Ventisette maggio 1990. Gli Stone Roses all’apice del successo si esibiscono a Spike Island, nel Cheshire, nord-ovest dell’Inghilterra, davanti a 30 mila persone. Suonare in un ex polo della rivoluzione industriale, successivamente riconvertito in discarica di rifiuti tossici e poi bonificato, è una scelta perfettamente in linea con l’atteggiamento non conformista del gruppo di Manchester. Nell’epoca dei rave e delle feste negli edifici industriali, anche loro vogliono suonare in un luogo diverso dal normale. A Spike Island c’è anche un non ancora diciottenne Liam Gallagher.
«Ero là ed è stato bellissimo» ci racconta dalla sua casa di Londra. «Tutti si lamentavano del suono, del fatto che si sentiva male. Ma non era quello che mi importava. A me importava essere lì. Fanculo se non si sentiva. Non c’ero mica andato per sentire il suono perfetto. Ero lì perché volevo esserci. Eravamo tutti belli e quel giorno suonava la più grande band del pianeta. Questo era il punto».
Sul palco con gli Stone Roses c’era John Squire, che oggi assieme a Liam firma un album in uscita il 1° marzo, del quale ha scritto tutte le canzoni, invitando poi il cantante degli Oasis a registrarlo insieme a lui e al produttore Greg Kurstin, mentre la batteria è stata affidata a Joey Waronker, già con il Beck di Odelay, i R.E.M. del dopo Bill Berry e con mille altre collaborazioni all’attivo. «È stato John che ha avuto l’idea», conferma Liam, «è lui che ha scritto le canzoni e mi ha detto: senti, sto facendo un nuovo album, se ti chiedo di cantare ci stai? Certo man, sì, perché no, basta che ci siano un mucchio di chitarre. Quindi non sono io che ho detto: oh, faccio un nuovo disco e John ci suona. È più il disco di John dove ci sono io che canto. Certamente è un sogno che diventa realtà: io che faccio musica con John Squire, d’you know what I mean? Gli Stone Roses mi hanno fatto appassionare alla musica, ai Beatles, agli Stones, a Jimi Hendrix. Gli devo un sacco, capisci? Quindi quando mi ha chiesto di cantare nel suo disco, ti puoi immaginare, era ovvio che gli dicessi di sì».
Da Macclesfield, la cittadina a 30 chilometri da Manchester dove vive (e dove viveva anche Ian Curtis), John Squire è restio a intitolarsi la paternità dell’idea, ma è altrettanto prodigo di complimenti nei confronti dell’amico. «Non so chi abbia fatto la prima mossa», dice, «in realtà penso che i nostri manager abbiano discusso della possibilità di lavorare insieme. Ne abbiamo parlato tra di noi quando ci siamo trovati a fare le prove per i suoi concerti a Knebworth. Diciamo che tutti e due abbiamo saputo che l’altro avrebbe voluto fare qualcosa insieme. Ha senso, no? Quello che mi piace di più è la sua voce. Ha un dono incredibile. E poi a stare con lui ci si diverte molto. Mi è piaciuto fin dal primo giorno in cui ci siamo incontrati per strada in una delle vie principali di Monmouth, in Galles. Eravamo lì perché lui stava facendo il primo album degli Oasis e io il secondo degli Stone Roses. Mi disse che era un nostro grande fan e che era contento di incontrarmi. Mi è sembrato subito un tipo simpatico, poi per un po’ di tempo non ci siamo più incontrati e quando ci siamo visti la volta successiva gli Oasis erano diventati una band di grande successo».
Il primo incontro faccia a faccia, dunque, risale al 1994. Gli Oasis esistevano dal 1991, un anno dopo Spike Island, e stavano registrando Definitely Maybe. Gli Stone Roses stavano faticosamente rimettendosi in carreggiata dopo un paio d’anni turbolenti in cui, tra dispute legali e comportamenti individuali decisamente sopra le righe, c’era addirittura chi aveva messo in dubbio la prosecuzione della loro avventura. Liam ha sempre citato gli Stone Roses come primaria fonte di ispirazione degli Oasis. Ascoltando i dischi di questi ultimi, in realtà, non si trovano né le ritmiche scalpitanti della ditta Reni-Mani, né la versione baggy della psichedelia di cui John Squire è stato l’indiscusso campione.
«Anche secondo me l’influenza degli Stone Roses sugli Oasis non è che si senta più di tanto», dice il chitarrista quasi sottovoce, con il tono che manterrà per tutto il corso dell’intervista, in contrasto con quello squillante di un Liam particolarmente preso bene. «Ma Definitely Maybe è un grande album di rock’n’roll: grandi canzoni e una grande voce. La loro spavalderia e il loro atteggiamento mi hanno colpito fin dall’inizio».
Liam Gallagher John Squire è il primo album pubblicato dal chitarrista negli ultimi vent’anni. «Ho messo su famiglia e mi sono dedicato alla pittura», spiega. «Con figli così piccoli, la cosa migliore era lavorare da casa. A un certo punto avevo tre figli che avevano meno di due anni, quindi non ero più di tanto propenso a fare la vita on the road del musicista». I figli di Squire sono in tutto sei, tra i 12 e i 30 anni, ma non è solo perché sono cresciuti che il loro papà si è rimesso in pista. «Secondo me per Liam prima non era il momento giusto, adesso invece mi pare che tutto si sia allineato perché succedesse». Liam, dal canto suo, spiega che è stato «molto facile, molto naturale. Se non fosse stato naturale penso che non ce l’avremmo fatta. Per me si trattava di cantare le canzoni, di portarci un po’ di energia e di fuoco, d’you know what I mean? È quello che ho fatto e John ha fatto la stessa cosa con la chitarra, così come gli altri della band. È quello che so fare meglio, e se lo riesco a fare, e lo riesce a fare anche John, allora c’è da divertirsi».
Prima di entrare in studio i due si sono scambiati diversi video di YouTube, roba che andava da Jimi Hendrix ai Bee Gees, ma le cui sonorità non sono certo di immediata individuazione in un disco comunque variegato, che potrebbe essere scambiato per una raccolta di singoli e in cui trova spazio anche il blues. «Non penso che il sound di quelle band sia arrivato fino all’album, ma non è che l’intenzione fosse questa», dice Squire. «Ce li siamo scambiati per definire il tono del disco, ma più che altro è successo perché non eravamo stati molto insieme e volevamo in qualche modo riconnetterci e raccontarci cosa ci piaceva ascoltare in quel momento. Ci è sembrato un buon modo per recuperare il tempo perduto, ma non era necessariamente una traccia per quello che poi sarebbe venuto fuori».
«Non è che stessimo facendo la mappa dell’album», conferma Liam. «Quando ci siamo scambiati i video, John aveva già scritto le canzoni. Questa cosa di YouTube è partita una sera che stavo bevendo in albergo e stavo ascoltando vari pezzi. Così gli ho scritto: ascolta questa, sarebbe grandioso fare qualcosa del genere. E abbiamo iniziato a passarci dei video. Non è che gli ho scritto una cosa tipo: dovresti fare qualcosa di simile a queste canzoni. In ogni caso non mi pare che siano venute fuori canzoni tanto simili a quelle che ci siamo scambiati». A domanda precisa, l’unico a citare un pezzo in particolare è Squire: «Senz’altro gli ho mandato qualcosa di Hendrix e degli Stones, e poi mi ricordo di avergli mandato 30 Days in the Hole degli Humble Pie».
«Se ti piacciono cose come Björk, probabilmente odierai questo disco»
A parte la notevole differenza di età (Liam è del 1972, Squire dieci anni più anziano) l’incontro tra i due musicisti è anche un incontro tra personalità decisamente diverse. «La prima cosa che mi viene in mente» dice il chitarrista «è che io sono un introverso e lui è un estroverso. Viene dipinto dai media come una persona grezza? Non saprei, perché non seguo molto la stampa, in particolare quella musicale. Senz’altro ha un lato tenero. Con me è una persona calorosa, generosa e divertente. Molto educato e socievole».
«Non lo conosco così bene da poter descrivere il suo carattere», dice Liam, «però è molto rilassato, molto tranquillo, ma ha anche un non so che negli occhi, qualcosa che gli brilla. Un po’ di malizia e di sfacciataggine, d’you know what I mean? Ma l’ho sempre trovato molto piacevole. La differenza più grossa tra noi due è che lui tifa per lo United e io per il City».
Proprio il Manchester United, che prima delle partite casalinghe spara This Is the One degli Stone Roses dagli altoparlanti dell’Old Trafford per incoraggiare i giocatori nel momento in cui entrano in campo, ha recentemente prodotto una linea di magliette e pantaloncini da calcio ispirata alle grafiche realizzate da Squire per la sua band. «Non mi sento un musicista che fa anche le copertine dei suoi dischi», dice il chitarrista a proposito del suo interesse per le arti visive. «Per me la musica e l’arte ci sono sempre. A volte rendo pubblica la musica che faccio e a volte no. Con l’arte è lo stesso. Ma non è sempre necessario fare musica per poi trasformarla in un prodotto e venderlo. Comunque non potrei mai smettere con nessuna delle due: farò sempre sia musica sia arte, anche se non necessariamente per un consumo pubblico».
Squire ha realizzato anche la copertina del nuovo album, oltre che di Just Another Rainbow e Mars to Liverpool, i due singoli che lo hanno preceduto. «Per la copertina del disco ho collaborato con un grafico perché non sono molto bravo con il computer, ma l’idea di usare dei finti prodotti e di mettere i titoli delle canzoni nelle loro confezioni è stata mia». Riguardo alle canzoni, Squire è decisamente entusiasta del risultato finale. «Volevo che fosse un gran disco, ma la mia sarebbe anche potuta rimanere solo una speranza. Mi aspettavo tanto, ma non che fosse un album tanto bello che amo e ascolto in continuazione. Ieri sera sono andato in macchina a Manchester per accompagnare mio figlio agli allenamenti di basket. Quando siamo tornati, una volta arrivati a casa sono rimasto seduto in macchina per ascoltarmi Raise Your Hands fino alla fine. Faceva un freddo cane, ma sono rimasto là fuori al buio perché non volevo fermare la canzone». Il figlio di Squire, 12 anni, gioca nel ruolo di playmaker, quello che deve creare il gioco, decidere quale schema usare e mettere i compagni nelle condizioni migliori per andare a canestro. Anche Squire come musicista è un playmaker, no? «Mi piace pensare che sia così».
«È diverso dagli altri dischi che ho fatto perché ha un suono cool», dice Liam. «Mi piace la chitarra di John e penso che il mio modo di cantare su questo disco sia molto cool, e anche le canzoni. Penso che stia lassù con le cose degli Stone Roses e degli Oasis, molto in alto». Quando parla del disco nuovo, Gallagher mette in pista una delle sue doti principali: quella di esprimersi in maniera decisamente diretta. «È musica fatta con le chitarre con un feeling rock’n’roll e penso che sia una cosa fatta bene. Se ti piacevano gli Stone Roses, amerai questo disco. Se ti piacevano Björk o chi cazzo vuoi tu, probabilmente lo odierai. Questo è quanto. Però ascolta, non l’abbiamo fatto per la fama o per i soldi, quelli ce li abbiamo già. Non voglio comprarmi un’altra casa o un altro yacht, di queste cose ne ho abbastanza. L’abbiamo fatto perché è quello che amiamo».
Intanto però le guitar band, soprattutto fra il pubblico dei ventenni, non hanno più il successo degli Oasis dei tempi d’oro. «Eh, lo so. Mi dispiace per loro, per i giovani che non si entusiasmano per le chitarre. Si perdono qualcosa, ma sai, sono cicli. Noi adesso stiamo riportando indietro questo tipo di musica, che in realtà non se n’è mai andata. La chitarra è così un bello strumento e può fare cose talmente belle che non morirà mai. La musica con le chitarre non morirà mai. Il fatto è questo: se io e John avessimo pubblicato questo disco vent’anni fa, la gente si sarebbe bagnata le mutande. Adesso invece siamo molto più vecchi e il pubblico si è abituato al fatto che ci siamo, capito? Se oggi questo album lo pubblicasse una band all’esordio, direbbero che è la cosa migliore dall’invenzione della cazzo di ruota. Invece lo facciamo noi e diranno che è una cosa già sentita. Be’, sapete che c’è? La sentirete di nuovo!».
L’uscita del nuovo album prelude anche ad alcune date dal vivo, una delle quali è in programma per il 6 aprile al Fabrique di Milano. I biglietti sono andati esauriti in pochi minuti. «Non voglio spoilerare troppo», premette Squire, «ma senz’altro oltre al nuovo album faremo un pezzo dei Beatles e forse uno degli Stones». «Il live sarà come ha detto John», conferma Liam, «una cover ci dovrebbe essere, ma per il momento non diciamo niente. Faremo tutto l’album e magari la cover di una canzone di culto che non abbiamo ancora deciso. Ma non suoneremo cose degli Stone Roses o degli Oasis, quello no».
Oltre a dirsi felice di suonare in posti piccoli, il cantante conferma la strategia del less is more anche per quanto riguarda la durata del concerto, che sarà di circa un’ora. «Va bene perché in un’ora puoi fare un sacco di cose, no? Puoi centrare il punto e farti capire. Certe volte i concerti durano troppo e l’attenzione cala, capito?» Non faranno una cosa alla Springsteen, insomma. «No, niente nonsense da tre ore», chiude il discorso Liam.
Sono ormai trent’anni che il cantante è al centro della scena. La profezia della prima canzone del primo album degli Oasis si è avverata e persiste: è ancora una rock’n’roll star. Sono anche trent’anni che la stampa lo dipinge in un certo modo. Ma ci sarà qualcosa di diverso da un cliché non sempre simpaticissimo, qualcosa che ci tiene a far sapere al pubblico riguardo al vero Liam? «Be’, ascolta, io ho molte frecce al mio arco. Posso essere un po’ aggressivo quando me le fanno girare. Ma il più delle volte sono una persona di cuore, socievole. Sono molto spiritoso e mi piace che la gente con me si senta a proprio agio, mi piace star bene con gli altri. Però se qualcuno si comporta da stronzo e vuole una sberla, io lo accontento».
In passato gli Oasis e lo stesso Liam hanno chiesto ad alcuni elder statesmen del rock britannico di partecipare ai loro dischi o ai loro concerti, un invito che serviva anche a riconoscere pubblicamente il ruolo di personaggi come Paul Weller e lo stesso John Squire quali fonte di ispirazione. E come la mettiamo ora che, 52 anni in arrivo a parte, anche Liam Gallagher è un elder statesman? «Di fatto è così. È dal ’91 che sono in pista, quindi da più di trent’anni, e riguardo a questo non ho problemi. È così e non è una cosa brutta, anzi. Sono fortunato a essere ancora qui a fare le cose che mi piacciono e che piacciono anche ad altri, a quanto pare. È bello essere ancora vivo, a cantare canzoni, a fare musica e concerti. Altroché, è quello che amo fare».
Oltretutto, nonostante un passato non esattamente salutista, anche l’aspetto di Liam è decisamente da rock’n’roll star. «Senti, io sto bene. Quando sono in salute e ci sto attento, sono invincibile. Il problema è quando esco un po’ dai binari e bevo troppo, fumo troppo ed entro in un ciclo che non mi fa stare bene. Ma con la maggior parte delle piccole teste di cazzo che ci sono in giro io ancora ci pulisco il pavimento. Quando sto bene sono intoccabile, meglio di tutti gli altri». Sarebbe bello sapere come fa a essere così figo. «Qualcosa faccio. Cerco di andare un po’ in bici, cose così. Faccio una camminata con il cane, ma non sono uno di quelli che diventano matti per la salute. Ci sono momenti in cui sto bene e altri in cui dico: vaffanculo, ora vado al pub e mi bevo tutto. E altri ancora in cui ritorno a fare il bravo. Vado a momenti. Certo, chi vorrebbe essere Sting che fa yoga per nove ore della sua cazzo di giornata? Fanculo quella roba».
«Non l’abbiamo fatto per la fama o per i soldi, quelli li abbiamo già»
Dopo i concerti assieme a John Squire, quest’estate Liam sarà impegnato anche nel tour che celebra il trentennale di Definitely Maybe e che, ci assicura, passerà anche per l’Italia. Quindi verrai due volte? «Sì, definitely, man. Presto annunceremo le date. Faremo l’album per intero e alcune b-side. Più I Am the Walrus, magari alla fine del concerto, perché mi piace ed era quello che facevamo ai tempi. Sarà fantastico. Ci saranno persone di una certa età, quelli che c’erano fin dall’inizio, ma spero anche gente più giovane che magari non ha mai sentito alcune di quelle canzoni. Non vedo l’ora, ci faremo anche delle belle risate. Sarà una bella celebrazione di uno dei dischi più belli che siano mai stati fatti… secondo me».
Due tour diversi, e di una certa importanza. Sarà decisamente una primavera-estate impegnativa. «Mi piace quando sono molto occupato, altrimenti rischio di sprofondare nel divano e perdermi tra le molliche». E non gli dispiace che questo tour non si possa fare con gli Oasis al completo, compreso un certo chitarrista che sin qui siamo riusciti a non nominare? «In realtà no. Cioè, ovviamente mi sarebbe piaciuto che gli Oasis non si fossero mai sciolti e fossero andati avanti, come sarebbe dovuto essere. Però queste cose succedono, le persone cambiano e le cose stanno così. Molte volte ho chiesto a Noel di far tornare la band e lui ha detto di no, quindi farò da solo. Ci saranno Bonehead e la band che suona nei miei concerti, e mi va bene così. Non mi si può mettere in panchina. Se Noel non lo vuol fare, lo faccio io. Capito? Non è il mio cazzo di boss».