Scoperta a 12 anni, quando la registrazione di un talent show è finita tra le mani di un manager della Universal, l’artista che all’anagrafe fa Ella Yelich-O’Connor viene scritturata con una sorta di contratto di formazione, che prevedeva diventasse abbastanza grande per cantare in modo convincente canzoni scritte per lei da adulti. Cosa mai successa. Già a 15 anni – e in coppia con il produttore Joel Little, che un tempo era stato il leader della semi-sconosciuta band pop punk Goodnight Nurse – Lorde insiste per scrivere la sua musica, e prendere il comando.
Durante una settimana di vacanza, scrive Royals, il pezzo che sarebbe diventato la grande hit dell’EP poi caricato gratuitamente su Soundcloud (rifiutandosi però di distribuire qualunque immagine di sé). Nel frattempo, intuisce così bene cosa sta per accadere, che si sceglie un nome d’arte al tempo stesso aristocraticamente imponente e femminile (con l’aggiunta di quella «e» a Lord) – una mossa un filo pretenziosa, ma al 100% azzeccata. «Ella Yelich-O’Connor… Riesci a immaginare che vengano urlati in un festival?». Si stringe nelle spalle. «Mi sembrava sensato cambiare».
Pure Heroine esce nell’autunno del 2013, e vende più di un milione di copie in cinque mesi. David Bowie la incontra, le prende la mano e le dice che ascoltare la sua musica «è come sentire il futuro». Lady Gaga lo definisce «uno degli album del 2013». Non si tratta solo della precoce armonia del disco (in cui i sobri ritmi elettronici sovrastati dalla voce fumosa e sincopata di Lorde creano un suono in parte pop, in parte hip hop, un po’ jazz e totalmente ipnotico); è anche l’adolescenziale autorevolezza con cui i testi di Lorde sfidano e poi si sbarazzano di decenni di figure retoriche e stereotipi della musica pop (“Sono tutti in fissa / Cristal / Maybach / diamanti sull’orologio… Ma a noi non interessano”).
Il disco è così controllato, così misurato e consapevole che, più o meno a ragione, Lorde viene accolta ovunque come l’antidoto del pop al proprio stesso artificio. Non è costruita. Si veste da Goodwill come una strega impazzita. Esercita un ascendente che va ben oltre la sua età. In altre parole, “fa sul serio” – è la confutazione del modello prefabbricato e chiavi in mano che molti consideravano inevitabile per le giovani cantanti che entravano in quel mondo. A un certo punto della nostra conversazione, parlando dei Grammy del 2014, durante i quali con Royals si è portata a casa sia il premio di “Migliore canzone dell’anno” che quello di “Migliore performance pop solista”, li definisce «i miei Grammy», prima di correggere il tiro: «Intendevo dire che era la mia settimana dei Grammy, non che mi sono appropriata dei Grammy». Ma per certi versi era andata proprio così.
Da allora, la vita di Lorde ha preso una piega prevedibilmente surreale. Ha fatto le veci di Kurt Cobain quando i Nirvana sono stati introdotti nella Hall of Fame, curato la colonna sonora di un film della serie Hunger Games, ispirato una parodia in South Park e ha portato Diplo a pesca («Adoro pescare! È la cosa da fare quando ti trovi in Nuova Zelanda»). Nel frattempo, ha trasmesso un’impressione di tale autenticità che la gente ha cominciato a chiedersi se in realtà non fosse finta, se non fosse stata scelta dall’industria discografica per recitare il ruolo della propria antieroina. «La sua immagine, l’essere neozelandese e outsider non solo rispetto al pop americano, ma anche a quanto onnipresente sia la fama, tutto ciò la rendeva un personaggio con cui era facile identificarsi» dice Tavi Gevinson, direttrice della rivista Rookie e una delle tante celebrità – compresa Taylor Swift – con cui Lorde ha stretto amicizia da quando si è unita ai loro ranghi.
Ora posso guardare indietro e pensare: “Era una follia. Tutto. Un manicomio
Poi, dopo aver ammaliato un’intera industria, Lorde scompare. O meglio, si ritira, per cercare di capire se sarebbe stato possibile ritrovare una qualche versione della ragazza di periferia che aveva involontariamente creato un capolavoro, e tentare di farne un altro. O almeno è quanto mi ha raccontato oggi, durante il pranzo al Beachwood Cafe, un posto soleggiato poco sotto la scritta Hollywood, frequentato da gente in pantaloni da yoga e dall’aspetto ossessivamente sano. «Ora posso guardare indietro e pensare: “Era una follia. Tutto. Un manicomio”», dice riferendosi alla prima ondata della fama.
«Ma tutti sono matti a 16 anni. Penso che se dicessi a un 16enne che andrà su Marte – “Saliremo su un razzo e partiremo, e la tua vita sarà così” – la sua reazione sarebbe: “Ok, tutto bello, ma adesso come adesso sto facendo le mie cose, ed è ciò che importa”. Per certi versi, tutto si è andato stabilizzando settimana dopo settimana». Non che tutto fosse normale. Quando Lorde comincia a dedicarsi a un nuovo album, in un certo senso è bloccata su Marte. Si ritrova nel classico dilemma degli innovatori: aveva inventato un suono che aveva cambiato il panorama pop. Ormai, le sfumature “di Lorde” sono ovunque – il respiro della sua voce, il suo mix di pop e candore cantautorale con la conseguenza che oggi avere sonorità “alla Lorde” significa assomigliare a tanti altri. La sua singolarità era stata cooptata, ma nel frattempo il suo orizzonte era cambiato.
L’idea del nuovo album è quella di spiegare la Terra a un gruppo di alieni
«Il suo primo album girava tutto intorno al fatto di essere quella ragazza», spiega Jack Antonoff, il produttore di Melodrama. «Quando è tutta la tua vita a cambiare, e hai costruito la tua carriera sull’essere leale alla tua idea, come tiri fuori una nuova narrazione? È quasi impossibile». In breve, Lorde deve capire come ricreare la magia terrestre nell’atmosfera rarefatta di un altro pianeta, e al tempo stesso decidere come vuole che sia la sua vita da adulta. L’unica cosa che le viene in mente è riprendere la strada di casa. Alla fine del 2014, concluso un tour in Nord America, Lorde rientra a Auckland, Nuova Zelanda.
Riallaccia i contatti con i vecchi amici – compresi i ragazzi del video di Royals, che non sono particolarmente impressionati dalla sua fama – e cerca di gettare le fondamenta di un nuovo percorso musicale. «Ho imparato che ci vuole un po’», dice, «per lasciare andare il disco che hai appena terminato». L’idea alla base del nuovo album è quella di spiegare la Terra a un gruppo di alieni. «Ricordo di aver scritto qualcosa sul primo passo fuori dall’astronave. Questi alieni hanno vissuto solo in un ambiente sigillato ermeticamente, quindi la domanda è: cosa si prova quando si mette piede all’esterno?».