Le supersoniche e strafatte
avventure di Travis Scott
La pizza con Kylie Jenner, l’amore per il sindaco e il pomeriggio con nonna Sealie: un giro di Houston in Lamborghini con la nuova superstar dell’hip hop
Pantaloni: Undercover. Foto di Dana Scruggs
Travis Scott vuole vedere Kylie Jenner prima che il suo jet privato decolli, ma è in ritardo, perciò preme a tavoletta e il contachilometri del suo SUV Lamborghini schizza alle stelle: 180 all’ora, esattamente il doppio del limite di velocità in questo tratto dell’autostrada di Houston. Sta diluviando. Un Land Rover frena, ma Scott – con la mano sinistra sul volante, la destra sul telefono e gli occhi fissi su un’app di mappe – no, e il paraurti è a meno di un metro. È la domenica prima del Ringraziamento. Scott, 26 anni, è di ottimo umore dopo la prima edizione dell’Astroworld Festival, che sognava di organizzare nella sua Houston fin dagli albori della sua carriera. Alla fine ce l’ha fatta, proprio dove sorgeva il vecchio parco di divertimenti Astroworld, che chiuse nel 2005, quando aveva tredici anni. “Era un pezzo di cuore, per me”, racconta. Per rendergli omaggio ha affittato una ruota panoramica e altre giostre e ha riempito due palchi con molti amici: hitmaker (Young Thug, Post Malone), leggende locali (Bun B, Lil Flip) e giovani promesse (Sheck Wes, Smokepurpp). È stato un trionfo: 4000 paganti, nonostante i biglietti costassero dai 150 ai 650 dollari.
Sotto il palco la gente ballava, si rompeva il naso nel pogo e cazzeggiava tra le attrazioni. Nel backstage, Kylie Jenner volteggiava in giro con in braccio Stormi, la loro bambina. Swae Lee dei Rae Sremmurd si trascinava appresso una magnum di champagne grossa come Stormi. Pare che James Harden, impegnato in una partita degli Houston Rockets, abbia chiesto se per favore Scott poteva posticipare un po’ il suo set, che non voleva perdersi. Nulla da fare, comunque, ma alla fine è arrivato in tempo per sentire almeno Sicko Mode, il singolo più importante della sua carriera. È stato ai piani alti della classifica pop per settimane, il che è notevole, se si pensa che non sembra affatto un singolo: ha zero ritornelli e tre diversi beat che confluiscono l’uno nell’altro in maniera volutamente cacofonica. È estratto da Astroworld, il terzo album di Scott, che lo ha reso la più adorata superstar emergente dell’hip hop dopo l’avvento di Drake. È un disco malinconico, un mix di edonismo e opulenta desolazione. Il che è un buon modo per descrivere l’America del 2018, e potrebbe spiegare perché i più giovani si rispecchiano nel suo sound. Il flow distorto e robotico di Scott è un caleidoscopio in scala di grigi.
Scott, all’anagrafe Jacques Webster, ormai passa la maggior parte del suo tempo a Los Angeles, ma Astroworld è un omaggio alla sua città natale, e il sindaco di Houston, Sylvester Turner, lo ha invitato al Municipio per proclamare ufficialmente il 18 novembre “Astroworld Day”. La cerimonia deve iniziare alle 12.30, e il sindaco è rientrato apposta da una missione a New Delhi per presenziare. Perciò, quando alle 12.35 si sparge la voce che Scott non è neppure ancora uscito da casa sua, a 45 minuti di distanza, Turner non è propriamente entusiasta. Quando arriva, però, è subito perdonato con un abbraccio, e i ragazzini lo prendono d’assalto per fare una foto. Dopo un po’ la polizia lo scorta alla sua Lamborghini e poco dopo riceve una telefonata da Kylie Jenner, che si chiede dove sia finito.
La coppia si frequenta da aprile 2017. La scintilla è scattata al Coachella, dove la Jenner, ammaliata, è saltata sul tour bus di Scott e lo ha seguito on the road. Verso l’inizio di maggio, dopo un paio di settimane insieme, hanno concepito Stormi, che è nata lo scorso febbraio. “All’inizio mi dicevo ‘Cazzo, mi ci vuole un figlio maschio’”, mi racconta. “Quando abbiamo scoperto che era una bambina ero preso male. Ma dopo un po’ ho pensato ‘Ehi, potrebbe essere la cosa più pazzesca che mi sia mai successa’. E ora sono felicissimo”. Oggi la Jenner è a Houston per promuovere la sua linea di cosmetici. Deve tornare subito al suo jet, gli dice al telefono. Per caso Scott è lì vicino? Secondo Google è a soli 31 minuti di distanza. “Sono a dieci minuti da lì”, risponde, poi attacca e comincia a fare lo slalom tra le macchine in autostrada, cosa che ci riporta al Land Rover dell’inizio.
Sono sul sedile del passeggero, chiedendomi cosa si prova quando l’airbag di una Lamborghini ti si schianta in faccia, quando finalmente Scott si riscuote, sterza e evita la collisione di un soffio. È la prova che l’auto funziona benissimo, e/o che la varietà ibrida di marijuana che Scott sta fumando aumenta i riflessi. In ogni caso, accosta nel parcheggio di un supermercato, dove lo attendono la Jenner e il suo autista. “Ciaaaaao” dice lei. Lui salta sull’altra macchina e una guardia del corpo gli passa due cartoni di pizza col salame attraverso il finestrino oscurato. Una giornata grandiosa in un anno grandioso.
La sua infanzia, però, è stata molto diversa. Mentre è al volante fa una telefonata: “Sei a casa, nonna? Passo da te”. Guidiamo fino a un quartiere popolare a sud-est della città. Per strada si ferma in una desolata stazione di servizio. Il video-maker personale di Scott – un ex lavapiatti e attuale modello part-time con il mullet, noto con il soprannome di White Trash Tyler – riprende i suoi acquisti, come fa per qualsiasi altro momento dell’esistenza Scott. Il suo vecchio compagno di scuola Nate siede di fianco a me. “Era un vero istrione” ricorda pensando ai tempi del liceo. “Improvvisava, faceva il buffone, tirava in mezzo tutti”.
Nonostante l’attitudine allegra, Scott mi racconta che a casa era molto dura. Sua madre vendeva (e vende ancora) telefoni in una grande catena di negozi, mantenendo da sola la famiglia dopo che il padre, cercando di sfondare come musicista, attorno al 2005 smise di lavorare. “Mollò tutto, tipo pensione anticipata” ricorda Scott. “Non avevamo più i soldi per un cazzo di niente. E mia mamma è disabile: deve usare le stampelle e prendere un sacco di medicine. E nonostante tutto si prendeva cura di me, dei miei fratelli, di mia sorella e di mio padre. Una donna forte. È per questo che faccio quel che faccio. Nulla può fermarmi”.
Anche se ora hanno un buon rapporto, per un po’ la disoccupazione di suo padre fu fonte di grande tensione. “Scazzavamo di brutto” sbuffa. “Io cercavo di fare musica in camera mia, e lui era in soggiorno a fare lo stesso. Aveva dell’attrezzatura pazzesca che non potevo neanche toccare. ‘Abbassa, sto registrando!’. ‘Abbassa, sto facendo dei beat!’”. Scott ha deciso di fare sul serio con la musica quando era alle superiori. Per qualche mese è stato anche iscritto all’Università del Texas, ma ha speso gran parte dei soldi che sua mamma gli aveva dato per il college in roba per registrare e viaggi a New York e Los Angeles per cercare di convincere i discografici a dargli una chance. Nel booklet di un album di Kanye West aveva letto il nome di Anthony Kilhoffer, un sound engineer: recuperò la sua mail e gli scrisse. Alla fine, Kilhoffer gli fece una proposta che non poteva rifiutare: a Kanye era piaciuto il suo sound, e voleva che partecipasse alla compilation della G.O.O.D. Music, Cruel Summer. Poco dopo firmò un contratto come produttore con G.O.O.D. Music, e con T.I. come rapper. I suoi beat finirono su Yeezus di Kanye e Magna Carta… Holy Grail di Jay-Z. E nel 2015 il suo primo album, Rodeo, debuttò alla n°3 della classifica pop: oggi è disco di platino.
Quando arriviamo alla modesta abitazione di nonna Sealie, un ragazzo in treccine, tuta e ciabatte si unisce a noi: è Deshon, suo cugino. “Tutto è iniziato qui” dice Scott, indicando la casa di fronte. “Succedeva sempre roba strana. La gente la occupava, probabilmente per vendere crack. Uscivano da quella porta che sembravano zombie”. Sealie chiede del festival. “Avrei voluto esserci” dice. “Ma se mi rimproveri sempre!” la prende in giro Scott. Lo zio di Travis, Lawalia Flood III, ci invita in camera sua, dove una parete è occupata da attrezzatura per fare beat e l’altra da un disco di platino che celebra il milione di copie venduto da un trio R&B, gli H-Town, con cui aveva lavorato nel 1993. Scott ha vissuto lì fino a otto anni con i genitori e il fratello maggiore, Marcus. La musica è un affare di famiglia: il marito di Sealie era un musicista jazz, il padre di Scott un batterista e un altro zio suonava il basso.
Di recente Scott ha comprato ai genitori una villa in un quartiere esclusivo di Houston. Vorrebbe farlo anche con Sealie, dice, ma “non lascerebbe mai questa casa”. Marcus, invece, ha bisogno di assistenza costante, perché è autistico. Scott non ne ha mai parlato molto pubblicamente, anche se lo ha menzionato in una sua vecchia canzone, Analogue. “Non comunica verbalmente”, spiega. “La sua mente è sempre altrove. Ma è bravissimo a disegnare i Power Rangers, adora guardare film e ascoltare Beyoncé. Ogni Natale devo regalargli un suo CD, e se non ne è uscito uno nuovo devo regalargliene un’altra copia”. Fa una pausa. “Ogni tanto ha dei brutti sbalzi d’umore. Magari sto dormendo e lui, sbam, dal niente impazzisce e mi picchia. Ma è comunque mio fratello”. Con tono più sincero ed emozionato di qualunque altra cosa abbia detto finora, spiega il perché ai suoi concerti permette ad alcuni fan di salire sul palco. “È perché so che mio fratello darebbe di matto se uno dei suoi artisti preferiti lo invitasse su. Penso a lui ogni volta”.
Mentre usciamo a fumare Deshon lo aggiorna sul vicinato: “Uno dei gemelli è morto, quell’altro tizio è gay, Harold dovrebbe uscire a dicembre…”. La pioggia è diminuita, ma la strada è comunque vuota. Scott scuote la testa: “I ragazzini di oggi sono attaccati all’iPad. Ormai non giocano più fuori. Per questo volevo fare l’Astroworld Festival. La gente non esce più. Stormi non può guardare la tv: non voglio quella merda, per lei”. Deshon mi chiede com’è andato l’Astroworld Festival. Non è potuto andarci, spiega, perché doveva svegliarsi alle quattro per via del suo lavoro all’ufficio postale. È un peccato, gli dico. Deshon fa una smorfia. “Non mi lamento. In fondo sono soldi”. Scott saluta Sealie con un gigantesco abbraccio. “Venite a casa per il Ringraziamento?”, gli chiede. “Ci proviamo, nonna”, risponde. Spera di festeggiare prima con i Kardashian a L.A. e poi tornare in Texas. “Ah, a proposito, il mio chef fa gli spaghetti proprio come i tuoi. Qual è il tuo segreto?”. “Ketchup”, sorride Sealie.
Tornati in macchina passiamo accanto alla chiesa che Scott frequentava. Passa la canna a Nate: “Spegnila, amico, non posso fumare proprio qui”. Sia Scott che Kylie Jenner sono molto credenti, così quando lei gli ha detto di essere incinta “abbiamo pensato che era un dono speciale”. Il loro legame è solidissimo, dice. All’inizio “eravamo solo due ragazzi che ci davano dentro. Poi pian piano, quando mi sono accorto che non avevamo ancora esaurito le cose da dirci, ho capito che avevo bisogno di lei al mio fianco. È quella giusta”. Aggiunge che si sposeranno presto: “Devo solo fare il serio, perché deve essere una proposta di matrimonio pazzesca!”.
Secondo lui, per colpa della fama della Jenner, “la gente non capisce quanto è incredibile la mia ragazza”. Hanno molto in comune, ma la cosa che lo ha colpito di più è che è molto alla mano. “A me piace passeggiare. Se esci con una ragazza famosa, pensi che voglia avere della gente che fa tutto al posto suo, o quindici stronzi che la seguono ovunque per proteggerla. Noi, invece, usciamo di casa e basta”. Si preoccupa della privacy, però. “Io odio i flash. Non mi piace che la gente si faccia i cazzi miei. Se ti metti in una situazione così, hai paura che la tua vita venga data in pasto al pubblico, che magari adora avere i paparazzi intorno. E invece ho capito che le cose davvero importanti, per lei, non sono queste cazzate”. E rispetto all’essere genitori, “Per noi nulla viene prima di Stormi. Il tempo con lei è sacro. Anche quando sono in tour. Ha più timbri lei sul passaporto di un sacco di gente”. Gli chiedo cosa ha pensato quando il suo ex mentore – e, se tutto va bene, futuro cognato – Kanye West ha fatto campagna per il presidente Trump. “Non so, amico” dice Scott, ridendo con palese imbarazzo. È un argomento delicato. “Merda, avrei voluto dirgli di darsi una calmata. Di capire che i ragazzini neri lo prendono a modello, e che così li confonde. E poi, che fine ha fatto quello che diceva nei suoi primi album? Ma quando Ye si fissa su qualcosa, non c’è niente da fare. Magari gli piaceva il cappellino e basta, chissà. Ha altri problemi. È uno di famiglia, e non lo abbandonerei mai. Tutti passano brutti momenti. È ancora un gran musicista. Ma sicuramente mi ha colpito quello che ha fatto”.
La pioggia è diventata un diluvio e Scott dirige la Lamborghini verso casa sua, una magione da 900 metri quadri che ha acquistato per poco meno di due milioni di dollari. In anticamera ci togliamo le sneakers: con i pavimenti di marmo bianco, niente scarpe in casa. Scott mi conduce al piano di sopra per dare un’occhiata alla sua camera da letto. Ovunque ci sono poster di film vintage che mostrano il suo amore per la fantascienza: Mad Max, Essi Vivono… “Adoro il cinema”, dice. C’è un distributore automatico di lattine di bibite vicino alla porta, e una serie di tavole da skate con grafiche di Andy Warhol sono appese sopra il letto sfatto. Svariate centinaia di dollari in banconote da 20 sono ammucchiate vicino al lavandino del bagno, e altre migliaia su un tavolino. Orologi di lusso luccicano nelle loro custodie firmate Louis Vuitton. Poco più in là ci sono due vecchie console a gettoni da sala giochi, con i videogame di Terminator 2 e dei Simpson. “C’è tutto ciò che desideravo da piccolo e non potevo avere”, commenta.
È un palazzo delle meraviglie per bambini troppo cresciuti, ma Scott dice che la paternità gli ha riempito la testa di preoccupazioni da adulto, che non lo avevano mai sfiorato fino a due anni fa. Come la politica e il cambiamento climatico, a cui dice di pensare “spessissimo. Cosa stiamo combinando? Cosa possiamo fare? Come possiamo rimediare?”. Ma la sua attenzione torna a focalizzarsi sull’immediato futuro, perché ha la testa piena di progetti. Dice che sta già lavorando a nuova musica, anche se è in tour. Sogna uno spettacolo teatrale per promuovere il suo prossimo album, e vorrebbe rendere l’Astroworld un festival annuale. Dice anche che intende iscriversi alla Harvard School of Architecture, per ricostruire la casa in cui ci troviamo a sua immagine e somiglianza. Richiama la mia attenzione su una libreria che occupa l’intera parete. “La vedi quella?” dice, tirando un’estremità dello scaffale e rivelando che in realtà è una porta segreta, che conduce a una stanzetta in cui dorme. La camera in questione è tappezzata interamente di erba sintetica, compresi alcuni mobili, un cuscino a mezzaluna, un pouf e alcune cornici. “La chiamo ‘La Serra’” scoppia a ridere. Poco dopo si congeda, scusandosi: deve richiamare Offset dei Migos per parlare di un featuring. Fuori finalmente ha smesso di piovere. A Houston sono le 19, a Riad le quattro del mattino, e Dio solo sa che ora ad Astroworld. Scott chiude la porta della Serra, e io trovo l’uscita da solo.