La ricerca della grandezza è il credo del Jersey Shore, il luogo in cui si è formata l’ultima generazione di grandi interpreti del rock americano. Lo ha detto una volta Bruce Springsteen, che di quella striscia di “dusty beach roads”, le strade polverose che corrono lungo le spiagge di località desolate, è il signore indiscusso: «Più che ricco o famoso, io volevo essere grande».
Lo dice anche il suo amico Little Steven Van Zandt (nato con il nome di Steven Lento da una famiglia italiana a Boston ma cresciuto da quando aveva sette anni a Middletown Township, New Jersey) per spiegare il suo ritorno solista dopo diciotto anni con l’album Soulfire: «La grandezza è l’unica cosa che conta per me. Ho dedicato tutta la mia vita a cercarla, trovarla, supportarla quando l’ho vista negli altri e cercare di raggiungerla io stesso nel mio lavoro. Grandezza al cento per cento, quella cosa in grado di illuminare ed ispirare gli altri, che sia una persona sola o il mondo intero. Il rock’n’roll è la mia religione».
Little Steven non faceva un album dal 1999 (Born Again Savage). Da allora è stato Silvio Dante nei Sopranos e Jack Tagliano in Lillehammer, dal 2002 conduce lo show radiofonico Underground Garage, dirige l’etichetta Wicked Cool con cui va alla ricerca «della prossima generazione di garage rockers» (una delle ultime scoperte sono i danesi The Breakers) e ha pubblicato un disco Jukebox, con la sua prima band, i Southside Johnny & the Asbury Jukes.
Soprattutto è stato al fianco di Bruce Springsteen nel ritorno monumentale della E Street Band che dal 2002 ha fatto cinque album ed un’infinità di concerti, prendendosi sulle spalle la storia del rock americano e portandola in giro per il mondo con maratone infinite dal vivo e un’autorevolezza indiscutibile, forgiata sul palco e resa più impressionante dal passare degli anni. Ad un certo punto però, dopo il tour in Australia del 2016, anche l’instancabile Bruce ha deciso di fermarsi per concentrarsi sul suo prossimo album solista.
E così, a 66 anni, Little Steven ha deciso di riprendere in mano la sua carriera solista: «I miei album sono tutti molto specifici, hanno tutti un tema o uno scopo preciso. Quello di Soulfire è ripresentarmi al pubblico ed anche a me stesso. Ho voluto rispondere ad una domanda semplice: chi sono io? Quale delle mie diverse personalità è più rilevante oggi? In quale mi trovo meglio? Per rispondere a tutte queste domande sono tornato alle mie origini, al suono della mia prima band Southside Johnny, rock’n’roll che affonda le radici nel soul, i fiati combinati con le chitarre. È il mio genere musicale, ed è quello che piace di più al mio pubblico».
È anche la musica che Little Steven ha sempre respirato, fin da quel giorno del 1967 in cui ha conosciuto Bruce Springsteen all’Hullabaloo Club di Middletwon, dopo aver cantato una cover di Happy Together dei Turtles. Da quell’incontro è nata anche l’idea di musica come esperienza collettiva, uno strumento di liberazione e trascendenza forgiato in una specifica periferia americana ma abbastanza forte ed intenso da creare un legame con persone, società e culture diverse, che nel caso di Little Steven vanno dall’Italia alla Norvegia: «La ragione per cui il rock’n’roll è diventato un linguaggio universale è il fatto di essere nato dalla combinazione tra musica nera e bianca. Pensa al primo singolo di Elvis: il lato A è un pezzo blues, That’s All Right Mama di Arthur Crudup, il lato B è Blue Moon of Kentucky. Io ho sempre cercato quella contaminazione nella mia musica, è quello che mi rappresenta».
Oggi Little Steven porta avanti questa storia con i Disciples of Soul, una band di quindici elementi («Un insieme di furfanti e disadattati» come la definisce lui) di cui fanno parte anche Jack Daley, a lungo nella band di Lenny Kravitz, Richie Sambora dei Bon Jovi e i leggendari Miami Horns che hanno accompagnato la E Street Band nel tour di Born to Run del 1976. Con loro Little Steven si è chiuso per sei settimane nei suoi Renegade Studios di New York ha realizzato un album in cui reinterpreta classici come The Blues is My Business di Etta James o Down and Out in New York City di James Brown, brani dei Southside Johnny & the Asbury Jukes e canzoni che ha scritto per altri, tra cui il singolo Saint Valentine’s Days registrato dalla band norvegese Cocktail Slippers.
È una tradizione che Little Steven si sente chiamato a portare avanti: «Sono orgoglioso di essere cresciuto in un periodo di rinascimento in cui la musica di maggior successo era anche la musica migliore mai fatta. Negli ultimi 20 anni ho usato l’energia che prima mettevo nella politica per diffondere questa musica alle nuove generazioni ed alzare il livello, per farla arrivare alla grandezza e non annegare nella mediocrità».
Ognuna delle 12 canzoni di Soulfire è nata con l’unico scopo di essere suonata dal vivo: «Voglio portare questa band ovunque ci sia qualcuno che vuole ascoltarla». Il tour è cominciato il 21 aprile con un concerto ad Asbury Park, dal 7 giugno Little Steven è in Europa (le prime due date sono in Danimarca e Svezia, l’ultima sarà nella sua seconda patria, la Norvegia) e il 4 luglio arriverà in Italia sul palco di Pistoia Blues. «La vera sfida è stata riuscire a riunire quindici musicisti sul palco. Sarà grandioso, vale la pena venire a vederci suonare» dice Little Steven con la sua risata da gangster, «E’ un’occasione unica, la prossima volta potrei esserci solo io con la chitarra!».