A cavallo tra gli anni ’60 e ’70, nell’epoca d’oro del vinile, il doppio album dal vivo era un formato vincente, un traguardo ambito, una medaglia al valore conquistata sul campo a suon di concerti e di esibizioni spettacolari. Nacquero allora il Live/Dead dei Grateful Dead, At Fillmore East della Allman Brothers Band, Rock of Ages della Band e Waiting for Columbus dei Little Feat, pubblicato nel 1978 e dal 29 luglio di nuovo in circolazione anche sotto forma di box set di 8 CD contenente l’originale rimasterizzato e tre concerti completi del tour del ‘77 registrati a Londra, a Washington e a Manchester (quest’ultimo completamente inedito).
Resta, quel live, la fotografia perfetta della energia travolgente e della sapienza musicale di una band che nei suoi dischi, e soprattutto nei suoi show, annodava tutti i fili della migliore musica americana del Novecento, una rombante macchina da musica nata nel 1969 a Los Angeles da una costola delle Mothers of Invention di Frank Zappa, un mix di eccellenza strumentale e di originalità compositiva illuminato dal talento eccentrico di Lowell George, la stella polare che si spense improvvisamente nel 1979, a soli 34 anni, dopo una vita rock and roll vissuta senza mai togliere il piede dall’acceleratore (troppo cibo, troppo alcol, troppi speedball: troppo di tutto).
Risorti con cocciutaggine a fine anni ’80 e persi per strada altri elementi chiave come il batterista Richie Hayward e il chitarrista e cantante Paul Barrere, sotto la guida del tastierista Bill Payne affiancato dagli altri veterani Kenny Gradney (basso), Sam Clayton (percussioni) e Fred Tackett (voce e chitarra), dal 21 luglio i Feat sono tornati sulla strada celebrando i 45 anni del loro disco più famoso con un tour americano di oltre 40 date.
Che cosa suonate, Bill?
L’intero doppio così com’era, e cioè le 17 canzoni originali, rispettandone fondamentalmente la sequenza anche se abbiamo apportato alcune modifiche in coda al set, nei bis, per rendere lo show più accattivante per il pubblico. Non replichiamo l’album pedissequamente ma dedichiamo molto spazio all’improvvisazione. Abbiamo due nuovi membri nella band, due musicisti eccellenti come Scott Sharrard, chitarra e voce, e Tony Leone alla batteria, e sul palco con noi c’è anche la sezione fiati dei Midnight Ramble Horns.
Waiting for Columbus è stato indiscutibilmente una delle vette della vostra carriera, ma arrivò in un momento in cui la band si stava sfasciando. Troppe droghe, conflitti insanabili di personalità, divergenze musicali… Che altro?
Un po’ di tutto questo. Ma aggiungerei che in quel momento ciò che stava intorno ai Little Feat non rispondeva ai nostri desideri. Il business, la situazione finanziaria, il modo in cui la band era gestita. Era diventato difficile persino andare in tour. Credo siano stati Lowell o la Warner Brothers, forse entrambi, a suggerirci di insistere su ciò che sapevamo fare al meglio: i concerti, registrando un disco dal vivo. Venne scelta una delle date di Londra (anche se poi furono utilizzate anche registrazioni effettuate a Washington, nda), dopo un paio di show di riscaldamento a Manchester senza la sezione fiati che ci avrebbe in seguito accompagnato nel tour, i Tower of Power. I problemi di allora erano frutto della nostra giovane età e delle difficoltà economiche. Per fortuna, quando salivamo sul palco tutto in qualche modo si rimetteva a posto. Oggi abbiamo conservato quello stile, ma con un approccio diverso. Chi ha già avuto modo di ascoltarci ha concluso che se Tony Leone non è Richie Hayward è vero anche il contrario. Mi sembra un bel complimento. E Scott canta e suona magnificamente. La band genera la stessa energia di un tempo, erano anni che non ci divertivamo così.
Con Lowell George, ai tempi, la relazione non era idilliaca. Non avete mai nascosto che tra lui e il resto della band si instaurò a un certo punto un rapporto d’amore e odio.
Stava vivendo una vita molto problematica, in quel momento. Era molto difficile stabilire un contatto con lui, anche se devo ammettere che ognuno di noi aveva i suoi alti e bassi e che la mancanza di comunicazione era un problema generalizzato. Se analizzi la parabola esistenziale di qualunque band, i Rolling Stones e i Beatles, gli Allman Brothers come la Band, ti accorgi che tutti, non solo noi, sono passati attraverso profonde spaccature personali. Questo è un mestiere che richiede grande intensità di applicazione. Suonare in modo corretto comporta una dedizione che va oltre le difficoltà di comunicazione tra gli individui, ed è grazie a questo che il gruppo esiste ancora oggi. Alla fine è il pubblico a fare da arbitro, a decidere se i Little Feat sono ancora i Little Feat, a decretare che Waiting for Columbus è un album storico e rappresentativo: già all’epoca della pubblicazione lo decisero il giudizio dei fan, l’influenza che allora i giornalisti musicali esercitavano sull’opinione pubblica e l’apertura mentale delle emittenti radiofoniche, che allora operavano in piena libertà come in una specie di selvaggio West. Tutto, allora, era più condensato e in un certo senso circoscritto, era più difficile manovrare il mercato e più facile avere un impatto almeno su un certo numero di fan. La musica assumeva un’importanza crescente nella società e agiva da valvola di sfogo per tutte le tensioni che attraversavano l’America e il resto del mondo.
Due anni appena prima di morire e malgrado fosse ormai allo sbando, con le sue canzoni, la sua voce e la sua chitarra slide George manteneva un ruolo cruciale nel gruppo. Che cosa lo rendeva così speciale?
Lowell dava il meglio di sé quando suonava. Con il suo fraseggio, con il suo tocco alla chitarra, con il suo modo di cantare, con la sua maestria nella scrittura dei testi. Quand’era presente a se stesso, quando stava bene e si sentiva parte del gruppo era fantastico, un po’ quello che Jerry Garcia era per i Grateful Dead. Lo volesse o no, era un leader naturale. Gli davo una mano nella guida del gruppo, e a dispetto delle divergenze crescenti tutti noi cercavamo di appoggiarlo per quanto possibile. Ma lui era una figura talmente e giustamente rispettata che tutto questo finiva spesso per schiacciarlo. Lo rispetto molto, e la musica che ha creato rimarrà per sempre. Era a livello personale che nascevano i problemi.
A proposito di testi: molte delle vostre canzoni erano popolate da outsider e da personaggi pittoreschi. Giocatori d’azzardo, spacciatori, prostitute, camionisti che vivevano tra autostrade e alberghi di infima categoria. Erano storie ispirate alla realtà e alle persone che incontravate sulla strada?
Sì, “sgualdrine e imbroglioni riempivano la stanza”, come nella canzone Spanish Moon. Erano tempi folli, c’era molta libertà sessuale, in giro incontravi un sacco di donne ed eravamo giovani…
La vita on the road era sicuramente avventurosa, allora. Ti torna in mente qualche episodio particolare?
Ricordo quando suonammo alla Jaap Edenhal, poco fuori Amsterdam, e i Rolling Stones vennero a sentirci. Fu un evento, per noi, e al piano di sotto, nei camerini, trovai Keith Richards. Gli andai incontro mostrandogli tutto il mio entusiasmo. Lui mi tirò dentro e mi disse: «Siamo tutti compagni, siamo fatti della stessa stoffa». Voleva dire che entrambi suonavamo in una band e che la musica era il nostro anello di congiunzione. Facevo anch’io parte del club, fu gratificante sentirglielo dire. Un’altra volta, a Bakersfield in California, aprimmo per i Beach Boys. Quando tornammo sul palco per i bis il pubblico eccitato batteva ritmicamente le mani e noi decidemmo di suonare Willin’. Mi sedetti alla tastiera e pensai: ma perché diavolo dobbiamo fare una ballata, facciamo piuttosto un pezzo rock che scuota la sala! All’improvviso mi arrivò in faccia un oggetto che mi colpì proprio sopra l’occhio sinistro. Era un dado da gioco che qualcuno aveva gettato dalla platea, e il sopracciglio cominciò a gonfiarsi. Ecco cosa succede quando ti metti a suonare un pezzo lento mentre la gente vuole ballare e fare casino.
Ricordo cosa scrisse una volta di voi il giornalista Bud Scoppa, definendovi “squisitamente sudcaliforniani come i Beach Boys, tradizionalisti come la Band, funky come i Meters, cerebrali come gli Steely Dan”. Ti riconosci in questa definizione?
Certamente. Bud è un grande scrittore, ha saputo cogliere perfettamente la profondità e l’ampiezza degli orizzonti del gruppo. Sui Beach Boys non saprei che dire, ma sicuramente ci ha messo in buona compagnia. Ogni band ha le sue fonti di ispirazione, ma con i Little Feat è sempre stato uno scambio a due vie. Abbiamo influenzato molti artisti e da altrettanti siamo stati influenzati. Leon Russell, Bob Dylan, la Band… È un aspetto persistente, anche oggi, della nostra musica.
Molti di quegli artisti erano vostri fan: Mick Taylor è salito sul palco con voi, e oltre agli Stones lo stesso Dylan, Robert Plant e Jimmy Page venivano a vedervi suonare dal vivo.
Sono tutti musicisti che ammiro molto. Bob mi suggestionava parecchio. «Ehi, Billy, ti ricordi quella sera al Bottom Line?», mi disse una volta. «Oh, cavolo, è passato un sacco di tempo. Però sì, ricordo che eri seduto quasi di fronte a me, in quarta o in quinta fila. E che per questo motivo ero terrorizzato». Una volta, in un ristorante a New Orleans, qualcuno mi fece notare che in sala c’era anche Jimmy Page. I Led Zeppelin avevano sempre parlato bene di noi e ci avevano offerto un ingaggio in Europa. C’erano in ballo un sacco di soldi. Non potemmo accettare, ma volli interrompere brevemente il suo pasto per ringraziarlo di avere pensato a noi.
Al melting pot della vostra musica aggiungevate un tocco di follia surreale da cartone animato che ben si rispecchiava nelle copertine di Neon Park: le fette di torta e i pomodori antropomorfi, le papere sexy in reggicalze e i cani lupo con le corna d’alce, i budini giganti in mezzo a Hollywood e quell’auto su una strada di montagna sotto il temporale, George Washington alla guida con Marilyn Monroe al suo fianco. Da dove arrivava questo immaginario?
Credo che tutto sia iniziato con le Mothers of Invention e con Frank Zappa. Oltre che con il realismo magico di cui scriveva Gabriel García Márquez. Fu Neon, che era versato in queste cose, a consigliarmi uno dei suoi libri, Cronaca di una morte annunciata. E poi erano i tardi anni ’60, circolavano l’LSD e le altre droghe che alteravano la percezione della realtà.
Ci sono sempre state versioni contrastanti sul perché Zappa licenziò George dalle Mothers. Fu davvero a causa di Willin’, la canzone che poi diventò il vostro biglietto da visita?
Ne ho sentite tante anch’io, al riguardo. Penso di poter concludere dicendo che Frank non gradiva i riferimenti alle droghe contenute in quella canzone, ma che si rendeva anche conto del grande talento di Lowell e che per questo gli suggerì di crearsi una sua band. In quello stesso periodo anch’io volevo incontrare Zappa e magari entrare a far parte delle Mothers. Mi imbattei invece in Lowell George, e da quel momento molti identificarono i Little Feat con la sua persona pensando che tutto girasse intorno a lui. A volte era così, molte altre no. Molti pensano ancora che Oh Atlanta! o All That You Dream siano roba sua, mentre la prima l’ho scritta io e la seconda l’ha scritta Paul Barrere. Il che non vuol dire che lui non abbia firmato un sacco di grandi canzoni come Rock’n’Roll Doctor, Fat Man in the Bathtub o Mercenary Territory. Solo che i Little Feat erano una band, e come una band funzionavano. È una cosa che ho dovuto sottolineare diverse volte, quando nei tardi anni ’80 abbiamo pubblicato Let It Roll, il nostro primo disco senza di lui.
A differenza di altri gruppi del momento, e nonostante pubblicaste dischi per una major come la Warner, non avete mai avuto grandi best seller. Forse la vostra musica non era abbastanza morbida e accomodante? Non abbastanza commerciale?
Eravamo anche molto eclettici, era difficile metterci in un contenitore e appiccicarci addosso un’etichetta. Il modo in cui ci ha descritto Bud Scoppa dice tutto: è un po’ come quella parabola indiana in cui i saggi ciechi che per la prima volta si trovano davanti a un elefante cercano di capire cos’hanno di fronte tastandone le parti del corpo.
Eppure non vi estraniavate dal gioco, quando necessario. Come quella volta che nel 1973 andaste a promuovere l’album Dixie Chicken nelle stazioni radio americane.
Già. Paul col volto nascosto da una testa di gallina e Lowell con indosso un costume da pollo. Fu divertente, a volte dicevamo di sì, ma altre volte decidevamo che dei giochetti dell’industria discografica ne avevamo abbastanza, soprattutto quando qualcuno ci suggeriva che tipo di musica suonare. Ascoltavamo il parere di tutti, ma in qualità di artisti volevamo essere noi a scegliere la strada che reputavamo migliore. La Band e i Grateful Dead facevano lo stesso. Ho suonato con un sacco di gente, con James Taylor, con Bob Seger e con Stevie Nicks, e in quei casi si tratta di assecondare la loro visione. Il progetto artistico di una band, invece, è il frutto dei punti di vista di tante persone diverse. E non è che si abbia campo libero, ognuno cerca di convincere gli altri a seguire la sua opinione. Lowell lo faceva spesso: a volte lo assecondavamo, altre volte no.
Allora facevate parte di una comunità musicale molto aperta e numerosa: Ry Cooder, Van Dyke Parks, Bonnie Raitt, Linda Ronstadt e tanti altri. C’era una vera osmosi, nella scena musicale di Los Angeles, o così sembrava.
Era così, e in una certa misura lo è ancora. Qualche giorno fa ho ascoltato una nuova canzone di Mark Sebastian, il fratello di John, che l’ha scritta proprio con Van Dyke. Un musicista coraggioso e innovativo, e una delle prime persone che incontrai quando arrivai a Los Angeles insieme a Mac Rebennack alias Dr. John e a Randy Newman. Quella era un’età dell’oro, per la musica.
Nell’arco della vostra carriera avete visto cambiare l’America e il mondo. Dalla presidenza Nixon a quella di Carter, da Woodstock alla morte di Elvis. Come hai detto in passato, all’epoca di Waiting for Columbus percepivate di far parte di un movimento culturale che stava svanendo.
Era la fin du cycle, come dicono. La fine di un’epoca, in cui avevamo vissuto tanti momenti diversi. I Little Feat iniziarono nel 1969, l’anno prima avevamo perduto Robert Kennedy e Martin Luther King. Abbiamo attraversato tante trasformazioni culturali. Molti commettono l’errore di considerare Waiting for Columbus come il culmine assoluto dei Little Feat. Lo fu in quel momento, ma poi abbiamo continuato a evolverci anche se dal 1979 ci siamo presi una pausa quasi decennale. Da Let It Roll in avanti abbiamo fatto tanta altra grande musica. Ci volle coraggio ad andare avanti senza Lowell George, e qui entra di nuovo in gioco Jimmy Page: ai tempi in cui frequentavo in California l’ultimo anno di liceo, nel ’66 o ’67, andai a Pismo Beach per vedere gli Yardbirds e scoprii che non c’era Jeff Beck. Ero contrariato e mi chiedevo chi avrebbe suonato la chitarra al suo posto. Era Page, per l’appunto, e anni dopo mi tornò in mente quell’episodio. Se gli Yardbirds avevano potuto rimpiazzare Beck noi potevamo rimpiazzare Lowell, contando sul fatto che sapevamo scrivere buona musica e metterci in competizione con noi stessi. Le prime canzoni che tirammo fuori al nostro ritorno, come Let It Roll e Hate to Lose Your Lovin’, spinsero la gente a prestare orecchio e a concludere che anche senza Lowell il suono era rimasto quello dei Little Feat. È quello che facciamo anche oggi, pur avendo perso Richie Hayward e Paul Barrere.
Come se nei Little Feat abitasse uno spirito che trascende i singoli componenti?
Prima che inizi il concerto, oggi, vedo in platea gente sorridente e curiosa. Poi, quando iniziamo, il pubblico si accorge che tutto funziona, che si può rilassare e godersi lo spettacolo. Per quanto una persona sia importante, non è mai l’unico punto di forza di una band. Una volta lo dissi anche a Phil Lesh, in un momento in cui i Grateful Dead non esistevano più: se vi ritroverete insieme a suonare in una stanza, vi verrà in mente di rimettere in piedi la band. Ed è esattamente quel che è successo. Suono in un gruppo da quando avevo 15 anni e oggi ne ho 73. So come funziona. Con Kenny e con Sam, i vecchi compagni di band, siamo molto più amici di quanto fossimo allora. A volte ci punzecchiamo ancora ma siamo cresciuti, maturati. Ci rendiamo conto di quanto sia importante ciò che abbiamo fatto in passato e come i nostri tratti musicali di oggi provengano da lì.
Pensi che il posto dei Little Feat nella storia della musica popolare americana sia stato riconosciuto come merita? Non vi hanno ancora trovato un posto nella Rock and Roll Hall of Fame…
Ho sempre detto che non mi importava, che andava bene lo stesso, ma oggi ritengo che se c’è qualcuno che meriterebbe di essere in una Hall of Fame del rock and roll quelli sono proprio i Little Feat. E lo dico pensando proprio a ciò che quell’istituzione dovrebbe rappresentare: la celebrazione del rock and roll, che vuol dire musica americana e un tipo di cultura che in tutto il mondo ha influenzato anche il modo di essere e di vestire. È per quello che un disco come Waiting for Columbus è diventato un’icona, perché rappresenta un genere di musica americana in cui il rock entra in contatto con il jazz e con le radici country e rhythm & blues. Non voglio essere dogmatico, ma quello è il motivo per cui meriteremmo di essere nella Hall of Fame. Mi piacerebbe che accadesse, un giorno. Servirebbe anche ad aprire le porte a un sacco di altri artisti.
Non pubblicate un disco nuovo dai tempi di Rooster Rag, e sono passati dieci anni…
Ma nel frattempo, dopo avere scritto una ventina di pezzi con Robert Hunter, il paroliere dei Grateful Dead, ho composto un paio di canzoni con Charlie Starr dei Blackberry Smoke e altri brani con John Leventhal, il marito di Rosanne Cash. Ho firmato otto o nove pezzi con il poeta irlandese Paul Muldoon, ho suonato nel disco del cantante francese Eddy Mitchell, ho prodotto da poco un artista australiano che si chiama James Blundell. Presto registrerò con Larry Campbell e sto per andare a Nashville per lavorare al nuovo album di Tommy Emmanuel. Credo che il prossimo anno faremo uscire un nuovo album di inediti dei Little Feat, anche se in questo momento sono i concerti la priorità. Nel novembre del 2021 abbiamo ricominciato a suonare in pubblico accogliendo le richieste dei fan e rifacendo vecchi pezzi come Texas Rose Cafe, Strawberry Flats, Representing the Mambo, Hamburger Midnight. Poi abbiamo cominciato a stringere i confini e allo stesso tempo a jammare. Invece di replicarle nota per nota, prendiamo le strutture base delle canzoni e improvvisiamo.
Cosa hai imparato in tutti questi anni di attività professionale, di dischi e di concerti? Che consiglio daresti a te stesso, se potessi tornare indietro?
La cosa più importante che ho imparato negli anni è la necessità di conservare una grande curiosità. Aprirsi a ogni genere di idee spalanca molte porte. Come esseri umani, credo, tendiamo più spesso a tirarci fuori dalle situazioni che a buttarci nella mischia. Perché mai uno dovrebbe mettersi a suonare il pianoforte come ho fatto io, quando tutti gli altri abitanti del pianeta desideravano suonare una chitarra? Ho capito che non bisogna mai lasciarsi chiudere in un angolo. Che è necessario porsi delle domande. Se ti interroghi su te stesso, un qualche genere di progetto prenderà forma. A un certo punto capii che volevo suonare in una band di rock and roll, mi trasferii nella California del Sud e la prima cosa che feci fu telefonare all’etichetta di Frank Zappa, la Bizarre, dicendo che volevo incontrarlo. Mi chiesero chi fossi e dissi che ero un ragazzo che viveva sulla spiaggia di Santa Barbara, ad Alta Vista. Ho iniziato così, e sono convinto che se tracci un tuo percorso incontrerai tanta gente che ti spingerà a fare un sacco di cose differenti. Il mio consiglio? Apprezzare il proprio talento. Approfondire la comprensione delle scale e degli accordi, come insegnava John Coltrane, alzare l’asticella impegnandosi nella composizione e trovare la voce che ti accompagnerà per il resto della tua vita musicale.