai stato lineare. Dopo un’adolescenza vissuta in città diverse, tra collegi e distanze forzate, le sorelle si sono ritrovate quasi per caso a Parigi nel 2003, dopo anni di separazione. Da quell’incontro è nata un’urgenza creativa: chiuse nel bagno dell’appartamento di Sierra, il luogo con la miglior acustica disponibile, hanno dato vita a un universo musicale che da allora non ha mai smesso di espandersi.
Little Death Wishes è un viaggio attraverso la fragilità umana e le ferite dell’amore, una collisione di simboli pop e visioni barocche che sfida il tempo e le mode. Ma cosa significa oggi essere le CocoRosie? Come si mantiene in vita un progetto così ostinatamente fuori dagli schemi? In questa intervista, Bianca e Sierra ci parlano della loro alchimia artistica, delle difficoltà di essere capite e di come, dopo due decenni, continuino a fare i conti con loro stesse e con la loro storia attraverso l’arte. Nell’attesa di vederle dal vivo nella loro seconda casa, l’Italia, dove si esibiranno il 28 maggio a Trieste, il 30 a Milano, il 28 luglio a Roma, l’1 agosto a Genova e l’8 agosto a Palermo.
«Siamo un bricolage di cultura pop». Parole vostre. Cosa intendete?
Bianca: Abbiamo sempre visto la nostra musica come un collage, proprio come facciamo con l’arte visiva. Anche il nostro stile è un collage. C’è spesso una collisione di generi, a volte persino nei ritmi, con diverse firme musicali che si sovrappongono. Lavoriamo sempre più con quello che abbiamo a disposizione, tagliando e rielaborando elementi esistenti, campioni di epoche diverse, creando una sorta di viaggio nel tempo sonoro. È un po’ un processo alla Frankenstein: io creo il caos e Sierra gli dà una struttura, lo modella e gli dà un senso. Così, da questo disordine, emerge qualcosa di nuovo e originale.
Sierra: È proprio questo l’aspetto che ci affascina: il fatto che da un caos apparentemente senza forma possiamo ricavare una nuova narrazione. La musica è come un processo di assemblaggio, dove ogni frammento ha una sua storia, e quando questi frammenti li metti insieme, crei qualcosa che non avresti mai immaginato all’inizio.
Avete detto che realizzate anche collage veri e propri. Quanto sono importanti le altre forme d’arte nella vostra musica? Penso ovviamente al teatro e alla vostra esperienza con la danza.
Sierra: C’è sempre una connessione tra la nostra musica e altre forme artistiche. Spesso, quando componiamo, pensiamo a immagini visive. Io, ad esempio, ho bisogno di pensare a una canzone come se fosse un film, con un paesaggio ben definito. Ogni nostra canzone esiste in un luogo specifico, anche se immaginario.
Bianca: Non collaboriamo molto con altri artisti contemporanei, ma il nostro processo è sempre un intreccio tra immagine e testo. Il teatro è ciò che ci viene più naturale. Non siamo mai state interessate al musical, ma ci siamo sempre sentite a nostro agio nel contesto teatrale. In un certo senso, CocoRosie si sta muovendo sempre più in quella direzione.
Sierra: Il nostro rapporto con il pop, invece, è quasi ironico. Per noi il pop è una sorta di restrizione, perché siamo naturalmente anti-pop. Ma quando proviamo ad avvicinarci a quel mondo – anche se per noi è impossibile – succede sempre qualcosa di interessante. È come un obiettivo che non raggiungiamo mai, ma ci divertiamo a giocare con esso.
Cosa vi rende anti-pop?
Bianca: Non è una scelta, è semplicemente la nostra natura. Anche quando proviamo ad avvicinarci al pop, ne viene fuori qualcosa di strano. È come se non riuscissimo mai a entrare davvero nel mondo che il pop rappresenta. La nostra musica è solo un riflesso di quello che siamo, senza forzature.
Una caratteristica ricorrente del vostro sound è il ricorso a strumenti giocattolo. C’entrano Jung e Freud o è solo musica?
Sierra: All’inizio non eravamo particolarmente selettive sugli strumenti, non cercavamo un suono preciso. Eravamo interessate all’hip hop e ci siamo rese conto che anche in quel genere si usa ciò che si ha a disposizione. Così, per caso, abbiamo trovato dei giocattoli sonori. La mancanza di strumenti veri ci ha portate a sperimentare con piccoli oggetti che facevano suoni particolari.
Bianca: E in quel processo abbiamo scoperto qualcosa di molto nostalgico, capace di evocare ricordi d’infanzia e sensazioni strane. Il contrasto tra il beatbox e questi rumori “giocattolosi” creava qualcosa di unico e ci siamo lasciate trasportare. È stata una scoperta casuale, ma è diventata una specie di dipendenza sonora.
Nel 2024 è ricorso il ventennale del vostro primo disco La maison de mon rêve. Cosa ricordate di quel periodo? E in cosa pensate di essere cambiate di più in questi vent’anni di carriera?
Bianca: All’epoca era come essere possedute da qualcosa. Non parlavamo molto di piani o intenzioni. Non avevamo nemmeno l’intenzione di fare un album o di formare una band. Ma c’era un’energia che ci guidava, come se tutto fosse già scritto. Se guardo indietro, sembra che avessimo una strategia precisa, ma in realtà è successo tutto in modo molto spontaneo.
Sierra: Abbiamo registrato su un quattro tracce, Sierra ha mixato il tutto, e la cosa che mi colpisce di più è il modo in cui i suoni erano mixati: gli strumenti giocattolo erano trattati come strumenti veri e propri, non come elementi di contorno. Con il tempo, il nostro approccio è cambiato, ma in un certo senso, con questo ottavo disco, siamo tornate alle origini: strumenti semplici, attrezzatura minimale, solo noi due e quello che abbiamo intorno.
Bianca: C’è stato un periodo in cui abbiamo lavorato in studi più grandi, con musicisti, ma ora siamo tornate a questo processo più intimo e spontaneo. Ed è bello, ci fa sentire come se avessimo ritrovato il nostro spirito originario.
Il vostro progetto musicale nasce dal vostro legame particolare di sorelle ritrovate. Il vostro rapporto è racchiuso in un brano molto significativo di questo disco, ovvero Least I Have You, nel quale è impossibile non leggere la vostra storia tra le righe.
Sierra: Ho scritto il ritornello quando non eravamo insieme. Probabilmente stavo cercando di ricreare il nostro legame a distanza. La canzone è un collage di storie. Parla di amori perduti, delusione, rabbia, ma anche di ciò che resta dopo il disastro. E certamente parla anche di noi, e del fatto che abbiamo avuto un’infanzia… diciamo unica.
Se doveste parlare con qualcuno che come voi si sente unico, magari a causa di un disastro familiare o di esperienze difficili, cosa direste a queste persone, a quei giovani che stanno vivendo situazioni simili?
Sierra: Penso che avere uno sbocco creativo nell’espressione artistica sia probabilmente la cosa più importante. Essere in grado di oggettivare l’esperienza e poi elaborarla nel tempo è lo strumento più potente che abbiamo. Noi intrecciamo molte delle tragedie familiari nella nostra arte, e spesso queste si trasformano in qualcosa di diverso, qualcosa che ci aiuta a prendere il controllo della narrazione.
Bianca: Quindi, che tu ti senta un artista o meno, direi che sia attraverso la scrittura di un diario, la composizione di canzoni o la pittura, è fondamentale tirare fuori ciò che si ha dentro. Poi, quando guardi la tua esperienza dall’esterno, puoi stabilire un nuovo rapporto con quella storia, puoi cambiarla, e così puoi anche prendere il controllo di ciò che ti è accaduto.
A questo disco seguirà un tour che arriverà anche in Italia. Vent’anni fa nelle interviste dicevate che l’Italia era una vostra priorità perché già allora avevate un piccolo gruppo di fan. È ancora così? E cosa dobbiamo aspettarci dal tour?
Bianca: L’Italia è sempre stata importante per noi. Ci siamo state per la prima volta da adolescenti e abbiamo un legame speciale con l’Umbria, dove abbiamo vissuto per un breve periodo. I fan italiani sono pieni di cuore e dolcezza, è sempre bello tornare. Il tour sarà un viaggio attraverso questi vent’anni di musica. Suoneremo il nuovo album, ma come sempre lasceremo che le canzoni cambino dal vivo. Il nostro obiettivo è portare sul palco i suoni più delicati delle CocoRosie, insieme ai beat più potenti, mescolando strumenti rari, elettronica e giocattoli sonori. Sarà un esperimento entusiasmante.

Le CocoRosie si esibiranno il 29 maggio a Trieste, il 30 maggio a Milano, il 28 luglio a Roma, l’8 agosto a Castelbuono (PA). Foto: Daria Miasoedova
Avete vissuto in Umbria, in Francia, ora chiamate rispettivamente dal Texas e dalla California. In generale avete vissuto in tantissimi posti diversi, sia durante la vostra infanzia, sia in seguito alla nascita del progetto CocoRosie. C’è qualche luogo a cui vi sentite più legate o a nessuno in particolare?
Bianca: Beh, la risposta è semplice. Ci siamo spostate molto durante l’infanzia, quindi non ci sentiamo particolarmente legate a molti luoghi e nemmeno agli Stati Uniti. C’è una sorta di sensazione aliena ovunque, ma allo stesso tempo abbiamo imparato a sentirci a casa ovunque.
Sempre vent’anni fa, dicevate che la vostra musica era come «il centro del mare al tramonto». La descrivereste ancora così?
Sierra: Ah sì? Oh mamma… Beh, ora diremmo che è più come un barbecue di famiglia, con tutte le generazioni presenti, ognuno con le proprie ferite, ma tutti insieme.
Direi meglio.
Bianca: Dai meno male, all’epoca non sapevamo nemmeno cosa stessimo facendo. Eravamo strane e spesso fraintese. Ora siamo solo un po’ meno strane, ma un po’ abbiamo imparato a spiegarci.