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Lewis Capaldi è il balsamo ideale per il vostro cuore infranto

A tu per tu con il fenomeno scozzese che ha conquistato tutte le classifiche: gli inizi nei pub, lo shock delle etichette di fronte al titolo del suo album e il segreto per trasformare una storia in una ballata strappalacrime

Foto press

Lewis Capaldi è l’amico che tutti vorremmo, per due ragioni fondamentali. La prima è che, quando sei depresso/a e la tua vita sentimentale è appena andata a rotoli per sempre, la sua voce rotta dall’emozione e le sue ballad struggenti – tipo la bellissima Someone you Loved, che imperversa ovunque da mesi, ormai – sono il balsamo ideale per il tuo cuore infranto. La seconda è che, quando finalmente hai smesso di crogiolarti nel tuo dolore e hai voglia di dimenticare i problemi, tira fuori dal cilindro una seconda personalità da amabile cazzone che spara battute a raffica, prende bonariamente per il culo chiunque, a partire da se stesso, e riesce a trasformare anche un’occasione formale come un’intervista in una situazione in cui non riesci a smettere di ridere.

Scozzese di origini irlandesi, nonostante il cognome («Ho antenati italiani, ma non lo diresti mai guardandomi e parlando con me», dice), è il fenomeno del momento sia in Inghilterra, dove il suo album di debutto Divinely Uninspired To A Hellish Extent in pochi mesi è diventato uno dei più grandi successi degli ultimi 25 anni, sia da noi. Tant’è che è di ritorno da Verona, dove si è esibito sul palco dell’Arena insieme ai grandi protagonisti della nostra estate musicale: ha fatto le ore piccole e non mangia niente da ore, quindi durante l’intervista attinge abbondantemente a un vassoio di salatini e antipasti, scusandosi ripetutamente «se ogni tanto sembro un cavernicolo».

Hai cominciato la tua carriera cantando nei pub a undici anni: ma non è vietato entrare nei pub se sei minorenne?
Infatti! È colpa di mio fratello: lui suonava in una band, aveva quasi diciotto anni e ogni volta che andava a suonare in un pub trascinava anche me. Diceva al proprietario roba tipo “Ho un fratello che canta, posso portarmelo?”, ma non gli diceva mai quanti anni avevo. A quel punto mi nascondevo in bagno finché non era il momento di salire sul palco, dopodiché uscivo, collegavo la chitarra, cantavo la mia canzone in fretta e furia, mi prendevo l’applauso e poi regolarmente venivo buttato fuori. Per i primi anni ero un bambino buffo e carino, quindi alla gente piacevo a prescindere. Ma quando sono arrivato all’adolescenza, ormai ero un ragazzino talmente brutto che non intenerivo più nessuno, e lì ho capito che dovevo migliorare davvero… (ride)

Più o meno nello stesso periodo hai iniziato a scrivere le prime canzoni, e hai raccontato che col senno di poi oggi ti sembrano bruttissime.
Assolutamente, ma a dirla tutta non sono soddisfatto di molte cose che ho fatto o mi sono successe quando avevo quell’età. Voglio dire, sono contento di aver cominciato a scrivere canzoni quando ero bambino: ai tempi ero convinto che chiunque facesse musica si scrivesse le sue canzoni, perciò mi è venuto automatico farlo. Per essere onesto, però, i miei pezzi di allora facevano cagare, sono ancora una costante fonte di imbarazzo. Li ricordo tutti a memoria, comunque.

Sei stato scoperto dal tuo manager grazie a una traccia che avevi caricato su SoundCloud. Qualche consiglio per chi cerca di fare lo stesso?
Eh già, sono stato il primo SoundCloud rapper della storia! (ride) Scherzi a parte, non saprei dirti, perché in realtà non ci sono riuscito neanche io. Non avevo così tanti follower, sono semplicemente arrivato alle orecchie della persona giusta, che per caso è inciampata nella mia canzone. Forse il segreto è non arrendersi: la gente oggi pensa che se carichi un pezzo su SoundCloud e non diventi il nuovo fenomeno virale in una notte, sei fottuto. Non è così. Io pubblicavo la mia musica lì già da quattro anni, quando finalmente il mio manager mi ha contattato per dirmi che voleva lavorare con me. Quindi, in sostanza, non arrabbiatevi se non vi notano subito, e soprattutto cercate di non fare cagare!

Quest’estate la tua musica ha battuto ogni record possibile e immaginabile: di permanenza in classifica, di vendite, di rapidità nel generare mostruosi sold-out ai tuoi concerti. Non hai un po’ paura che la gente finirà per parlare solo dei tuoi primati, anziché delle tue canzoni?
Fanculo, parlate pure dei miei record, perché se scopri quello che ho fatto prima o poi ti verrà anche voglia di ascoltare le mie canzoni. E comunque non mi preoccupo molto di queste cose: principalmente faccio questo lavoro per me stesso, non per gli altri. Se ti piace la mia musica, bene. Se non ti piace, pazienza. Ovviamente è fantastico vedere che c’è così tanta gente che la apprezza là fuori, ma in fin dei conti è la mia soddisfazione nel farla che conta. Se il successo non fosse arrivato, sarei stato contento lo stesso (forse il mio conto in banca un po’ meno, ma quella è un’altra storia). Quando sei un cantautore, devi essere egoista: nessuno ascolterà mai le tue canzoni più di te, che devi cantarle ogni giorno. Se canti qualcosa che non ti piace, dopo un po’ vai fuori di testa.

Tra l’altro, le tue canzoni sono quasi tutte tristissime, il che è davvero strano, visto che a scambiare due chiacchiere con te (o a guardare i tuoi social) sembri tutto tranne che una persona malinconica…
Nessuno si sente allo stesso modo sempre. A me piace ridere, scherzare e sparare battute anche nei momenti peggiori, è il mio modo di affrontare la vita. Non prendo mai le cose troppo sul serio. Però non scriverei mai una canzone su, che ne so, le scorregge, o i cuccioli, o gli spaghetti. Scrivo di cose molto personali: un amore che finisce, la perdita di una persona cara. È come se sentissi che gli unici aspetti di cui vale veramente la pena parlare, nei miei pezzi, siano quelli tristi. Quando sei felice, non ti fermi a pensare “Okay, perché sono così felice?”, quando sei triste, invece, lo fai. E in realtà mi piace anche, essere triste: tra le cosa che amo di più in assoluto ci sono quelle sere di domenica in cui sei in hangover, metti su un film triste e romantico e ti fai un bel pianto. Oh, adoro piangere.

Hai dichiarato che i tuoi testi non sono ispirati al 100% alla tua vita e che spesso esageri e drammatizzi. In che senso?
Beh, sono bravissimo a trasformare un sassolino in una montagna. Gran parte dell’album in realtà parla della mia ex, e quello che racconto è assolutamente vero. Ma se esco con una tizia una sera, ci facciamo un po’ di pinte, a fine serata ci baciamo a stampo, ci scambiamo i numeri, ci messaggiamo per qualche giorno e poi finisce tutto, sono capacissimo di andare al pianoforte e scrivere una ballad strappalacrime in cui immagino che quella tizia sia l’amore della mia vita e che non mi risponde ai messaggi perché mi ha appena tradito. Ci tengo a dire che non è una cosa di cui sono davvero convinto nella vita reale, perché sennò sarei uno psicopatico: mi serve solo per scrivere canzoni.

Visto che avere il cuore spezzato a quanto pare è una condizione a te necessaria per scrivere canzoni, pensi che ti capiterà di nuovo con così tanta frequenza, ora che sei super famoso?
Credo proprio di sì. Il fatto di riuscire a immaginarmi le cose e a ingigantirle sicuramente mi aiuterà, ma il tour è comunque una condizione in cui la tristezza, prima o poi, salta fuori: ogni sera torni a una fredda stanza d’albergo da solo, c’è da sentirsi parecchio soli dopo un po’. E se anche avessi una relazione stabile, sarebbe molto difficile coltivarla, considerando che ogni tot dovrei partire per mesi per fare concerti in giro per il mondo. Ci sarà parecchio da scrivere su tutto questo.

So che te l’avranno già chiesto mille volte, ma non posso esimermi: ci spieghi il titolo del tuo album, Divinely Uninspired To A Hellish Extent (“Divinamente non ispirato a un’entità diabolica”, ndr)?
(Scoppia a ridere, visibilmente felicissimo) Okay, allora: i dischi degli altri hanno titoli roboanti e felici, roba tipo “What a glorious day!”, oppure hanno slogan noiosissimi, tipo “Lewis Capaldi, l’album di debutto”. Io volevo fare esattamente il contrario, perché mi sembrava più facile da ricordare e speravo che la gente ne avrebbe parlato. E poi pensavo anche che sarebbe stato molto divertente pubblicare un album con un titolo così negativo e poi guardare la mia etichetta che cercava in qualche modo di promuoverlo… Me li immaginavo chiamare le radio e i giornalisti: “Fidati, lo so che il titolo è pessimo, ma è un progetto bellissimo!”. Probabilmente questo scherzetto mi ha fatto vendere molte meno copie, ma va bene così.

Ecco, appunto: cos’ha detto la tua etichetta, la Virgin, quando hai comunicato il titolo?
Diciamo che ci sono stati un certo numero di silenzi imbarazzati e gente che beveva dei gran bicchieri di acqua per prendere tempo. Quando l’ho detto ai miei discografici inglesi, la risposta è stata un po’ più composta: “Boh, non abbiamo capito la battuta, ma va bene comunque”. Poi, quando loro l’hanno detto alle altre sedi nel resto d’Europa, ci sono stati attimi di panico. Se non sbaglio in Germania hanno risposto letteralmente “Ma che cazzo vuol dire?”. Vorrei comunque ringraziare tutti loro di non avermelo fatto cambiare, e cogliere l’occasione per informarli che il titolo del prossimo sarà ancora più stupido! (ride).

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