A rincorrere l’onda lunga di Sanremo c’era il rischio di perdersi un disco d’esordio bello e misterioso, insolito per gli standard italiani, sospeso tra l’estetica orientale e l’abstract beat, tra il jazz contaminato di Flying Lotus e il neo soul di Hiatus Kaiyote. È Kuni, primo album della musicista e producer italo-tunisina LNDFK, uscito l’11 febbraio per Bastard Jazz e pubblicato in Italia da La Tempesta.
Kuni non è un esordio assoluto. Anzi, arriva dopo un EP e una serie di singoli che avevano portato LNDFK (vero nome Linda Feki) sui siti e le playlist giuste, ma in cui lei non si riconosceva completamente. «Tutte le volte che li ascoltavo mi ricordavano altri artisti. Così mi sono fermata e ho iniziato a dedicarmi alla ricerca, sentivo la necessità di trovare un suono più sincero», racconta. «In quella musica non sentivo la mia personalità, come se non ci fosse una maturità artistica. Infatti connetto il periodo della scrittura del disco a un’evoluzione speculare, personale». Questa evoluzione ha richiesto tre anni di scrittura tra Milano, Napoli e Berlino, jam con altri artisti, esperimenti. Poi il punto di svolta, un film di Takeshi Kitano.
È Hana-bi, uno yakuza movie solo in apparenza, che racconta la storia di due poliziotti e di come hanno trovato il riscatto dopo un trauma: Nishi, il protagonista, rapina una banca per poter fare un’ultima vacanza con la moglie malata, e Horibe, paralizzato dopo una sparatoria, si ritrova dipingendo. Il fascino del film sta proprio nei suoi contrasti: la violenza della yakuza e i momenti goffi e teneri tra Nishi e la moglie, la città grigia e sporca e gli animali con la testa di fiore dei quadri di Horibe. Osservare questa contrapposizione, «una bellezza meravigliosa e straziante, delicata e violenta», ha sbloccato LNDFK, che per qualche ragione sentiva quel linguaggio come «famigliare».
Insieme a lei a guardare il film c’era Dario Bass, musicista con cui collabora da sempre, che in Kuni ha messo le mani su produzione e arrangiamenti. «Ci siamo guardati e ci siamo detti: wow, il disco è questo», racconta LNDFK. «Così abbiamo scritto Hanabi, una traccia che ispirata alla colonna sonora del film, e Takeshi, un omaggio a Kitano».
Hanabi è diventato il pezzo portante di tutto il disco. Appare in due versioni, in apertura del lato A e del lato B, e sottolinea la natura doppia di tutto il progetto. «Il film è doppio, orientale e occidentale, e Kuni è lo stesso. È un ibrido tra acustico e digitale, con un concept su Eros e Thanatos, amore e morte, diviso sui due lati. In entrambi la prima traccia è Hanabi, volevamo dare l’impressione che il disco ricominciasse».
Superata l’introduzione strumentale, con quei sintetizzatori sognanti e un po’ city pop, Kuni mostra il suo lato più jazz e agitato. Lo fa con due brani, Takeshi e Smoke – A moon or a button, basati su una ritmica alla Hiatus Kaiyote e melodie spezzettate, con la voce a scambiarsi ruolo con le tastiere e una struttura libera, piena di piccole divagazioni strumentali.
In Don’t Know I’m Dead or Not l’album svela il suo doppio e la sua anima più notturna e digitale. La voce di LNDFK si abbassa e s’avvicina al rap, l’arrangiamento è più dissonante, a un certo punto la struttura salta e sprofonda in un momento di stasi elettronica.
Quest’alternanza torna anche nel lato B, sia nei brani più strutturati che in quelli più astratti. Il momento migliore di tutto Kuni, però, è anche la sua sintesi: parliamo di Ku, il singolo di lancio e l’episodio più pop del disco. Ispirato alla storia di una geisha e alla Miho di Sin City, è anche il più personale: «Io soffro di disturbo post-traumatico, che ogni tanto si manifesta sotto forma di incubi. Ku è nato dopo uno di questi incubi ricorrenti, in cui però riuscivo a difendermi con una katana. Quando mi sono svegliata ho deciso di fissare quel momento e di inventare un alter ego che potesse parlare al mio posto, interpretava la mia vendetta immaginaria».
Il disco si chiude con due collaborazioni – Ktm, jazz acido suonato con Jason Lindner, e il rap destrutturato (molto alla Flying Lotus) di How Do We Know We’re Alive, con Pink Siifu – e un altro strumentale, una coda astratta ricca di piccoli glitch e decorazioni.
Sono pochi i dischi d’esordio con la stessa ambizione e coerenza interna di Kuni. Come in tutti i debutti, in alcuni momenti le influenze sono ancora evidenti, ma trovare una propria identità è un processo lungo e complicato, che non si chiude in un solo disco. Per riuscirci ci sono due strade: la prima è suonare questa musica dal vivo – «Il disco è versatile, mi permette di presentarlo in varie formazioni: in solo, in trio, quartetto o quintetto. Il mio sogno è farlo in sette, con tutta la band» – la seconda è scrivere: «Ho già iniziato durante la lavorazione dell’album, ho delle bozze ma non riuscivo ad andare avanti. Ora sono sicura che tutto si sbloccherà».