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«Le opere liriche sono la summa del lavoro di Battiato»

Gli ologrammi, la scrittura per orchestra, il disprezzo dei critici, l’opera inedita sulla cosmonauta russa: il Battiato “colto” raccontato dal compositore e direttore d’orchestra (e suo collaboratore) Carlo Boccadoro

Foto: Tullio M. Puglia/Getty Images

È esistito un Franco Battiato totalmente diverso da quello pop e da quello prog-sperimentale degli esordi. Un serissimo compositore di musica contemporanea che nel biennio 1977-78 ha pubblicato tramite Ricordi tre dischi (Battiato, Juke Box, L’Egitto prima delle sabbie) caratterizzati da copertine bianche che spesso sono tenuti in scarsa considerazione anche dai suoi più strenui aficionados, in quanto troppo difficili, di una difficoltà – dicono – insormontabile. Davanti a brani come o L’Egitto prima delle sabbie molti si sono arresi, non sapendo ciò che si perdono. Si tratta indubbiamente di composizioni non immediate che a un attento ascolto possono però spalancare interi universi sonori.

C’è un musicista che con passione e costanza è riuscito a ritrovare gli spartiti dell’epoca e ora li ripropone dal vivo in spettacoli che lasciano piacevolmente sconvolto il pubblico dell’artista siciliano. Si tratta di Carlo Boccadoro, musicista, compositore, direttore d’orchestra e musicologo che ha scritto un libro assai dettagliato su quel periodo e che insieme al suo ensemble Sentieri Selvaggi si sta prodigando per portare in giro partiture tanto peculiari quanto affascinanti. Non solo, Boccadoro vanta una serie di collaborazioni con Battiato, da opere a esecuzioni estemporanee destinate a lasciare il segno.

Quando hai conosciuto Battiato e la sua musica?
Lo ascoltai per la prima volta ai tempi dell’Era del cinghiale bianco, poi lo andai a sentire dal vivo a Milano quando uscì Patriots e mi recai in camerino per conoscerlo. Ero un ragazzino, facevo il primo anno dei conservatorio e per combinazione abitavo in una strada vicino allo studio di Alberto Radius. Alberto era molto affezionato a me, mi trattava come fossi suo nipotino e molto generosamente mi lasciava entrare per ascoltare le sessioni di registrazione: mi ricordo quelle per i suoi album e anche quelli di Franco. Una volta lo vidi, aveva il codino e probabilmente era il periodo dei lavori per La voce del padrone. Nel tempo ebbi modo di incontrarlo varie volte, venne a sentire il mio ensemble Sentieri Selvaggi e mi vide dirigere. Assistette anche a un concerto del progetto con Eugenio Finardi che interpretava Vladimir Vysotsky, con il quale vincemmo il premio Tenco. Quindi è evidente che già da un po’ mi teneva d’occhio. Inaspettatamente un giorno squillò il telefono, risposi e una voce disse: «Sono Battiato, ti andrebbe di dirigere la mia nuova opera?». L’opera in questione era Telesio, che in quel momento non aveva ancora composto. Chiaramente gli risposi immediatamente di sì, avendo modo di assistere alla sua creazione. Quando sento ogni tanto voci di chi lo accusa di non sapere scrivere per orchestra io posso testimoniare che lo sapeva fare eccome, l’ho visto con i miei occhi.

Telesio fu un’opera incredibile con i suoi ologrammi, ancora una volta Franco si dimostrava avanti per i suoi tempi.
Dieci anni fa era una cosa rivoluzionaria, nonché costosissima. L’unica opera della storia con queste proiezioni in 3D che sembravano in tutto e per tutto reali. Io dirigevo l’orchestra (vera) che era sincronizzata con le proiezioni tramite un metronomo, il resto, protagonisti e scene, erano tutti ologrammi. Era impressionante e impossibile da filmare perché le telecamere non riescono a riprendere il 3D che è un’illusione dell’occhio umano. Ma visto dal vivo era come se ci fossero delle persone in carne e ossa, palazzi sfarzosi, giardini bellissimi, anche dei danzatori indiani. Tutto super psichedelico, con dei colori pazzeschi ma tutto in 3D. Pensa che la sera della prima una signora aveva portato dei fiori per l’attore principale, Giulio Brogi, che in realtà era stato presente solo in forma di ologramma. Alla fine dello spettacolo uscivamo infatti solo io e Franco a ringraziare, non c’era nessun altro.

L’opera aveva debuttato a Cosenza, ma poi si è fermata, non avete pensato di portarla in altri teatri?
Doveva succedere, c’era già una data fissata agli Arcimboldi di Milano ma la ditta inglese che forniva le apparecchiature per gli ologrammi chiese delle cifre così ingenti che il tutto non si rivelò fattibile. In più, come dicevo, non era nemmeno possibile filmarla e quindi ci resta solo un documentario del dietro le quinte che venne allegato al CD.

Non credi sia un vero peccato che le opere di Franco non abbiano potuto essere rappresentate di più?
Devi contare che avevano costi enormi, Gilgamesh aveva un allestimento colossale, l’orchestra, il coro, i solisti, i danzatori, le scenografie, le proiezioni. Le opere rappresentano sforzi economici e produttivi giganteschi. Però… non ti dico niente ma potrebbero esserci delle sorprese.

Da musicologo come collochi queste opere?
A mio avviso rappresentano una specie di summa di tutto il lavoro di Franco, uniscono il suo periodo elettronico con quello nell’ambito della musica contemporanea. Non solo, c’è anche il suo lato pop, con delle arie che potrebbero tranquillamente essere trasformate in canzoni.

So però di diverse critiche da parte dei puristi della classica.
Telesio fu fatta a pezzi con una cattiveria incredibile, spropositata. Franco però era disinteressato, non leggeva le critiche e continuava il suo lavoro come se nulla fosse. Un po’ meglio erano state accolte Genesi e Gilgamesh, all’epoca non c’era il disprezzo che c’è oggi da parte del mondo della classica per il suo lavoro, almeno quello riguardante le opere, definite dai critici troppo easy listening. Meglio sono stati accolti i pezzi che ho recuperato, appartenenti ai lavori del 1977-78, lì c’è una maggiore tolleranza.

Mi racconti di quella volta che sei finito a suonare l’Hammond in Apriti Sesamo?
Ero in studio che assistevo alle registrazioni di quel disco e Franco di punto in bianco mi ha detto «Fammi un assolo di organo Hammond in stile Brian Auger», questo perché la canzone (Quand’ero giovane, nda) parla della sua gavetta nelle balere durante gli anni ’60. E in quegli anni l’organo rock era Steve Winwood o, appunto, Brian Auger. Io gliene ho fatti due diversi con una decisa inflessione blues, poi lui ne ha scelto uno.

Carlo Boccadoro. Foto: Giovanni Daniotti

Com’era Franco in studio?
Impressionante. Pensa che tutte le parti vocali erano buone alla prima. Non faceva mai diverse take, appena si metteva al microfono tutto era già perfetto. Non l’ho mai visto rifare una voce, andava, cantava e usciva, tutto buono dall’inizio alla fine senza bisogno di editing di nessun tipo. Poi ho visto come lavorava Pino Pischetola: vederlo mixare un disco è uno spettacolo, anche se Franco sapeva benissimo quello che voleva, nel suo rapporto con Pino la creatività si sviluppava ancora di più, questi gli proponeva un sacco di soluzioni diverse. È un vero artista che invece di suonare il pianoforte suona il mixer.

Sei stato coinvolto anche in un progetto denominato La ragazza con l’orecchino di perla, di cosa si trattava?
In realtà ho fatto solo una data a Bologna perché in quel frangente il pianista Carlo Guaitoli non era disponibile. Si trattava di una mostra nella quale era chiaramente presente il quadro di Vermeer, con la partecipazione di Alice. Io avevo arrangiato alcune canzoni per un ensemble comprendente pianoforte e archi e vennero eseguiti anche degli stralci di Telesio.

Ho sentito parlare di un’opera su una cosmonauta mai portata a termine, ne sai qualcosa?
Sì, gli era stata commissionata a Trieste e avrebbe narrato della cosmonauta russa Valentina Tereshkova, la prima donna a essere lanciata nello spazio, nel 1963. Un’opera space age sulla carta molto intrigante che poi non è mai stata nemmeno scritta perché l’ente non aveva i soldi per metterla in scena. In perfetto stile italiano l’hanno annunciata senza garantire che si sarebbe potuta realizzare, solo per farsi belli grazie al nome di Franco.

Hai avuto modo di collaborare con lui altre volte prima della malattia?
Una volta a Matera in un evento organizzato da Radio 3, in quel frangente Franco avrebbe voluto proporre una suite di brani da Telesio accompagnato da me alle tastiere e da Carlo Guaitoli al pianoforte. Dovevamo fare solo quella in un posto piccolissimo, con una capienza di circa 300 persone. Quando arrivammo ci rendemmo invece conto che qualche deficiente dell’amministrazione comunale aveva scritto “Franco Battiato in concerto gratuito”. Risultato: sono arrivate più di diecimila persone. Siccome non sapevano che pesci pigliare ci hanno spostati in una sorta di cavea, dove non c’erano nemmeno le toilette, con questa folla immensa che si aspettava un normale concerto di Franco. Lui però fu ostinato nel proporre solo il programma che ci eravamo preparati: mezz’ora di Telesio, lo disse anche al pubblico: «Noi siamo qui per presentare queste musiche, chi non è interessato può andarsene al bar», una cosa alla Roger Waters. Calò un silenzio totale e noi ci lanciammo in questa suite sconvolgendo i moltissimi presenti che si aspettavano canzoni pop. Però non volò una mosca e noi potemmo eseguirla senza problemi. Alla fine però vedemmo quest’orda di persone – non c’era nemmeno un cordone di protezione, nulla – e non ci volle molto a capire che se ce ne fossimo andati senza nemmeno eseguire due o tre canzoni sarebbe scoppiata l’apocalisse. Così, senza averli provati prima, eseguimmo La cura e un altro paio di pezzi.

Mi ricorda certe storie che ho sentito su Franco negli anni ’70, quando si presentava armeggiando una radiolina per tutto il concerto, non eseguendo alcun pezzo dai suoi dischi. I presenti lo avrebbero voluto linciare.
Esatto, il suo atteggiamento non era cambiato, faceva sempre e solo ciò che il cuore gli diceva, non gliene fregava nulla. Un’altra volta invece, ancora in sostituzione di Carlo Guaitoli, lo accompagnai in un’esibizione nell’ambito di un premio alla carriera a Fleur Jaeggy. Era il periodo dopo la prima caduta sul palco a Bari e Franco si sentì malissimo. Pensavamo di cancellare il suo intervento quando si riprese e poté esibirsi in alcune canzoni. Dopo la rottura del femore ogni tanto gli capitava di subire questi crolli, nei quali si svuotava totalmente di energia e non riusciva a far niente. Poi le cose sono andate via via peggiorando e molti, tra cui io, si sono chiesti se l’incidente di Bari fosse stato causato da un problema neurologico già in corso o se i problemi fossero iniziati proprio a causa di quella caduta. Non è dato saperlo.

Fin dal 2009 ti occupi di riproporre in concerto le pagine più ardite di Franco. Come è nata questa idea?
Credo che quelle musiche meritino di essere riportate a galla e proposte a un pubblico che spesso ne ignora l’esistenza. Stressai Franco fino allo sfinimento per farmi avere almeno qualche partitura dell’epoca, così finalmente un giorno mi portò quella di Sud Afternoon, scritta praticamente in azteco, che poi ho eseguito con i Sentieri Selvaggi in sua presenza, insieme a L’Egitto prima delle sabbie. Un anno e mezzo fa il concerto è stato anche pubblicato su Spotify. Da quel momento non se ne era più parlato anche perché di tutti gli altri pezzi dell’epoca ufficialmente non esistevano più spartiti, nessuno ne sapeva niente. Negli anni ho però continuato a rompere le tasche a Franco e ad Antonio Ballista, il pianista che aveva eseguito quelle composizioni, con la speranza che gli spartiti potessero saltare fuori. È stato proprio Ballista che a un certo punto è riuscito nel miracolo di ritrovarne alcuni che adesso stiamo restaurando per l’esecuzione. Si tratta del materiale pubblicato sui dischi per la Ricordi: Franco Battiato, Juke Box e L’Egitto prima delle sabbie. Questo senza contare tutta un’altra serie di composizioni inedite che all’epoca venivano presentate in concerto e delle quali purtroppo non è rimasta traccia. Mi piacerebbe anche saltasse fuori la registrazione completa dell’incredibile improvvisazione all’organo nella cattedrale di Monreale, di cui solo una minima parte – circa 15 minuti su due ore di registrato – è finita sul lato B di M.elle Le ‘Gladiator’. Secondo me è uno dei suoi apici.

Come valuti Franco in qualità di esecutore e compositore?
Faceva quello che era utile alla sua musica e non si curava del resto. Le sue partiture dal punto di vista accademico non sono perfette, ma a lui non serviva scrivere come Strauss, voleva fare le cose che lo interessavano. Paradossalmente se qualcuno le orchestrasse “meglio”, con tutti i crismi tecnici del caso, non funzionerebbero. Era un musicista pratico, veniva da un mondo nel quale la musica si imparava facendola, non studiandola. Infatti si è messo a studiare solo dopo molti anni di carriera, prima non gli interessava. E anche quando ha imparato si è mosso secondo regole dettate spesso dalla sua creatività, non da leggi teoriche.

Cosa ti affascina delle sue composizioni contemporanee?
La purezza sonora, sono musiche che se ascoltate in maniera non superficiale ti fanno entrare in un mondo diverso, e quando un compositore riesce in questo vuole dire che possiede doti notevoli. È un mondo dove tutto è sospeso, con microvariazioni che esigono una grande capacità di attenzione per penetrare nei suoni come se li si guardasse al microscopio, nei quali conta il più piccolo particolare, la più piccola screziatura. Franco amava moltissimo questo suo periodo, quando seppe dalla casa discografica che L’Egitto prima delle sabbie aveva venduto 6000 copie ne fu entusiasta, perché 6000 copie di un disco del genere per lui equivalevano a un milione di copie de La voce del padrone. Non dimentichiamo inoltre che L’Egitto era l’unico suo disco che Franco riascoltava abitualmente perché lo aiutava nella meditazione.

Un periodo nel quale Battiato si dimostrò altamente coraggioso, come è sempre stato, non preoccupandosi di fare la fame pur di proporre la musica che sentiva.
Mi ha raccontato che quando è arrivato a Milano a volte il suo pasto giornaliero consisteva in una mela. La sua forza in quei frangenti consisteva nel non essersi mai lamentato, aveva scelto lui quella situazione, sapeva di dovere affrontare una dura gavetta e lo faceva, senza recriminare nulla. Non ha mai fatto la vittima o l’incompreso, e quando proponeva le sue musiche difficili non gli importava che ci fossero dieci o mille persone, andava sempre avanti per la sua strada.

Quali saranno i vostri prossimi appuntamenti con le sue musiche?
Il prossimo 2 ottobre saremo all’Auditorium Parco della Musica di Roma nell’ambito del festival Romaeuropa. In quell’occasione eseguiremo la totalità delle composizioni che abbiamo ritrovato, a parte che abbiamo dovuto tagliare per motivi di tempo, ovvero Cafè Table Musik, Hiver, Campane, Martyre Celeste, L’Egitto prima delle sabbie e Sud Afternoon. Purtroppo ancora pochi sanno di queste musiche, molti conoscono le prime produzioni prog – Fetus, Pollution, Sulle corde di Aries – ma quelli in confronto sono dischi easy listening, gli altri richiedono molta più attenzione. Nondimeno credo che il bacino possa essere allargato, per questo mi sto impegnando a portarle all’attenzione del pubblico, tramite le esecuzioni e il mio libro Cafè Table Musik, interamente dedicato a un periodo che merita assolutamente una riscoperta.

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