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Lenny Kravitz: «Sono doppio, vivo di estremi»

Nell'autobiografia ‘Let Love Rule’ il rocker parla della separazione dei genitori e della scoperta della musica. Qui racconta la sua personalità divisa in due e gli errori fatti negli anni del grande successo
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Foto: GUILLAUME SOUVANT/AFP via Getty Images

Ai primi di marzo Lenny Kravitz ha lasciatoParigi per trasferirsi a Eleuthera, una piccola isola delle Bahamas. Al posto di girare il mondo in tour e promuovere la sua nuova autobiografia, Kravitz ha vissuto una vita semplice, coltivando il cibo che avrebbe mangiato e usando i rami degli alberi come attrezzi improvvisati per allenarsi.

Ripercorrere la sua vita nel libro Let Love Rule l’ha reso più riflessivo. È il primo di due volumi e copre il periodo che va dall’infanzia all’uscita dell’album di debutto nel 1989. Un po’ di scetticismo su un libro privo dell’edonismo da rockstar e dei soliti racconti di eccessi – li troverete nel volume 2 – è concesso. La biografia, però, permette di osservare il dualismo che lo accompagna da una vita. Figlio di un produttore di NBC News (Sy Kravitz) e di un’attrice della tv (Roxie Roker dei Jefferson), Lenny ha vissuto tra Manhattan e Brooklyn prima di trasferirsi a Los Angeles, dove si sentiva a casa tanto a Beverly Hills quanto nei luoghi della subcultura goth, new wave e stoner.

«Ho sempre detto che mi piacciono gli estremi», spiega Kravitz, 56 anni. «Nel mezzo non mi trovo tanto bene. Ovviamente so come trovarlo, ma non mi interessa. Non mi dà energia. Io mi nutro di estremi».

È più facile o difficile trovare l’ispirazione durante una quarantena?
È stato un periodo silenzioso e creativo. In realtà, ogni volta che vengo quaggiù a creare è come essere in quarantena. Ho contatti con poche persone. L’unica differenza è che puoi andare al villaggio, sedere al bar o in un ristorante e parlare con la gente. Questa cosa mi manca. Ma a parte questo, vivo sempre così quando sono da queste parti.

Col passare degli anni, scrivere canzoni è più facile o difficile?
L’età non mi preoccupa. Gli anni passano, ma ho la stessa fame, motivazione e ispirazione di sempre. Quando entro in studio è ancora un’esperienza magica. Non lo do mai per scontato. Stare qui ti permette di ascoltarti con chiarezza, perché sei nella natura. C’è silenzio. È isolato. È sempre stato un posto fantastico per stimolare la creatività. Ma sì, sono ancora ispirato, grazie a dio. Se non lo fossi non farei nulla. Conosco artisti logorati da questa vita. Non vogliono più passare troppo tempo in studio, ma per me non vale.

Perché una biografia e perché l’hai divisa in due parti?
Non avevo mai pensato di scrivere un libro, non credevo che la mia vita fosse granché interessante. Ma sono felice di averlo fatto, è la forma migliore di terapia. Il libro è la storia di come ho trovato la mia voce. Non volevo che parlasse di successo o fama. Scrivere il secondo volume sarà più difficile. Le esperienze sono più forti, ma immagino che scriverlo sarà altrettanto terapeutico e le ferite si rimargineranno.

Mi ha scioccato scoprire che quando hai scoperto tuo padre che tradiva tua madre, lui ti ha detto: «Lo farai anche tu». Poi è stato sbattuto fuori di casa.
Avevo 19 anni. Era una cosa seria, mia madre voleva che dicesse qualcosa per farmi sentire meglio. Qualcosa come: ho sbagliato, vorrei che capissi, mi spiace. Invece lui ha detto tutt’altro. Era una frase forte da sentire in quel momento, ma non mi ero reso conto di quanto mi fosse entrata dentro. Se ci ripenso adesso, capisco e non giudico. Diceva una cosa che pensava fosse vera.

Suo padre aveva fatto la stessa cosa e lui era furioso. Ripetendo quel comportamento si è convito che ci fosse una catena impossibile da spezzare. «Lo farai anche tu, come me e mio padre prima di me». È triste, potente e dopo qualche anno ho dovuto farci i conti.

Dici che la prima cosa che ti è venuta in mente era la pistola che tuo padre teneva nascosta nell’armadio.
Ero un teenager arrabbiato e quello era un momento drammatico. Ma l’avrei usata davvero? No. C’era una parte di me che si infiammava con facilità. Ero incazzato con lui, ero ferito perché ero il cocco di mamma, capisci? Adoro mia madre e sapevo che nell’armadio c’era una pistola per proteggere la famiglia. Ricordo di aver detto a mia mamma: «Se non prendi un biglietto aereo [per portarmi via da Los Angeles], qualcuno morirà». Ripeto, ero un teenager arrabbiato.

Quell’evento ha influito sulla tua vita?
Ho cominciato a farmi domande sulla mia capacità di impegnarmi. Ho passato anni a lavorare su me stesso per liberarmi di quell’evento. Ma la cosa bella è che non vedevo mio padre come un padre che aveva fatto quelle cose a me e mia madre, lo vedevo come un personaggio. Quando scrivi un libro, tutti diventano personaggi. Lo vedevo come un uomo che cercava la sua strada usando le esperienze che aveva vissuto e in quel caso la sua visione era limitata da quello che suo padre aveva fatto.

All’improvviso ho smesso di giudicarlo, scrivere il libro mi ha spinto ad amarlo. Ho finito per apprezzarlo, per capirlo, l’ansia e il dolore sono spariti perché l’ho accettato in quanto essere umano… amo mio padre e dopo aver scritto il libro lo amo ancora di più. Avevamo fatto pace prima che morisse.

In marzo hai detto in un video che «siamo una cosa sola, la razza umana». È un tema che ti è sempre stato caro. Nella tua musica c’è qualcosa di utopistico. È stato difficile mantenere la calma di fronte a tutto quello che è successo quest’anno?
No. È diventato tutto più intenso, più difficile. So che abbiamo quel che serve per unirci, siamo solo bloccati da abitudini orrende. Sono rimasto ottimista. In certi giorni ho dovuto lottare con la depressione, perché il modo in cui trattiamo il pianeta e noi stessi è desolante. Le cose vanno al contrario di come dovrebbero. Chi è venuto prima di me ha combattuto per certe cose, l’ho visto. Se mio nonno fosse vivo, oggi, non riuscirebbe a reggere. So che abbiamo la possibilità di cambiare, ma al momento dobbiamo uscire dalla fossa che ci siamo scavati da soli. Il sistema va distrutto e ricostruito.

Quattro anni fa hai detto che l’amore è l’esito ultimo di ogni situazione. Considerando il disagio sociale che abbiamo visto in questi mesi, pensi che la violenza possa essere un atto di ribellione, un modo per portare il cambiamento?
Capisco perché la gente diventa violenta, ma io non sono fatto così. Voglio agire, combattere, ma non con la violenza. Ma la comprendo. A volte mi sento violento anche io, certo. Guardavo i video di quegli uomini e donne nere colpiti a morte e non ce la facevo più. Quelle immagini suscitano sentimenti violenti.

Alla fine del libro scrivi: «La vita di una rockstar è una benedizione e allo stesso tempo un fardello pericoloso». In che senso è pericoloso? In che modo la vita da rockstar ha cambiato il modo in cui interagisci con gli altri?
Non ero preparato a quello che avrei vissuto, anche se mia madre è stata un buon esempio di come si gestisce il successo, così come la mamma di Zoe (Lisa Bonet). Sono sempre stato una persona umile, ma quando è uscito il primo disco ogni cosa è cambiata, la mia musica era suonata in tutto il mondo e l’atteggiamento delle persone verso di me è cambiato. Volevo restare me stesso e ho capito che dovevo mantenere vivo il mio spirito e proteggermi dalle persone che mi vedevano come un oggetto da sfruttare. Sono stato disponibile e aperto per i primi anni e, sai, ne sono successe di cose…

Nel 1994 hai detto: «Non sono un hippie. Mi piace certa musica ed è per questo che la suono. Guarda che è successo agli hippie. La maggior parte di loro sono diventati gli stronzi che adesso gestiscono il mondo». Lo pensi ancora?
Erano gli anni ’90. Avevo visto che tante persone, tanti amici dei miei genitori – degli hippie – si erano trasformati in yuppies, lavoravano per grosse multinazionali. Ma la vita è così. Si cambia. Hippie è una parola davvero specifica. Forse lo sono ancora, qualunque cosa significhi. Credo nella pace e nell’amore. Credo nella natura. Mi piacciono il giardinaggio, la musica e l’arte. Forse è uno stile hippie, o bohémien, chiamalo come vuoi, ma vivo così. Ma quando ho detto quella cosa credo che volessi semplicemente evitare di essere etichettato in quel modo.

Quando hai iniziato la tua carriera, cos’era per te il successo? Ed è cambiato col tempo?
La mia definizione di successo era essere orgoglioso dei dischi e della musica che registravo. Non mi interessavano le hit o il numero di dischi venduti. Non mi presentavo alle cerimonie per ricevere i premi che avevo vinto. Ricordo una notte a Parigi. Era tardi, ero uscito dal club Les Bains Douches, ero seduto in auto e ho ricevuto una telefonata. «Hai vinto il Grammy per…», io ho risposto «Oh, figo, grande», poi ho attaccato e mi sono acceso una canna. Mi sono perso momenti importanti. Adesso, invece, sono in un momento della mia vita in cui se ho successo mi prendo il mio tempo per viverlo, perché è così che dovrebbe essere. Ho sempre fatto l’indifferente, la mia testa era concentrata sull’arte, su fare quelle cose. Non mi sono goduto il successo come avrei dovuto.

Foto: Nadine Koupaei

La pandemia ti ha aiutato a cambiare prospettiva? Siamo stati tutti obbligati a rallentare e diventare più riflessivi…
Sì. All’inizio ti svegli la mattina e ringrazi Dio per un altro giorno sulla Terra. È eccitante. Anche tutte le cosiddette piccole cose, come svegliarsi, respirare, avere cibo da mangiare, acqua potabile, in realtà sono enormi. Mi godo questi lussi, riconosco che sono lussi. Per me, stare alle Bahamas, in mezzo alla natura, in un posto dove ho le mie radici, potermi isolare – ma allo stesso tempo sentire l’energia di Dio, della natura e degli elementi – mi ha aiutato a stare meglio, l’ho apprezzato molto.

Nella tua vita c’è sempre stata questa contraddizione: da una parte il rocker edonista, dall’altra l’ambientalista pacifico. Nel libro scrivi che sei «profondamente doppio». È una conseguenza naturale del tuo modo di essere?
È sempre stato così, è tutto quello che so. Sono un Gemelli. Mia madre mi chiedeva sempre: «Con quale dei due sto parlando, oggi?». Mi nutro di estremi. Mi hanno sempre fatto bene. Posso vivere in strada e posso vivere in una villa. Le vie di mezzo non mi interessano. Non mi danno energia. Quando avevo 15 anni, mia madre lavorava nello show televisivo numero uno in America. E io cosa ho fatto? Me ne sono andato perché mio padre non mi faceva andare ai concerti. Vivevo in strada o sul pavimento di casa di amici. Mi sono messo da solo in quella posizione. Non ero obbligato ad andarmene, ma in qualche modo ha funzionato. Ed è sempre stato così.

Nel 1995 hai detto: «Voglio continuare a suonare finché non sarò anziano e striminzito. Voglio diventare come John Lee Hooker, che suona la chitarra con il suo piccolo abito e le budella di fuori»…
Eviterei le budella, ma sì, mi sento ancora così. Quando John Lee Hooker ha avuto successo con The Healer, l’album del 1989, ho pensato: wow, ecco un tizio anziano che scrive hit e va in tour. Ne ho visti tanti così, Duke Ellington, B. B. King… lui ha suonato gli ultimi concerti su una sedia. Mick Jagger ha più di settant’anni e regge uno stadio meglio di tanti ventenni. Io sono a metà, adesso. Sono ancora giovane, arriverò al punto in cui è Mick tra vent’anni e so che continuerò a fare quello che faccio, se il mondo ce lo consentirà. Voglio continuare a suonare fino al giorno in cui sarà possibile.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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