Leo Pari sarebbe potuto diventare il frontman dei Thegiornalisti, quando Tommaso Paradiso è uscito dal gruppo. O perlomeno così scrivevano i giornali, tracciando affinità fra le parti: è amico di lunga data dei membri della band; è stato loro turnista alle tastiere; e quando si mette in proprio, come cantante, non si allontana troppo da quella zolla (it-pop con sintetizzatori in primo piano e gli ’80 nel cuore). O no? «Ma no, era solo una voce che non so manco chi l’abbia messa in giro», ridacchia lui che pubblicherà domani Stelle Forever, il suo quinto album. Quindi niente: tante somiglianze e nessuna convergenza. «Le verità è che faccio l’autore, il produttore, il musicista per gli altri: di tutto ciò che imparo così è normale che ne risenta ciò scrivo per me».
Appunto, ciò che scrive per sé. Lui, al di là del lavoro dietro le quinte, è uno partito da lontano, con annesse, parecchie giravolte sul curriculum. Per dire: se oggi lo troviamo in mezzo al nuovo pop italiano – un genere che lui stesso ha contribuito a definire come supervisore artistico di quell’overdose instant classic di synth che è stato Superbattito di Gazzelle, tra l’altro – il merito è solo di Hotel Califano (2018), il suo penultimo lavoro. Dopo svolte cantautorali e indie folk, è stato l’album con cui ha trovato la quadra fra Lucio Dalla e i Thegiornalisti stessi, tirandone fuori un’Italo disco festaiola, innamorata della vita (e dei suoi eccessi) e comunque ironica, con l’apice in Montepulciano, a quattro mani proprio con Paradiso. Ma Pari non è un suo emulo: a tirare un parallelo, direi che in quel momento è stato Il Pagante dell’it-pop. Nel senso che un po’ ci era e molto ci faceva. Ammette: «Non è un mistero. Indossavo una maschera, interpretavo un alter ego (con le dovute proporzioni) à la Ziggy Stardust, che lì corrispondeva a un personaggio da party».
E adesso invece? «E adesso no: Stelle Forever è Leonardo al 100%. Non che gli altri lavori non fossero autobiografici, ma stavolta mi metto veramente a nudo». Non a caso, da un lato insiste col mood e il sound del disco precedente, con quell’umorismo un po’ grottesco che a questo punto, sul menù, può stare sotto la voce “piatto della casa”. Un episodio su tutti: nella nuova Le donne sono come le stelle canta, senza prendersi troppo sul serio, una litania per cui “mi sei tornata in mente mentre facevo un autogol”, e “le persone cambiano come cover dell’iPhone”. Dall’altro lato, però, un pezzo come Dobermann – con gli archi e il piano, abbastanza inedito per lui – mischia le carte aprendo la porta all’intimismo, alla malinconia sommessa. «A livello di arrangiamento e toni, per me rappresenta un po’ un ritorno alle origini. Anche se, più in generale, c’entra col fatto che mi piace sorprendere chi mi ascolta».
E comunque, per quanto a livello di suoni c’è più varietà che in Hotel Califano, nei testi Stelle Forever è un concept con tutti i crismi. «Ogni canzone ha come protagonista una donna, a cui mi rivolgo in prima persona, dandole del tu», ci racconta. Motivo: «Sono tremendamente affascinato dalle figure femminili e questo, che è il racconto che faccio della loro ascendenza sulla mia vita quotidiana, è un omaggio. Mi spiace: vorrei non ci fosse bisogno di pezzi così, vorrei non ci fosse bisogno di “parlare delle donne”, ma purtroppo la parità di genere è ancora lontana, i pregiudizi sono tanti. Cantando, o meglio raccontando il loro mondo, cerco solo di dare il mio contributo alla causa».
Ecco come: Vicino, vicino – una ballata che sembra uscita dalla testa di Gaetano Curreri, e hai detto niente – segue la teoria per cui «da vicino siamo tutti più belli», con difetti, paure e fragilità in bella vista. Però il piatto è pieno a metà: «Quante volte diciamo che un uomo è affascinante anche se brutto? Al contrario, dalle donne ci si aspetta sempre una sorta di perfezione, di attenzione alla forma e all’apparenza. Mi sembra una roba molto ipocrita, soprattutto italiana. Ma finché farà notizia l’attrice X che, per esempio, si fotografa con l’acne, il problema non sarà risolto».
Per il resto, nel racconto che Pari fa del sesso femminile vincono le relazioni sentimentali: tristi, felici, romantiche, arrapate, appena cominciate oppure già rodate. “Innamorarsi è bello anche se fa paura” è lo slogan che campeggia in cima a una Milano addio più che mai in zona Thegiornalisti. Mentre la fame è quella godereccia e romantica di sempre: di vita, comunque di avventura, autolesionista il giusto perché in cerca anche di batoste, ché star male è meglio di non sentire niente. E poi, sullo sfondo, marche (“Tu, vestita Yamamay, mi mandi ko”), zone di Roma, storie di Instagram. Lui è più contemporaneo che mai, anche se la carta d’identità dice quasi 43. «L’età è solo del pensiero, non anagrafica. Io sto benissimo, ho la pace dentro molto più di quando ero ventenne. E uso l’iPhone, è il mio mondo: perché non dovrei citarlo nelle canzoni?».
Facili, infine, i riferimenti: Vasco (di cui in Matrioska si percepiscono persino gli accendini da stadio accesi), Dalla, Battisti, gli Stadio («Questi nomi come i classici greci che studiavamo al liceo: poi sta a noi trovare una via personale per portare avanti il loro discorso»); ma anche quell’it-pop di cui lui è uno degli architetti, a cui Stelle Forever si ascrive senza farsi troppi problemi o pudori di sorta. E che – ne è sicuro, e lo dice orgoglioso – lascerà il segno: «È un po’ come il Brasile dell’82, in cui Falcão e gli altri lo sentivano, che stavano facendo la storia quando scendevano in campo. Lo stesso vale per la nostra scena, che è un rinnovamento partito dai circuiti indipendenti e che ha segnato la rinascita della musica live italiana». Ma le critiche? Snobismo. «Il pop è leggero, non frivolo. E poi viviamo col complesso per cui il passato non si può mai paragonare col presente solo perché è il passato. “Vuoi mettere sullo stesso piano Calcutta e Dalla?”. Sì, certo che voglio mettere. Per le rispettive epoche hanno rappresentato cose molto simili».