Il terzo disco solista di Liam Gallagher C’mon You Know arriva in un mondo diverso da quello in cui, come disse mi pare su Twitter, aveva anche un tizio addetto a fargli il tè. D’altronde a lui sembra comunque un miracolo avere ancora la voce e avere ancora un pubblico. Lo racconta molto bene in As It Was, il documentario che dimostra (I believe) che tra Noel e Liam l’essere umano era Liam anche se sembrava lui quello che faceva saltare i concerti perché si sfondava troppo.
Nel documentario racconta il crollo della sua carriera subito dopo gli Oasis, il rimpicciolimento delle venue e la fine della rilevanza. Naturalmente è stato girato solo perché poi con i dischi solisti è tornato a vendere – un ritorno che lo porterà a suonare in posti enormi come Knebworth e Etihad Stadium – ma è bello pensare che Liam sia il tipo di artista/non artista in grado di fare un documentario sul fallimento. Liam più che un artista è uno dei lads che hanno fatto la storia della musica inglese: la genealogia per me va da Roger Daltrey degli Who a Ian Brown degli Stone Roses a lui.
Siccome so che di regola chi fa musica dà interviste noiose, ho pensato che la telefonata con Liam potesse essere l’occasione per dirgli cosa pensavo di lui.
Non ho davvero delle domande da farti. Voglio dirti delle cose e sentire come reagisci. Ho guardato il tuo documentario e mi è piaciuto moltissimo. È una storia fantastica e tu sei come al solito molto sincero e vero e onesto e stavo pensando: la narrazione su di te è sempre che devi chiedere scusa. E non lo capisco. Tu sei una delle voci più grosse della storia del rock and roll e sei una bella persona. Perché ti mettono sempre nella posizione di quello che deve chiedere scusa? Sei stato una grande rock and roll star, hai una voce fantastica.
Non lo so. Diciamo che per la rottura degli Oasis hanno dato la colpa a me, capito? E mi ci è voluto molto tempo per riprendermi. Mi sono beccato un sacco di odio, mi dicevano che avevo ucciso la band bla bla bla, che per me non era vero, no? E poi l’altra cosa è che i miei matrimoni sono stati dei fallimenti, e ho fatto dei casini nella mia vita personale, e su quello ho chiesto scusa, non è stato assolutamente un problema chiedere scusa, perché è vero, e ho fatto soffrire molte persone.
Ah quindi siccome tu sei sempre così, sincero, se qualcuno ti chiede di chiedere scusa tu dici: ok, sì, scusate…
Sì, esatto. E perché no? Se nemmeno puoi chiedere scusa, che altro puoi fare nella vita? Senti, certo non mi metto a chiedere scusa per cose che non ho fatto. Chiedo scusa per le cose che ho fatto.
Ora vorrei dirti cosa penso del disco. Mi sono piaciute le influenze che hai messo insieme. Vorrei dirti cosa ci ho sentito e sentire che ne pensi. Andrei in ordine. More Power. Ci sento questa roba sinfonica, orchestrale, un po’ alla Spiritualized. Non so se li odi. A me è piaciuto molto il ritmo, e come introduce il disco.
Non conosco molto gli Spiritualized, so che c’è chi l’ha detto, e lo prendo come un complimento, ma non li ho ascoltati molto. Secondo me ci stanno un po’ gli Stones, e un po’ i La’s. I Polyphonic Spree…
I La’s, sì! Invece in Diamond in the Dark ci sento la scena di Madchester anni ’80: gli Happy Mondays… La scena che c’era appena prima che arrivaste voi, praticamente.
Sì, ci sta. Per me però è più che altro lo Ian Brown (Stone Roses, sempre scena di Madchester, ndr) dei dischi solisti. Ma sì, ci sta, la canzone ha un po’ di swag. Ci posso stare. Però non è che ci siamo messi a farla dicendo: facciamo una canzone in quel genere. Ha quei beat hip hop… Sono cose che succedono per caso.
No, figurati. Mi emoziona sentire te che parli di Ian Brown. Sono cresciuto con voi due.
He’s a very cool man.
E siete tutti e due Godlike Geniuses (il premio alla carriera che dà NME, ndr).
Sì, sì.
Poi nel pezzo dopo, Don’t Go Halfway ci sento un po’ i Charlatans.
Ok, può darsi, sai… Sì.
Insomma è un disco molto mancuniano, quel passaggio dagli anni ’80 ai ’90, l’epoca che poi ha portato a voi. Quel sound molto rilassato di Manchester di quel periodo. Mi piace.
Vai avanti, voglio sentire.
In Too Good For Giving Up c’è quella linea di discendenza da John Lennon agli Oasis. Infatti ci sento anche i Mercury Rev. È una vibe che mi piace.
Nice. Nice.
E poi si passa agli Stone Roses con It Was Not Meant to Be, no?
Sì, però anche i Beatles.
Certo. E poi in Everything’s Electric ci sento qualcosa di Definitely Maybe. Ma anche delle cose Brit dei primi 2000. E poi in quella dopo, World’s in Need ci vedo i Rolling Stones passando dai Primal Scream più rétro.
Sì, ti seguo, ma per me c’è anche molto Bo Diddley e anche gli Who.
Bello.
Quest’album suona molto bene.
Sì, suona molto bene. E mi piace l’atmosfera e la tua voce. Senti, ho letto che fai dei concerti grossi per questo disco. Knebworth, e l’Etihad Stadium dove gioca il City. Cosa ti aspetti? Suonare in dei posti così grossi a 50 anni, come te la vivi?
Stiamo facendo le prove. Sta venendo bene, suoniamo bene. Nessun problema con le dimensioni: più è grande il concerto meglio è, per me. Non vedo l’ora di andare sul palco e suonare per tutti. Nessuna ansia. Ci andrei oggi. Non sto nella pelle.
Qual è la differenza tra suonare a 25 anni, svegliarsi di pomeriggio e andare al venue, e adesso che ne hai 50? Come ti prepari fisicamente?
Quando invecchi devi prenderti cura di te. Quando hai 20 anni vai dritto sul palco dopo aver fatto lo schifo la sera prima. Riesci a gestirlo meglio. Adesso invece mi devo preparare, non voglio deludere le persone, pagano bei soldi per venire a sentirti. Anche prima li pagavano, ma quando sei più giovane ti puoi permettere di combinare più casini, capito? Ma da grande devi prepararti seriamente. Non vedo l’ora. Ah, spero che il tempo sia bello.
Verso la fine del documentario c’è questa scena molto tenera in cui stai correndo nel bosco e incroci non so che festa o festival dove ci sono tanti ragazzini e ti immagini loro che ti riconoscono e si chiedono che cazzo ci fai nel bosco a quell’ora a correre e pensano che forse sono troppo fatti e ti stanno allucinando. Com’è il rapporto con il pubblico più giovane?
È un privilegio essere ascoltati da un pubblico giovane. Questa gente che si inizia ad ascoltare le mie cose, le cose con gli Oasis. Anche se il mio vecchio pubblico è fantastico, è presente fin dagli inizi, i ragazzi si divertono e portano un’energia enorme. Quando fai un concerto, sotto al palco ci vengono i ragazzi. Sì, anche qualcuno di chi mi segue dall’inizio, ma soprattutto i ragazzi. Ti serve la giovinezza, quell’energia.
Sono come il dodicesimo uomo.
Esatto.
Perché i ventenni si identificano molto negli anni ’90?
Be’ io sono nato negli anni ’70 e avrei voluto vivere negli anni ’60, e aver visto i Beatles. I ragazzi nati negli anni 2000 vorrebbero aver vissuto l’epoca in cui non c’erano. Vogliono sempre tutti tornare indietro. E tra vent’anni la gente vorrà tornare a oggi.
Be’ comunque non capisco perché funziona così.
Senti, negli anni ’90 c’era un sacco di musica bella. E non c’erano i cellulari e i social media. Dopo c’è stato un punto di svolta nella vita umana. Ora è molto diverso.
A proposito di social media. Al telefono, come nel documentario, mi sembri una persona sensibile che ascolta la persona con cui sta parlando. Com’è invece quando sei su Twitter e fai i numeri? È come scrivere poesia?
Mi piace parlare con la gente. Se la gente fa le domande mi piace rispondere. Mi piace parlare di tutto con la gente. Qualcuno fa un po’ lo spaccone e allora devo abbatterlo. Ma la vita è così. Mi piace chiacchierare. E la gente poi esagera, e io pure esagero, ma la vita è così. Non è che ci stiamo ammazzando, stiamo solo sparando cazzate. È una cosa innocua.
È come stare su un palco?
Ma sul palco non parlo tanto. Sui social ho il tempo per parlare con i fan e con le persone. Sul palco canto.