«Mi piacerebbe essere riconosciuto come un regista internazionale, il cinema non ha limiti né confini. E poi non è un mistero quello che penso sul cinema del nostro paese: sono critico nei confronti di molte produzioni nostrane». Queste le prime parole di Luca Guadagnino, schietto e generoso anche in inglese, coccolatissimo da tutti al festival di Toronto, dove, grazie a radici e accento milanese siamo riusciti a bloccarlo e intervistarlo per voi su quello che si prospetta essere il film più sensuale, erotico e sentimentale degli ultimi anni.
Dopo il successo di Io sono l’amore, con la musa Tilda Swinton, A Bigger Splash, ispirato al classico La piscina di Jacques Deray, arriva in Italia Chiamami col tuo nome, tratto dal romanzo omonimo di André Aciman, una storia d’amore tra due ragazzi ambientata durante una calda estate anni ’80.
Dopo essere stato presentato a Sundance, Berlinale e, appunto, Toronto, ha ricevuto 6 nomination ai prossimi Spirit Awards, tra i quali miglior film, miglior regista, miglior attore con Timothée Chalamet (scoperta dell’anno), miglior supporting actor per Armie Hammer, nonché fotografia e montaggio. Per non parlare delle lodi dei critici di LA e NY e del consenso unanime ai recenti Golden Globe. E non siamo ancora arrivati a Oscar e Bafta. Davanti mi trovo un uomo colto, gentile, deciso e spigliato.
«Per me, questo film rappresenta l’ultimo capitolo di una trilogia sul desiderio», dice Guadagnino. «In Io sono l’amore si tratta di una forza liberatrice, ma distruttiva, mentre A Bigger Splash è nostalgico e possessivo. Chiamami col tuo nome è il viaggio di un uomo alla scoperta di se stesso, attraverso l’esplorazione della bellezza della giovinezza. Molti mi hanno chiesto se questa è la storia di un amore illecito, ma per me non c’è niente di proibito: a me piace la compagnia degli uomini, per me è una relazione come ogni altra. Anzi, sarebbe strano l’opposto, anche perché, se i protagonisti decidessero di nascondersi dietro le convenzioni, non vivrebbero la vita che vorrebbero. In ogni caso, rispetto qualsiasi interpretazione del mio lavoro: ogni film vive negli occhi di chi lo guarda, e non voglio imporre la mia visione a nessuno. Forse potrei dire che è un film politico, perché vuole ispirare chiunque a non diventare come il presidente Trump: una persona piena di rabbia e rancore, che pensa solo ai propri interessi. Lui non ha niente di poetico e non capisce quanto può essere bello amare una persona, indipendentemente dal sesso».
La sceneggiatura è stata scritta da James Ivory, regista di Maurice, uno dei film a tema gay più importanti. «Per anni ho fatto il produttore, se mi interessa un progetto non dubito mai se lo farò, ma solo quando succederà. Quando ho iniziato a lavorare su Chiamami col tuo nome, Ivory era già coinvolto nel progetto. Inizialmente ero stato chiamato per una consulenza, poi il regista che doveva dirigerlo è uscito dal progetto, e, a quel punto, ho deciso di lavorare con James alla sceneggiatura, sperando che finisse anche per dirigere il film. Non siamo riusciti a trovare i fondi necessari, e così ho deciso di dirigerlo io, girandolo con una sola camera e una piccola troupe, vicino a casa mia a Crema. Alla fine è uscito un film personale, sul rapporto tra genitori e figli, un film intimo, non tanto in senso fisico, ma emotivo. Va alla ricerca della bellezza: non quella assoluta, ma quella personale, di ognuno di noi».
Come sempre nei suoi lavori, la musica ha un ruolo importante. «Ci sono canzoni, come profumi, che hanno un legame profondo con le esperienze del nostro passato, memorie, pezzi di vita, momenti irripetibili. È un film ambientato nel 1983, ci sono pezzi che passavano alla radio durante quell’estate, la musica che ascoltavano i protagonisti. Come Paris Latino dei Bandolero e Love My Way degli Psychedelic Furs, che per me rappresenta la ricerca del percorso alla realizzazione di sé da parte di Oliver. Poi ho voluto Giorgio Moroder, Simonetti e i Goblin, e Jack Nitzsche che suona il suo theremin. Ho scelto anche Hallelujah Junction di John Adams, compositore che ho sempre usato in tutti i miei film, Ma Mère l’Oye di Maurice Ravel e Bach. Non potevano mancare Loredana Bertè e Franco Battiato con Radio Varsavia. Amo quella canzone, mi rappresenta: sono io. Ho voluto anche collaborare con Sufjan Stevens, perché volevo una voce narrativa non tradizionale. Scrive liriche poetiche, ha una voce angelica, limpida e cristallina, capace di evocare immagini diverse a seconda del notro stato emotivo. E poi c’è Ryuichi Sakamoto, che ho scoperto quando ero teenager e che ha sempre avuto un’influenza incredibile sul mio lavoro».
Guadagnino è nato a Palermo nel 1971, e si è laureato alla Sapienza di Roma con una tesi sul regista Jonathan Demme. Tra le sue ispirazioni c’è sempre stato Bernando Bertolucci, a cui dedica questo film. «Lui, ma anche Roberto Rossellini, Jean Renoir, Éric Rohmer, Jacques Rivette e André Téchiné. Tutto è iniziato quando vidi con mia madre Lawrence d’Arabia, un colossal che costò 15 milioni di dollari nel 1962. Non credo di aver mai avuto un altro percorso possibile: sono diventato una persona cosciente solo dopo aver capito il potere che possono avere le immagini, quando scorrono una dopo l’altra. Il cinema ha un fine importante: mostra una versione della realtà diversa da quella in cui viviamo. Da allora ho sempre voluto diventare regista, quando avevo 8 anni ho iniziato a girare filmini in Super 8, per me era l’unico modo per capire cosa volesse dire essere dietro una macchina da presa. Poi ho iniziato a lavorare come indipendente, documentando la mia realtà palermitana. Alla fine sono arrivato a Milano, e la mia passione è diventata un lavoro. Ho iniziato a guadagnare solo 15 anni dopo aver iniziato a dirigere e mi ritengo molto fortunato per riuscire a mantenermi in un’industria così complessa. Sono privilegiato, perché riesco a lavorare ed esprimere la mia creatività».
Il suo amore per la moda nasce dal cinema anni ’50 e ’60. «Sono molto vicino a quel tipo di estetica. Ho sempre ammirato i registi capaci di collaborare con grandi stilisti. Hubert de Givenchy era il preferito di Audrey Hepburn, perché amava le donne, il nero, Parigi, la semplicità sofisticata e le linee pulite, Yves Saint Laurent ha collaborato con Luis Buñuel. A ogni film voglio rinnovare questa simbiosi quasi scomparsa, e invitare gli stilisti a contribuire ai miei costumi. Ogni film dovrebbe raccontare le avventure dei protagonisti anche attraverso quello che indossano, per me la moda è una parte espressiva di noi stessi, della nostra cultura. In Io sono l’amore ho collaborato con la designer Antonella Cannarozzi, che mi ha messo in contatto con Raf Simons. Ho voluto fare un film contro la nevrosi dei borghesi, e nessuno meglio di lui poteva aiutarmi a disegnare i costumi, visto che ha iniziato la sua carriera col punk. E poi c’è Giulia Piersanti: ammiro il suo gusto e la sua sensibilita».
A proposito del prossimo remake di Suspiria, Guadagnino annuncia una collaborazione con Thom Yorke, che ha curato tre canzoni della colonna sonora. «Ho visto il film quando avevo 10 anni, e la scena della ballerina con la testa mozzata mi fece un’impressione incredibile. Poi, qualche anno dopo, ho scoperto gli altri film di Dario Argento, che ho sempre considerato un maestro del genere. Ha molta grazia quando decide di “uccidere” qualcuno, non vedo l’ora di fargli vedere il film. Non vorrei essere considerato arrogante, ma vorrei raccogliere l’eredità dei vecchi film dell’orrore, per ricreare lo shock che provai da ragazzino con Shining o L’esorcista, quella combinazione di emozioni, paura, curiosità, stupore, terrore, che mi fece gelare il sangue nelle vene e che non ho mai più rivissuto. Suspiria è un capolavoro irripetibile, ma spero di riuscire a portare al cinema un pubblico che normalmente non ama gli horror, anche grazie al lavoro di Thom. Figurati che mi ha rivelato di aver avuto un attacco di panico perché pensava di non farcela, ma poi ha trovato l’ispirazione grazie a Blade Runner e la colonna sonora composta da Vangelis».