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L’odissea rock di Stevie Van Zandt, un po’ ribelle e un po’ spaccone

Little Steven pubblicherà domani l'autobiografia 'Memoir'. Gli abbiamo chiesto alcune curiosità su questo romanzo di formazione che va dalla gavetta nel New Jersey al successo con Springsteen, e oltre

Foto: Paul Natkin/Getty Images

1984. Un chitarrista italoamericano col talento innato del grande arrangiatore, mezzo fricchettone, ha sognato per tutta la vita di diventare ricco e famoso. Quando il miraggio diventa realtà, all’apice del successo, litiga col frontman, il suo migliore amico, gira i tacchi e si dirige in Sudafrica. In pieno apartheid. Obiettivo? Indirizzare la strategia della frangia estrema della rivoluzione nera.

No, non è un film strampalato, magari a basso costo, di qualche regista mitomane. È l’autentico incipit di Memoir. La mia odissea, fra rock e passioni non corrisposte di Stevie Van Zandt, in libreria dal 13 ottobre, che prende le mosse proprio dal momento fatidico, quello che il musicista stesso definisce una sorta di suicidio professionale: il litigio (primo di tre) con Bruce Springsteen e l’abbandono della band che lui stesso aveva contribuito a creare («Eravamo il Rat Pack del rock and roll») e che a quel punto era gestita dal braccio di ferro fra il cantante e il manager Jon Landau.

Il racconto autobiografico di Little Steven, un tempo Miami Steve, spalla del Boss fin dagli albori e oggi attore molto popolare (Silvio Dante nei Soprano e Frank Tagliano in Lilyhammer) si dipana in quasi 400 pagine fra riflessioni perlopiù amare e disincantate, ricordi famigliari, spunti sociologici sulla fauna umana, considerazioni politiche, lezioni di storia del rock. Ma il pane, si sa, sono gli aneddoti e le rivelazioni.

Ad esempio si scopre perché indossa sempre la bandana e s’intuisce la genesi del famigerato split e quanto i due amici fraterni ne abbiano sofferto; che nel periodo delle lunghissime registrazioni per l’album Darkness on the Edge of Town, escluso Springsteen, nella band erano tutti un po’ tossicodipendenti; che altri tre componenti della band volevano lasciare il gruppo (ma i nomi non li fa) oppure che Janis Joplin voleva far l’amore a tutti i costi con Bruce, che per sottrarsi si era dato alla macchia. Stop agli spoiler.

Se fosse un film, sarebbe una via di mezzo fra il Padrino e Incompreso, dove il protagonista – come il Lefty di Donnie Brasco – continua a ripetere «Che te lo dico a fare?». Se fosse una commedia, sarebbe un Cyrano de Bergerac le cui poesie cadono nel vuoto, se fosse un romanzo sarebbe un Mago di Oz che nessuno si fila.

Artista festaiolo, dedito, oltre che a suonare, agli eccessi (prima di accasarsi, lo scrive lui stesso, era «troppo impegnato a scopare e bere e a scopare e a drogarmi e a scopare», ex giocatore d’azzardo. Leader dei Disciples of Soul, attivista politico con ambizioni giornalistiche, dj per Sirius XM, fondatore dell’etichetta Wicked Cool, presenza fissa nel comitato per le nomine della Rock and Roll Hall of Fame. Stravagante e geniale. Ribelle e millantatore. Fiero del suo sangue calabrese-napoletano, Van Zandt, 71 anni il prossimo 22 novembre, imbastisce manie di grandezza e mette in scena prima uno sghembo romanzo di formazione, dove, dalla gavetta nelle bar band del New Jersey, va coi suoi compari alla conquista di New York. Di seguito, introduce la stramba trama politica di un rocker negoziatore che oltre a dare sempre il suggerimento giusto ai suoi colleghi musicisti e a gente dello spettacolo si è convinto di dover risolvere i problemi delle zone calde del mondo. In questo senso è molto spassoso il racconto ravvicinato con Rosario Murillo, moglie del presidente del Nicaragua, Daniel Ortega.

A tratti sovraccarico, prolisso, molesto, oppure al contrario fluido ed empatico, Memoir di Stevie Van Zandt è un’odissea autentica, umana, troppo umana. Più che altro coraggiosa considerando l’aura mitologica, figlia anche di una certa smania di controllo, che aleggia nei piani alti di Asbury Park. Chi vuole leggere apologie, ne stia alla larga.

Lo abbiamo incontrato a Milano in una giornata piena di sole, e le risate non sono mancate.

Partiamo dagli argomenti seri: quanti ménage à trois hai avuto?
(Ride) È solo una frase in 400 pagine e ne parlano tutti! Rimane fra me e te, giusto? È una cosa superata e sono un felice uomo sposaaato ormaiii (canticchia ironico). Mi piaceva da morire. Lo adoravo. Al punto che ne ero dipendente. È durato un annetto. Ma era davvero tutta un’altra situazione. Altri tempi, appunto.

Nel libro si deduce che eravamo fra gli anni ’70 e i primi ’80.
E il sesso era una cosa normale. Non come oggi che siamo tutti in prigione (ride).

Poi è arrivato l’Aids.
E già! Era il sesso prima dell’Aids, che te lo dico a fare!

In quel periodo i musicisti “anziani” ti avevano anche spiegato il trucco di spargere acqua di colonia sulle parti intime, per rendere la fellatio un’esperienza più profumata e piacevole per le signore. La pelle non irritava?
Non c’era solo il trucco. C’erano anche i prodotti consigliati! Bastava scegliere la marca giusta che non ti mandasse a fuoco… La realtà è che in quel periodo il sesso era davvero un’esperienza molto più libera. C’erano mille occasioni e, se le volevi cogliere, ti dovevi far trovare pronto (ride).

Be’, forse è meglio fermarsi qui. Tua moglie Maureen magari poi ci sente.

Ma no, dài. È in italiano l’intervista, no? Basta che resti in italiano (sogghigna). Il punto è che per fare vero sesso era fondamentale prestare cura agli aspetti igienici. Essere sempre puliti e preparati. Sembra una cosa da matti, ma giuro che era così. Suonavamo cinque set a giornata e fra un set e l’altro succedeva di tutto in quel senso. Gli anni ’70 erano selvaggi, e la liberazione della donna, molto vigorosa alla fine degli anni ’60 e all’inizio del decennio successivo, per le ragazze passava anche dal chiedere apertamente a un uomo se voleva fare sesso. Volevano divertirsi anche loro! E poteva anche essere intimidatorio, per noi maschietti. Se volevi partecipare alla festa dovevi farti trovare preparato.

Mi vien da pensare che ci fosse più eguaglianza.
Sì, era tutto molto più paritario ma non dovevi dare per scontato nulla. C’era rispetto. È un peccato che siamo regrediti da quel tipo di emancipazione.

Tornando al memoir: cos’è lo stato d’animo del New Jersey che Bob Dylan usa come metafora per elogiare il tuo libro nelle citazioni di copertina?
Ma sai che non ho idea (sghignazza), non sono certo di aver capito cosa Bob volesse dire.

Forse si riferisce alla canzone di Billy Joel… non saprei.
Dici? Forse.. non lo so (ride).

A proposito di rock e New Jersey, a un certo punto fra le varie idee che nel corso della carriera ti hanno “rubato” (e la lista è lunga) affermi che Bon Jovi ti ha fregato un logo. Anche se – glielo concedi – è uno dei pochi ha ammesso il furto. Sono andato a cercare e non sono riuscito a capire quale fosse. Me lo sai dire?
Certo! È il logo sul retro dello spolverino con i Disciples of Soul che indossiamo per il nostro primo album. Ehi, io l’ho rubato agli Hell’s Angels, a dire il vero, ma lui l’ha copiato da me! Per un suo album? Forse New Jersey. Non lo so, non è che ascolto molto Bon Jovi (scoppia in una risata)!

A un certo punto rifletti sul fatto che, a parte Born to Run, le biografie sono più belle delle autobiografie. Un bello spot per il tuo libro.
Tu non sei d’accordo? Quando leggo una biografia sono più emozionato. L’uso della terza persona a mio parere rende la storia più avvincente. Be’, non sono di certo la persona più istruita del mondo ma ne ho discusso con il mio editore e me l’hanno concesso solo per il prologo e per l’epilogo. Un minuto di biografia l’ho portato a casa, mentre per il resto ho dovuto usare la prima persona.

È vero che tuo nonno, Sam Lento, ha rubato dei soldi alla ‘ndrangheta?
Non lo so con precisione, non me ne ha mai parlato. L’ho immaginato. Voglio dire: quest’uomo è arrivato in fretta e furia in America e ha aperto un grosso negozio di riparazione scarpe, con queste pareti intere di grandi macchinari. È una fantasia… possibile.

Del tuo vero padre non sai nulla. Ma sai almeno se era italiano come tua madre?
Era italiano. È rimasto fino a che avevo due o tre anni.

Quindi sei al 100% italiano?
Purosangue!

C’è stato un breve periodo, quando eravate giovani, in cui tu e Bruce avete convissuto. Per prendervi in giro vi definivano la strana coppia, come il film con Matthau e Lemmon. Però nel libro scrivi che nessuno ha mai capito chi fosse Oscar, il disordinato, e chi Felix, maniaco della pulizia.
Non ci sono dubbi: Bruce è un disordinato totale (ridacchia). No, dài: la verità è che eravamo tutti e due Oscar, questo era il problema.

Sei ancora convinto che la E Street Band doveva chiamarsi Duke Street Kings?
Lo sono ancora. Se fosse per me il nome cambierebbe domani mattina. Quanto sarebbe più figo Bruce Springsteen and The Duke Street Kings? Che cosa significa E Street Band? È dove abitava la madre di uno che non è più nella cazzo di band (David Sancious, nda).

Quando hai visto Hendrix, non ancora famoso, al Cafe Wha? nel 1966, in cartellone come Jimmy James and the Blue Flames, non sei rimasto particolarmente impressionato. Come mai?
È uno dei misteri dell’universo. Ti garantisco che quando suonava negli States era un’altra persona rispetto a quel che ha fatto in Inghilterra. Vedevo questo tizio che faceva solo un gran rumore mentre io volevo vedere un’altra band. Dicevo fra me e me: «ma mandatelo via dal palco», con tutti quei feedback. Non stava facendo Foxy Lady

Dopo aver letto la tua testimonianza sono andato a cercare in Rete. Dovrebbe averne suonata una versione embrionale.
Sai, quel ragazzo era oltre. Forse andava al di là della mia comprensione.

Little Steven in concerto. Foto press

Nel libro ti riferisci spesso al Rinascimento come quel periodo magico e irripetibile, racchiuso nel corso degli anni ’60, e di cui Sgt. Pepper è l’apoteosi. Dici che il concetto di evoluzione nella musica rock nasce in quel momento. Ho sempre pensato che quel concetto si fosse sviluppato con Highway 61.
Ti riferisci al rock come forma d’arte. Quella, in effetti, la faccio risalire anch’io al 1965, al lavoro di Dylan ma anche a Help! o a Satisfaction degli Stones. Quello che penso io è che l’evoluzione parta da quel disco dei Beatles.

In una storia del rock alternativa, fra le maggiori influenze, sono normalmente nominati i Velvet Underground e gli Stooges che nel libro non citi, ricordi Iggy and The Stooges gisuto perché parteciparono al Little Steven’s International Underground Garage Festival del 2004, e che a loro modo fanno parte del periodo da te più celebrato. Che posto hanno nella storia queste due band?
Non li ho proprio nemmeno citati? Be’, è strano. Però, sai, il mio libro non poteva essere una storia del rock. Narro più la mia esperienza personale. Sì, potevo menzionare gli Stooges, come punk ante litteram. Anche gli MC5 con il loro primo album. E prima degli MC5, c’erano i Wailers e poi i Sonics, entrambe del Nordovest. Mi spiace per questa mancanza, mi stupisco io stesso.

Che ricordo personale hai di Lou Reed, che ti aiutò assieme a tanti altri per il progetto Sun City?
Aveva una personalità molto forte. Davvero unico. Sai, faccio quasi fatica a descriverlo, da tanto era originale. Era divertente, Lou.

Di recente Tom Morello, che collabora spesso con voi, ha detto che la chitarra elettrica non ha un passato, piuttosto ha un futuro. Qual è la tua opinione?
Mi sembra un po’ esagerato. Continuerà ad avere la sua importanza ma inventeranno anche altri strumenti, no? E poi il rock ha smesso di avere un’importanza nel mainstream, anche se è ancora molto significativo come esperienza dal vivo.

Siamo nel 1984. Stevie non si separa dalla band. Che cosa succede?
Bella domanda. Non accadono molte cose. Non divento un artista solista. Non realizzo i miei cinque album. Non recito nei Soprano e in Lilyhammer. Bruce magari scioglie la band dopo uno o due album per fare altro. Non faccio Sun City. E forse Mandela rimane in prigione.

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