Rolling Stone Italia

Le disavventure dei Mudhoney nel mondo delle major e del fisco

In piena grungemania riuscirono a firmare con il gruppo Warner senza farsi fregare dall’illusione dei soldi facili. Poi però, come spiega Mark Arm, è arrivata l'agenzia delle entrate e non ha avuto pietà

Foto via Cherry Red

È collegato via Meet dalla sede della Sub Pop, in un ufficetto spoglio che ha più l’aria di un ripostiglio. Pareti bianche, una luce giallastra e nessun elemento di arredamento visibile. Mark Arm, frontman e portavoce dei Mudhoney, osserva con occhi curiosi e guizzanti lo schermo, mentre ci salutiamo. È molto cool, un po’ invecchiato (si intravedono le striature di grigio fra i capelli biondi, che porta ancora lunghi a caschetto), ma il suo viso affilato e la sua mimica facciale tradiscono un’energia e una personalità esuberanti. Per non parlare del sorriso: è quello di uno che ne ha viste di tutti i colori. Oltre ad averne fatte di ogni.

Il pretesto del nostro appuntamento via web è l’uscita di un box, per Cherry Red, intitolato Real Low Vibe: The Reprise Recordings 1992-1998, dedicato appunto agli album che la band pubblicò sotto l’egida della major Reprise (affiliata a Warner Bros., all’epoca). Una storia che non è stata esattamente una romantica liaison, ma che ha prodotto tre solidi elementi nella discografia della band di Seattle, gli album Piece of Cake (che contiene il classicone Suck You Dry), My Brother the Cow e Tomorrow Hit Today.

Partiamo proprio dal primo disco incluso nel box di cui sopra, perché legato a una storia interessante. Quando i Mudhoney si sganciano dalla Sub Pop (che fatica a gestire l’esplosione dei Nirvana e ha difficoltà a livello di liquidità), incidono Piece of Cake, ma il risultato finale non li soddisfa, tanto da ribadirlo più volte, negli anni a venire. Mark mi spiega: «Piece of Cake, quando uscì nel 1992, a livello commerciale fu il nostro album a vendere più copie nel minor tempo (si parla di circa 150 mila pezzi, nda). Ci furono molti preordini, questo perché negli anni precedenti avevamo lavorato duro, ci eravamo fatti un nome. Senza contare che la promozione fatta da una major era più capillare. Poi la distribuzione fu più curata, perché la Reprise fece in modo di fare arrivare i dischi in tutti i negozi. Per quanto riguarda la qualità, a mio parere non è altissima e sono sicuro che quello precedente e i due album successivi sono molto migliori – lo affermo senza il minimo dubbio. E di questo calo di qualità io mi assumo, senza discutere, la fetta maggiore di responsabilità». Un’ammissione serena e sincera – del resto Mark in quel momento, in effetti, non volava esattamente altissimo, a livello di situazione personale. «A dire il vero, probabilmente viaggiavo ad altissima quota! (Ride, riferendosi ai problemi di dipendenza da eroina di quegli anni, nda) Quello era il problema… il mio interesse principale non era la musica. Ero concentrato su tutt’altro».

In realtà l’album è solido, brutale e zozzo – alla Mudhoney – e contiene quattro pezzi solisti concepiti quasi a voler prendere in giro i loro committenti: dovevano essere scritti e incisi dai singoli membri in un tempo massimo di 45 minuti. Mi sono sempre domandato come la Reprise abbia accettato l’inserimento di quei frammenti (uno è composto facendo rumore di scoregge con le mani, per intenderci). «Credo che la Reprise non avesse idea di cosa noi stessimo facendo in studio. Erano assenti. Erano confusi dal successo di Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden e Alice in Chains. Investivano da anni un sacco di soldi in artisti pop, r&b o pop metal e non si capacitavano dell’esplosione di questo fenomeno che arrivava dall’underground, che aveva conquistato un pubblico ampissimo. Non lo capivano. Fino a quando abbiamo iniziato a lavorare all’ultimo album per loro Tomorrow Hit Today, nessuno ha mai provato a darci consigli, a interferire col nostro lavoro o a indirizzarlo. Ci hanno dato carta bianca. Non avevano idea di cosa stesse succedendo intorno a loro e probabilmente hanno pensato: questi ragazzi ne sanno più di noi di questa roba, quindi lasciamoli fare ciò che vogliono. Però in quel frangente il nostro senso dell’umorismo si manifestò in una maniera che era un po’ troppo sopra le righe. Decidemmo di registrare questi quattro pezzi brevi, composti in pochi minuti: ognuno di noi doveva incidere tutte le parti strumentali da sé. Cercammo quasi tutti di dare una sorta di messaggio, ma Matt (Lukin, nda) non sapeva cosa fare e si limitò a produrre rumori di peti con le mani. Io decisi di prendere per il culo la techno, ma alla fine quello che traspare è che funzionavamo meglio come squadra che non come singoli elementi. Forse quello che avevamo in mente era una versione meno pretenziosa della seconda parte di Ummagumma dei Pink Floyd (ride)».

In sala prove. Foto via Cherry Red

La relazione con Reprise dura il tempo di altri due album e s’interrompe in pratica durante la lavorazione di Tomorrow Hit Today, forse uno degli LP più particolari ed elaborati della band. Il rapporto fra l’etichetta e i Mudhoney si è deteriorato in quanto le illusioni di avere i nuovi Nirvana si sono frantumate contro a numeri ottimi per una band indipendente, ma trascurabili per una major (abituata a ragionare su milioni di dischi venduti per decretare il successo di un investimento). Infatti Mark, senza nascondere una certa stizza, dice: «Quando Tomorrow Hit Today uscì, la Reprise non fece alcuno sforzo promozionale per spingerlo. Avevano già messo in conto che sarebbe stata un’uscita in perdita, per cui non volevano investire altro denaro in un fallimento. Steve (Turner, nda), all’epoca, aveva una piccola label che si chiamava Super Electro Sound Recordings e pubblicò la versione su vinile dell’album. Era la fine degli anni ’90, allora i CD andavano fortissimo, erano nel loro momento d’oro. Eppure Steve, in proporzione, smerciò più copie del disco su vinile di quante Reprise non ne vendette su CD. Noi provavamo di continuo a contattare la Reprise per chiedere che mettessero qualcuno a occuparsi del disco e lo promuovesse, ma non ci consideravano minimamente. A loro non importava un cazzo. Non che Steve abbia venduto un milione di LP – forse 10 mila o una cosa del genere – ma alla Reprise non fregava proprio nulla del disco». Infatti i Mudhoney sono tornati con la Sub Pop, per cui pubblicano ancora adesso.

A proposito della questione legata ai supporti, Mark commenta anche la nuova uscita Real Low Vibe: The Reprise Recordings 1992-1998: «Credo sia un progetto interessante, perché fotografa un momento unico nella vita della band. La sola delusione è che esca esclusivamente su CD e non anche su vinile. Non capisco il motivo di questa scelta, perché so che la maggior parte dei nostri fan possiede un giradischi – e la restante porzione ascolta musica su Spotify, molto probabilmente. Per dirla tutta, uscire su CD per me non ha alcun senso… sai, io lavoro nel magazzino della Sub Pop e vedo quanto poco i CD vendono: non va bene, è una brutta situazione. Il vinile va molto meglio».

Visto che si tocca l’argomento denaro e vendite, mi sovviene una particolarità della gestione economica dei Mudhoney. Nel loro periodo major si accontentarono di anticipi buoni, ma non sontuosi. Il gioco, poi, era incidere spendendo molto poco, in modo da potersi spartire i soldi avanzati senza indebitarsi fino al collo con l’etichetta, come invece hanno fatto molte band all’epoca, abbagliate dai soldi (che, comunque, andavano restituiti e non erano a fondo perduto). In questa maniera Mark e i suoi compari hanno potuto crearsi una situazione economica confortevole, anche se non da villa con piscina e Ferrari parcheggiata sul vialetto. «I nostri contratti con la Reprise sono stati redatti con molta cura», precisa Mark. «Eravamo tutti piuttosto grandi allora, io avevo quasi 30 anni, e avevamo visto come funzionavano le cose quando i gruppi firmavano per una major: se accettavano un anticipo sostanzioso, diventava difficile andare in pari, se poi il disco non vendeva molto bene. Quindi abbiamo capito che contratti meno ricchi in cambio della libertà artistica erano la strada migliore, piuttosto che prendere un sacco di soldi subito e poi trovarsi in grosse difficoltà».

Un business model che funziona alla grande finché il diavolo non ci mette lo zampino – in questo frangente nei panni formalissimi da funzionario dell’IRS, il fisco statunitense. Già, perché a un certo punto i Mudhoney si rendono conto che c’è qualcosa che non quadra nei conti della band e forse ci sono situazioni da sistemare a livello di tasse arretrate non versate. «Sai, non eravamo – e non lo siamo ancora adesso – persone molto abili nel gestire questioni burocratiche e fiscali. Non avevamo idea di quali fossero le leggi e le normative vigenti. Alla fine ci siamo presi una bella legnata: quando abbiamo capito che c’erano cose da sistemare, ci siamo affidati a dei professionisti affermati per la gestione dei nostri conti. Loro hanno individuato tutto ciò che era stato fatto in maniera non corretta oppure omesso. A quel punto ci siamo costituiti all’IRS: pensavamo, ingenuamente, che confessando le nostre mancanze ed errori sarebbero stati più clementi. Invece l’IRS non ci andò affatto leggero. Per niente. Picchiarono senza pietà, non ci concedettero nessuna attenuante o sconto… ci fecero a pezzi, cazzo (si parla di un debito di 450 mila dollari comprese le sanzioni, nda). Negli Stati Uniti ci vanno giù pesantissimi per questo tipo di reati, ma si accaniscono soprattutto contro le persone del ceto medio… non si scagliano mai con la stessa furia contro le big corporation. Picchiano forte contro chi non ha le risorse economiche per difendersi e contrastarli a dovere. La cosa positiva è stata che tutto questo casino è rimasto, in qualche modo, sullo sfondo e non ci ha mai fatto pensare di mollare oppure di metterci a fare cose commerciali per provare a tirare su più soldi».

Ai tempi di ‘My Brother the Cow’. Foto via Cherry Red

Vista la situazione mondiale, è impossibile non toccare – in chiusura – l’argomento più importante/pesante del 2020 (e probabilmente del 2021): la pandemia da Covid-19. «I Mudhoney stanno soffrendo parecchio a causa della pandemia», racconta Mark. «L’ultima cosa che abbiamo fatto è stata suonare un concerto, in California, in occasione del compleanno di un amico. Era la fine di febbraio di quest’anno. In quell’occasione Steve ed io ci siamo anche fermati a L.A. per un paio di giorni e abbiamo inciso quattro pezzi con i Melvins. Poi siamo rientrati… e tutto si è fermato all’improvviso. La situazione complessiva è molto brutta. Noi, come band, non possiamo incontrarci per fare le prove, visto che la nostra sala prove è una stanza piccola senza ventilazione, per cui diventa pericoloso stare dentro tutti insieme. Non potendo fare dischi o andare in tour sarebbe bello poterci concentrare su nuova musica, ma al momento non possiamo fare neppure questo perché non ci è possibile incontrarci e suonare insieme. È estremamente frustrante. Del resto non ci interessa fare neppure quelle cose terribili online, in streaming».

Un quadretto desolante, in effetti. Mark continua: «Certo non mi voglio lamentare troppo, perché rispetto ad altre persone la situazione per me è comunque buona: io ho ancora il mio lavoro, la Sub Pop va molto bene e mi ha assunto a tempo indeterminato. Invece ci sono tanti che hanno perso il loro lavoro e comunque uscire è pericoloso. Anche perché in America, in particolare, ci sono tantissimi idioti che non vogliono indossare le mascherine protettive che eviterebbero il diffondersi il contagio: proprio non ce la fanno a capire. Ho visto, l’altro giorno, un’intervista a un’infermiera del South Dakota, dove c’è un grosso focolaio per via del raduno motociclistico di Sturgis che ha portato un grande assembramento di persone e tantissimi contagi da Covid. L’infermiera diceva che ci sono persone che, anche mentre stanno esalando l’ultimo respiro, in punto di morte, si ostinano a dire che il Covid non esiste e negano l’evidenza. Questa testardaggine nel non accettare la realtà è sconvolgente, spaventosa… ma purtroppo in questo Paese c’è una grandissima percentuale di idioti che la pensano così».

Iscriviti