Tra il 1972 e il 1982, attraversando indenni la stagione scintillante del prog e del glam, sopravvivendo al cataclisma del punk e alle onde agitate della new wave, Richard e Linda Thompson hanno scritto alcune delle pagine più memorabili del folk-rock elettrico e della musica inglese. Lui autore e chitarrista dei Fairport Convention uscito dal gruppo per seguire altri percorsi esistenziali e artistici, lei ex cantante di jingle pubblicitari e folksinger dotata di una voce non meno espressiva di quella della grande amica Sandy Denny, sono sempre rimasti lontani dal mainstream, dai riflettori e dalle classifiche. Amati e coccolati da musicisti contemporanei e successivi e da un bel gruzzolo di fan che hanno continuato ad alimentare, nei loro confronti, un seguito di culto.
Oggi che i codici del folk revival riemergono nel linguaggio di musicisti indie (soprattutto americani) come James Elkington e Joan Shelley, gli Offa Rex sorti da una costola dei Decemberists e i Bonny Light Horseman di Anaïs Mitchell, e che a riportare sulla scena l’ottuagenaria capostipite Shirley Collins sono giovani artisti di formazione sperimentale ed elettronica, sembra più che mai il momento giusto per tornare ad ascoltarli, immergendosi in un repertorio che la Universal ha raccolto integralmente nel cofanetto Hard Luck Stories 1972-1982 in distribuzione in questi giorni nei negozi. Un’opera impeccabile, frutto del competente e appassionato lavoro di compilazione, packaging e rimasterizzazione dello specialista Andrew Batt (già curatore di remasters per Fairport, Sandy Denny, Marianne Faithfull e Bobbie Gentry) e che nei suoi otto CD raccoglie i sei dischi ufficiali della coppia (un paio fuori catalogo da tempo) arricchiti da bonus track, un ‘prequel’ che documenta le prime collaborazioni tra i due e una raccolta di inedite registrazioni dal vivo.
Centotredici canzoni (con 30 incisioni mai ascoltate prima d’ora) e un libro illustrato di 72 pagine raccontano tutti i capitoli della saga, da I Want to See the Bright Lights Tonight del ’74 («Richard suonava la chitarra come un Neil Young sufi e mistico, sua moglie Linda aveva la voce di una Emmylou Harris celtica», ha scritto Rolling Stone includendolo nella lista dei 500 album migliori di sempre) a Shoot Out the Lights dell’82, il disco che sembrò aprire la porta a un riconoscimento più ampio, specie negli Stati Uniti, e che invece mandò all’aria il sodalizio umano e artistico dopo un “Tour from Hell” americano passato alla storia per l’intensità sanguinante della musica e di quel che accadde sopra e fuori dal palco e un burrascoso divorzio che finì anche sulle pagine del Time fornendo a Nick Hornby (l’autore di Alta fedeltà) lo spunto per una sceneggiatura mai scritta.
In mezzo ci furono tre figli (due dei quali, Teddy e Kami, sono oggi musicisti professionisti), una disfonia spasmodica che tutt’oggi impedisce spesso a Linda di cantare e persino di sostenere una conversazione, cambi di etichette e vicissitudini discografiche oltre a una conversione all’Islam che a metà dei ’70 convinse i due ad abbandonare per qualche anno amici, parenti e music business per dedicarsi a tempo pieno al sufismo e alla vita comunitaria con altri adepti. Non proprio la classica biografia del rocker dissoluto, ma un’esistenza comunque turbolenta e avventurosa scandita da tonfi e trionfi, colpi di testa, fughe, drammi, litigi e incontri importanti, oltre che da meravigliose canzoni di matrice British folk ma vibranti di elettricità e di intensità moderna, innervate da una chitarra che sapeva aggiornare la lezione di Chuck Berry, James Burton e Link Wray, cullare con delicatezza e squarciare il tessuto melodico come una lama nel buio, suonare come un sassofono o una cornamusa preferendo la complessità armonica del jazz e il fraseggio della musica tradizionale al fascino primordiale del blues che aveva stregato Eric Clapton e Peter Green, Jeff Beck e Jimmy Page. Una musica tenebrosa, caustica e austera che racconta le hard luck stories di personaggi perdenti (in amore, ma non solo) e alla disperata ricerca di una verità.
Risposatasi negli anni ’80 con un agente cinematografico californiano, tornata in buoni rapporti con l’ex marito e in procinto di completare un nuovo album, Linda ha sempre offerto un estroverso e pungente controcanto alla personalità più misurata di Richard, uomo e musicista riservato e ascetico che con una fruttuosa carriera solista ha consolidato il suo status nella scena musicale contemporanea. Coinvolta a pieno titolo nella realizzazione del nuovo box set, oggi ricorda bene tutto quanto accadde in quella sua movimentata vita precedente.
Hard Luck Stories si apre e si chiude con due cover di classici di Chuck Berry e di Jerry Lee Lewis. Sembra quasi una dichiarazione di intenti: come a ribadire che la coppia reale del folk-rock britannico aveva interessi musicali molto più vasti. E che voi due amavate il rock and roll.
Chi non ama il rock and roll? Gran parte della musica che Richard e io abbiamo ascoltato quand’eravamo adolescenti proveniva dall’America. Nel mio caso, almeno, è stato sicuramente così. Il mio interesse nei riguardi della musica folk è sbocciato quando avevo poco meno di vent’anni, ma il primo disco che ho acquistato era un 45 giri di Elvis: Teddy Bear, dopo che era tornato dal servizio militare. Un po’ stereotipato, non c’è dubbio, però l’ho amato molto. Fare i classici del rock and roll, soprattutto dal vivo, era un modo divertente per scatenarsi durante i bis. Più uno sfogo che una dichiarazione di intenti.
Le note di copertina ci ricordano che vi siete incontrati arrivando da percorsi completamente diversi. Mentre Richard inventava il folk-rock britannico con i Fairport Convention, tu cantavi jingle e incidevi provini con giovani di belle speranze come Elton John…
L’educazione musicale che mi ha dato lavorare sui jingle è stata molto importante, è stato come sostenere un vero e proprio corso di formazione. La maggior parte dei cantanti professionisti che lavoravano in quel settore sapeva leggere la musica. Io no, cosicché quando il pianista suonava il motivo una volta soltanto all’inizio della session dovevo impararlo istantaneamente. Non ho mai guadagnato così bene in tutta la mia vita, tra l’altro.
Avete sempre dato l’impressione di avere personalità quasi antitetiche. Richard mistico, assorto e molto discreto, tu più estroversa e incline alla battuta. Dove avete trovato qualcosa in comune?
Dev’esserci qualcosa di vero nel vecchio cliché che dice che gli opposti si attraggono. A me piacciono le belle cose e sono piuttosto materialista. Richard era il contrario. Quel che ci accomunava e che ci accomuna anche oggi sono certi interessi condivisi: leggevamo gli stessi libri, amavamo gli stessi pittori e apprezzavamo gli stessi musicisti.
Una delle rarità più toccanti e sorprendenti del cofanetto è la versione di The End of the Rainbow che hai cantato mentre eri incinta della vostra prima figlia. Non ci sono dubbi che si tratti di una delle canzoni più tristi e disperate che siano mai state registrate, intinta nel pessimismo più nero. Una ninna nanna dark il cui testo recita che “non c’è nulla in fondo all’arcobaleno, niente per cui valga più la pena vivere”. Come riuscivi a cantare frasi di quel tipo, e soprattutto in quelle condizioni?
Oltre che con Buddy Holly, con gli Everly Brothers e con Elvis sono cresciuta ascoltando murder ballads tradizionali piene zeppe di incesti, infanticidi, violenze sessuali e torture. A quel punto, cantare i testi di Richard per me era come fare un picnic.
Alla Island Records, nella prima metà degli anni ’70, voi artisti sembravate essere una grande famiglia. Un bel gruppo di gente di grande talento. C’erano superstar come Steve Winwood, Cat Stevens e Bob Marley e la crema del folk-rock britannico di allora: Sandy Denny, Nick Drake, John Martyn. Ovviamente capitava di incontrarsi e frequentarsi.
Sì, la Island di allora era una famiglia in cui ci si conosceva tutti. Chris Blackwell, il proprietario e fondatore, era un ragazzo ricco ed elegante di ottimo gusto. Io frequentavo soprattutto Sandy, Nick e John Martyn, che era stato un amico di infanzia. Giocavamo a carte, cantavamo insieme e tutti fumavano un sacco di erba. Io la cannabis la odiavo e l’ho sempre odiata. Alle droghe soporifere preferivo quelle eccitanti che ti facevano pensare e agire più velocemente. E poi non ho proprio bisogno di essere più affamata di quanto lo sia già di mio. Nick veniva a trovarmi a casa una volta alla settimana, ma non è che ci parlassimo molto. Ancora oggi mi chiedo il perché. Quanto a Marley, giocava sempre a biliardo nello studio di registrazione della Island e fumava gli spinelli più lunghi che abbia mai visto in vita mia. Me li offriva sempre: come ho detto, odiavo farmi le canne ma per Bob facevo un’eccezione.
Poi, a un certo punto, la vostra fede musulmana ha preso il sopravvento e vi siete ritirati dalla mondanità per vivere in comunità. In seguito ne hai parlato come uno dei periodi più bui e tristi della tua vita.
La comune era piena di gente di pelle bianca, molto istruita e alla ricerca di qualcosa di diverso nella vita. Gente pedante e ipocrita, per la maggior parte. A pensarci mi vengono ancora i brividi.
Alcune delle incisioni più sorprendenti di Hard Luck Stories sono quelle tratte dal tour del 1977 con la band ‘musulmana’ che includeva ex membri dei Mighty Baby. È strano e intrigante ascoltare tutte quelle canzoni devozionali che parlano di Dio suonate da una specie di jam band psichedelica…
Non mi dispiace affatto, quel periodo in cui facevamo musica sufi. Anche perché mi permise di uscire da quella maledetta comune. E sono anche contenta di essere andata alla Mecca e a Medina: avevo meno di trent’anni ed è stata un’esperienza incredibile.
Quando tornaste nel music business firmando un nuovo contratto con la Chrysalis, alla fine degli anni ’70, sembravate quasi disposti a diventare più commerciali. Perché non ha funzionato?
Non sono sicura che il nostro obiettivo, quando abbiamo firmato per la Chrysalis, fosse quello di diventare più commerciali. Sai, a quell’epoca presentarsi come duo era una cosa decisamente fuori moda e nessuno di noi due aveva veramente a cuore la musica popolare del momento. Se conoscessi la formula per vendere milioni di dischi, comunque, un tentativo lo farei.
Erano gli anni del punk e del post punk, un genere che sia tu che Richard avete più volte dichiarato di apprezzare. Cosa vi piaceva di quella musica? Vi è capitato di frequentare qualche artista punk dell’epoca?
Il punk mi piaceva molto perché arrivavo da un altro mondo. Ero abituata a lavorare con musicisti molto abili dal punto di vista tecnico. Questa gente, invece, sapeva a malapena maneggiare uno strumento: per loro era tutto rabbia e passione. Mi capitava spesso di sedermi al pub con Siouxsie Sioux. Utilizzavamo lo stesso studio di registrazione, i Sound Techniques di Londra. Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, lei e i Banshees ci mettevano un’eternità a registrare qualunque cosa.
Poco dopo iniziarono i veri problemi. Che cosa non funzionò con Gerry Rafferty, autore e interprete del mega successo Baker Street, ai tempi in cui produsse la prima versione di Shoot Out the Lights? Incompatibilità artistiche o umane?
Tra Richard e Gerry ci fu un duro scontro. Il primo era un astemio inflessibile, l’altro un ubriacone. Però io amavo il modo di lavorare di Rafferty, era un perfezionista.
Più tardi tornò in gioco Joe Boyd, primo mentore dei Fairport Convention e tuo ex boyfriend. E fu come se si chiudesse un cerchio. Anche lui, un uomo di grande personalità.
Eccome. Joe è sempre stato un gran personaggio, pieno di energia. E io mi esaurivo nel cercare di stargli dietro.
La versione da lui prodotta di Shoot Out The Lights fu un trionfo artistico. Ma nel frattempo la tua disfonia si deteriorava e così il tuo rapporto con Richard. Ti aspettavi che ti avrebbe lasciata o fu un fulmine a ciel sereno?
No, la nostra separazione per me fu una sorpresa. Ero di nuovo incinta e per me allora quella era la cosa più importante. Mentre la disfonia, che si era già manifestata in occasione della prima gravidanza, era diventata un problema piuttosto difficile da gestire.
Vi imbarcaste in quello che passò alla storia come il Tour from Hell e tu reagisti con quello che hai definito il tuo Lost Weekend, citando il periodo americano di baldoria e perdizione vissuto da John Lennon dopo la temporanea separazione da Yoko Ono. Calci negli stinchi a Richard sul palco, bottiglie che volavano, camerini sfasciati, sbronze, persino un arresto per un furto d’auto. D’improvviso cominciasti a comportarti come una bad girl…
Durante quel tour ero completamente fuori di me. Incazzata e costantemente sotto farmaci. Pillole e alcol. Ma non penso di essere stata abbastanza cattiva e scapestrata, date le circostanze.
È vero che Linda Ronstadt accorse in tuo aiuto?
Esattamente. Linda mi tirò letteralmente fuori dalla fogna. Ancora oggi è una grande amica.
Un’altra amicizia importante nello star system…
Già, a volte ho sfiorato quel mondo. Ho cantato con Elton. Ho frequentato Barbra Streisand e sono diventata molto amica di Mike Stoller (con Jerry Leiber autore di tanti successi per i Coasters, i Drifters, Ben E. King ed Elvis Presley, nda).
Oggi tanti giovani musicisti sembrano riscoprire il folk e il folk-rock degli anni ’60 e ’70. Ti sei data una spiegazione?
Penso che la gente sia ancora attratta dalla qualità musicale di quel repertorio. E dalle storie senza tempo che quelle canzoni raccontano.
Giusto qualche mese fa, in piena pandemia, il produttore e dj Mark Ronson ha rispolverato la vostra I Want to See the Bright Lights Tonight trovandola perfetta per esprimere il desiderio di tornare a uscire la sera e avere una vita sociale. Ti è piaciuta la versione sognante, elettronica e da dance club che ne ha fatto? O hai pensato subito alle royalties e alla pubblicità indiretta che stava facendo ai vostri vecchi dischi?
Conosco abbastanza Mark, è un ragazzo delizioso. E la sua cover mi è sembrata buona. Soldi? Eh, no. Su quel fronte, purtroppo, non mi aspetto nulla.