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Luca Persico: «Ho cercato di uccidere ’O Zulù, eroico comunista impavido»

L’emarginazione, la ribellione, i centri sociali. Il rapporto tormentato con le etichette discografiche. Le affinità e le divergenze con Meg. La dipendenza da crack per chiudere un’epoca in modo drammatico. Il potere della parola, anche senza musica. Il cantante dei 99 Posse si racconta nel libro ‘Vocazione rivoluzionaria’ e in questa intervista

Foto press

A ripercorrere la storia relativamente breve, ma intensissima dei 99 Posse attraverso l’autobiografia del loro frontman Luca ‘O Zulù Persico, 302 pagine brutalmente sincere edite da Il Castello, sembra di essere catapultati in un mondo lontanissimo nel tempo. In un clima caratterizzato dagli ultimi (per ora) slanci ideali, dalle canzoni politicizzate, dai cortei e dagli scontri di piazza, dai centri sociali come incubatori di nuove tendenze, dalla libertà espressiva preferita ai soldi, il tutto condito da un sogno collettivo di libertà e uguaglianza, si muove la parabola personale e artistica di Luca Persico che, a un certo punto, di fronte alla disgregazione delle utopie nelle quali ha creduto, comincia a distruggere sé stesso per compiere una sorta di esecuzione pubblica mediante l’abuso di droga: «Dovevo uccidere ‘O Zulù». Cioè la maschera, il personaggio che gli era stato cucito addosso, e che lui stesso aveva forgiato per anni incendiando palchi e bruciandosi l’anima.

Per fortuna non ci è riuscito, anche se ammette di aver desiderato la morte e che «dovevano accorgersene tutti». Ma c’è di più in ‘O Zulù – Vocazione rivoluzionaria: l’autobiografia mai autorizzata di Luca Persico, che è un volume denso e urticante come la produzione della band partenopea, che in pezzi come Rigurgito antifascista cantava “se vedo un punto nero ci sparo a vista” e che nel CD di Corto circuito aveva inserito un videogame nel quale si potevano lanciare bottiglie molotov contro gli agenti di polizia.

C’è anche l’infanzia di Luca, che già a 10 anni prova sulla propria pelle l’emigrazione, il terremoto, il colera e capisce che i fascisti sono i suoi nemici giurati. E ancora i riverberi degli anni ’70, che lo hanno fatto sognare con la spinta al cambiamento poi infranta negli ’80 durante l’adolescenza, quando reagisce all’edonismo, alle televisioni private, alla superficialità e all’ostentazione andando a battersi per «la parte del mondo di chi quella società la criticava». Non manca la musica, dall’hip hop al reggae, dal rock all’heavy metal e il punk, tutti mezzi per rendere «le parole più potenti, più accattivanti, più penetranti». I rapporti artistici e umani si fondono: come con Meg, la cui fuoriuscita dalla band coincide con lo scioglimento (oggi Luca dice che «se ci incontriamo e ci viene voglia, potremmo rimetterci a fare qualcosa assieme, lo spero, ma non ci credo molto»).

Nell’intervista che segue va oltre il racconto della vita fatto nel libro e spiega perché, nonostante volesse cambiare la società e oggi si ritrova al governo Meloni e Salvini, è convinto che «il fallimento di una generazione» è compensato dai tanti, come lui, che sono vivi e coerenti coi propri ideali. Nella tanto demonizzata trap ritrova elementi che animarono l’esperienza dei 99 Posse: «In quella ostentazione di ricchezza è contenuta la critica alle condizioni di povertà che hanno dovuto affrontare».

Cosa ti ha spinto a raccontare tutto, ma proprio tutto della tua vita personale e artistica in un’autobiografia di 300 pagine dove non mancano né gli aspetti positivi, né quelli negativi?
Perché mi trovo in un momento di svolta. È una sensazione che ho cominciato a provare prima del Covid e che si è acuita durante il lockdown. In quel periodo sono successe due cose. La prima: il ritorno dei 99 Posse sui palchi, tra il 2022 e il 2023 abbiamo fatto più di 100 concerti che racconto nella parte finale del libro. Il secondo: la liberazione delle mie parole senza la sovrastruttura musicale.

La forza dei messaggi nei vostri testi vi ha contraddistinti fra le tante band di quel periodo.
Più di 30 anni fa ho iniziato un viaggio alla ricerca di un mezzo per rendere le parole più potenti, più accattivanti, più penetranti. E ci ho provato con l’arrangiamento musicale, la forma canzone, il reggae, l’hip hop, il rock, l’heavy metal e il punk. Ora ho capito quanto le parole siano potenti anche solo usandole con la libertà di pronunciarle scandendole in un certo modo o utilizzando sapientemente le pause. Tutto questo è diventato prima lo spettacolo Vio-lenti e poi una produzione teatrale che si intitola Ridire. Ha cambiato la percezione di me sopra a un palco. Sono alla ricerca di nuovi territori che non siano contenuti per forza in un disco. Credo che il ciclo della canzone politica, come l’ho interpretata fino a ieri, sia giunta a un punto di svolta. L’autobiografia mi aiuta a chiudere un ciclo e aprirne un altro.

Non scrivi più canzoni?
Da un po’ di tempo mi sembrava di scrivere più o meno sempre la stessa. Ho bisogno di chiudere questa fase per tornare a sorprendermi. Come sto facendo con queste nuove modalità di scrittura dove al centro ci sono parole e pensieri senza la musica.

Luca Persico a 15, 18 e 25 anni. Foto press

Veniamo all’autobiografia, che si intitola Vocazione rivoluzionaria. E che dimostri di aver sempre avuto, tanto che già a 2 anni tenti di scappare di casa.
Il germe della ribellione si agitava dentro di me. Mi è stato tramandato nel dna.

Sei nato nel 1970 e hai raccontato che nel 1980 avevi già vissuto emigrazione, gentrificazione, terremoto dell’Irpinia e colera.
Li ho vissuti tutti come li può vivere un bambino da uno a 10 anni, però li ho vissuti. Ma soprattutto ho vissuto gli anni ’70. Non dal punto di vista dell’attivismo politico diretto, ma negli anni ’70 la politica si riversava in ogni aspetto della società, dall’avanspettacolo ai tg, dalle chiacchiere da bar al teatro e fino alla comicità. Era un continuo riferimento alla politica, ai cambiamenti culturali, alla libertà sessuale, al sogno di una società diversa, con il Partito comunista che molti vedevano prossimo alla vittoria delle elezioni. E c’era ancora la Guerra fredda con la contrapposizione America-Russia. Un mondo che mi faceva immaginare, quando sarei cresciuto, di poter entrare in quella dimensione di cambiamento che respiravo senza neanche rendermene conto. La spinta al cambiamento era ovunque, anche nei discorsi privati dei miei genitori con i loro amici e nel modo di vestire dei giovani. Ma quando sono arrivato a 13-14 anni mi sono ritrovato nel pieno degli anni ’80…

Quindi in una società che tutta quella spinta al cambiamento l’aveva messa da parte, almeno dal punto di vista idealistico.
Proprio così, perché gli anni ’80 sono stati caratterizzati dall’edonismo reaganiano, dai Moncler dei paninari e dalle televisioni private. Un mondo che per me era incomprensibile. Non ne condividevo le priorità, la superficialità, l’ostentazione, odiavo i privilegi economici ed essere escluso da certi ambienti perché non avevo le caratteristiche dominanti. Sono nato e cresciuto in una società che era compatibile con le mie passioni, come la lettura, la storia e la musica con il rock impegnato, e poi mi sono ritrovato in un’altra dove se avevi queste inclinazioni eri un reietto. Per essere figo dovevi interessarti di motori, calcio, moda, a cose che non mi appartenevano. Lì ho preso consapevolezza della necessità di stare dalla parte del mondo di chi quella società la criticava e voleva cambiarla.

Resto alla tua infanzia perché hai provato anche il razzismo. In particolare quando i tuoi genitori, insegnanti, per lavoro si trasferirono a Clusone, in provincia di Bergamo, una realtà molto chiusa.
In questo caso lo hanno provato i miei genitori e me l’hanno raccontato. Ci sono arrivato a un anno e sono andato via a tre. Come scrivo nel libro, i miei ricordi sono di affetto e inclusività. Infatti a due anni sono scappato e mi ha accolto la padrona di casa dalla quale eravamo in affitto che stava al piano di sopra. Però è vero, c’erano grosse difficoltà a trovare una casa per chi veniva dal Sud, in un’epoca dove non era raro trovare appesi cartelli con scritto: non si affitta ai meridionali. Oltre alla chiusura culturale di persone che, per marcare una distanza, si esprimevano in dialetto e non in italiano. C’erano nell’aria i prodromi del razzismo, che hanno più a che fare con la diffidenza che con il razzismo vero e proprio.

Sempre piccolissimo ti sei anche scoperto antifascista grazie a una miniserie televisiva statunitense del 1978, Olocausto, diretta da Marvin J. Chomsky.
E così sono rimasto. Certi aspetti del pensiero di destra, soprattutto quella estrema, rimangono tristemente uguali a loro stessi. Non fanno niente per farsi odiare un po’ meno.

Nell’autobiografia racconti come sei arrivato alla musica e come è nata la band e un elemento centrale sono stati i centri sociali. Forse senza quei luoghi sareste diversi?
Toglierei il forse. Senza i centri sociali i 99 Posse non sarebbero esistiti. Perché non ci saremmo neanche incontrati. Io non sognavo di diventare musicista, ma di creare spazi di agibilità in una società che non ne aveva. Degli spazi a misura d’uomo e non solo a misura delle esigenze del capitalismo. Trovare dei modi per poter essere noi stessi senza temere di venire esclusi o esposti al pubblico ludibrio. La filosofia era smontare le cose per creare nuove strade. Sgomitando ho conosciuto Democrazia proletaria, Autonomia operaia, le occupazioni, in questo ambito il rap politico e ho provato a cimentarmi, ma l’ho potuto fare perché c’era la possibilità di esibirti. Senza quei luoghi non avremmo avuto la possibilità di provarci.

Sei stato spinto a salire su un palco grazie all’esibizione di un’altra band.
Sì, dopo aver visto esibirsi gli Onda Rossa Posse dal vivo su un palco della Cgil durante un corteo a Roma. Se non ci fossero stati i centri sociali, la politica e l’estrema sinistra non mi sarebbe neanche venuta l’idea di provare a fare il cantante. Avrei continuato a lavorare come dj e mi sarei laureato in Lettere moderne con indirizzo storico contemporaneo.

Traspare dal libro anche l’estrema coerenza. Come quando la vostra formula musicale esplode, arrivate in classifica con un disco d’oro, ma la vostra etichetta indipendente, la Flying, fallisce lasciandovi senza una lira. E voi, pur firmando con la Bmg, che era una major, rinunciate a un sacco di soldi per mantenere libertà artistica e prezzi ridotti i vostri concerti. Una beffa?
La beffa c’è stata, così come c’è stata una scelta. Dal punto di vista di un operaio è una beffa. Se firmi un contratto con un datore di lavoro che si approfitta della tua libertà per toglierti i soldi dallo stipendio è sicuramente una merda, almeno io non riesco a trovare una parola più delicata per descriverlo. Ma nel nostro caso è stata anche una scelta. Eravamo in conflitto con le case discografiche, ma costretti ad averci a che fare a causa del fallimento della Flying. Il rapporto con la Bmg è stato conflittuale dall’inizio perché il nostro obiettivo non era portare a casa più soldi, era quello di salvare tutto il salvabile del contratto precedente.

Che prevedeva?
Ci garantiva prima di tutto la più totale e incondizionata libertà di espressione. Non hanno mai neanche provato a intervenire su una parola di una canzone, che oggi considererebbero divisiva. In Bmg, invece, più di una volta abbiamo avuto problemi sulla scelta di una canzone, di un video o di un concerto. Ma l’unico modo che avevano per opporsi era non di pagarci, nient’altro. Così ce li pagavamo da soli. Ma avere questa libertà, che nei contratti si chiama ultima parola in caso di disaccordo tra le parti, purtroppo si paga. Così non ci davano gli stessi soldi che garantivano a Eros Ramazzotti che non gli rompeva le palle e accettava le loro condizioni. La beffa è stata il fallimento dell’etichetta indipendente, mentre il rapporto con la Bmg lo definirei più precisamente una complicata battaglia sindacale.

Il primo servizio fotografico dei 99 Posse by Lo Squalo a Officina 99. Foto press

Sempre in questo senso è quasi commovente quando ricordi che avete rifiutato l’offerta di un noto produttore napoletano di 500 milioni di lire per un tour senza “date politiche” e a prezzo imposto. E poi «abbiamo pianto tutti insieme»…
Era un bel gruzzolo per dei ragazzini, non avevamo ancora 30 anni. Ma per noi certe scelte erano fondamentali. Allora non facevamo ragionamenti basati sul guadagno personale, perché puntavamo tutta l’attività sul rapporto con la gente che ascoltava la nostra musica e nella quale ci immedesimavamo. Mettendoci nei loro panni abbiamo cercato di essere differenti rispetto a chi se ne fregava. Così i prezzi dei biglietti dei live li volevamo al minimo.

Ci sono esperienze che, però, forse ripagano più di tanti soldi. Come quando Mario Merola ti diede la sua benedizione col noto pizzicotto sulla guancia con doppio schiaffetto «aret’ ‘a capa». Il suo carisma è testimoniato da un video, che ogni tanto torna sui social, dove persino Bono a Sanremo gli si avvicina e ne resta stregato.
Ho avuto la fortuna di incontrarlo ed è stata un’esperienza indimenticabile. Questione di un attimo, però mi ricordo perfettamente l’emozione di quando ho visto che stava venendo verso di me e ho capito che gli avrei stretto la mano. Io mi sono letteralmente squagliato. Lui è un pezzo di storia di Napoli. Persino Bono, senza conoscerlo, a Sanremo si è inchinato.

Nel libro non manchi di parlare di Meg, che per cinque anni è stata la voce al femminile dei 99 Posse. E descrivi con ammirazione il suo talento artistico capace di cambiare direzione allo stile della band.
Il suo era un punto di vista da persona non politicizzata, almeno non come noi in quel periodo. Era estranea al linguaggio delle assemblee, dei circoli politici, ma con uguali sensibilità, obiettivi ed energia. Con lei abbiamo trovato la nostra caratteristica fondante, cioè che le parole scuotessero le persone comuni, non solo i già politicizzati. Le sue parole mi stimolavano a superare una visione un po’ troppo sloganistica, retaggio della mia adolescenza politica. Anche se il mio intento, fin dall’inizio, era quello di superare quel linguaggio, con Meg ci siamo riusciti davvero. In più è una donna, per cui ha portato in un gruppo dove c’era solo testosterone una sensibilità differente. Ed è cambiato tutto in meglio, almeno fino a quando ci siamo accorti che stava iniziando a peggiorare.

Nel miglior momento della band e di maggiore popolarità vi siete sciolti. Era il 2001.
Altri avrebbero scelto di soprassedere su certe problematiche e cercare di sfruttare in modo proficuo le opportunità del mercato. Ma per noi, che come ti ho spiegato non avevamo obiettivi di classifica o di denaro, ma di essere una costante spina nel fianco nel modello di sviluppo nel quale vivevamo e lavoravamo, non c’erano le condizioni per continuare insieme.

Devo farti la domanda che ti rivolgerebbe qualsiasi fan dei 99 Posse: oggi che sono passati tanti anni, non c’è proprio più la possibilità di rivedervi insieme su un palco con Meg? Non dico producendo nuova musica, ma almeno suonando insieme.
Non saprei, sinceramente. Perché quando ci siamo separati non ci siamo dati un appuntamento a qualche anno dopo. Quando i 99 Posse si sono riuniti è perché ci siamo ritrovati accidentalmente a calcare gli stessi palchi, a partecipare alle stesse assemblee di sostegno a qualche iniziativa e abbiamo pensato di ripartire. Con Meg non ci siamo mai ritrovati da allora. Noi abbiamo girato tantissimo e anche lei ha fatto uscire vari dischi con relativi tour e non è mai capitato che si incrociassero le date. Mettiamola così: se i nostri management vogliono organizzare la reunion, dal mio punto di vista non succederà mai. Se invece ci incontriamo e ci viene voglia di rimetterci a fare qualcosa potrebbe succedere. Anzi, spero davvero che possa avvenire. Ma non ci credo più molto che questo accada.

Con Meg ai tempi di ‘Cerco tiempo’, 1996

Alcuni dei passaggi più crudi dell’autobiografia riguardano il tuo abuso di sostanze stupefacenti. Non nascondi di aver avuto una dipendenza da crack che ha rischiato, oltre che di distruggere la tua carriera, anche di mettere a serio rischio la tua stessa incolumità. Che cosa ha rappresentato per te la droga? Una via di fuga?
Non ho iniziato a perdermi dopo lo scioglimento dei 99 Posse, ma dopo la seconda visita in Palestina e l’esperienza di Al Mukawama. Stavo vivendo un momento di grande disillusione artistica e politica. Il mio livello di strafottenza era a picchi altissimi. Quando sei in quello stato e lo unisci a una tendenza all’autodistruzione il mix diventa letale. Ho fatto una sorta di scelta: non me ne frega più di niente, mi voglio perdere. L’ho fatto perché volevo chiudere un’epoca e farlo in maniera drammatica esprimendo tutto il mio disagio sul palco e smettendo di essere l’eroe positivo che ha una risposta per ogni problema e su cui puoi contare. Ho tirato fuori quel dolore e quella rabbia che stavo provando. Non era la ricerca di oblio, ma lo scaricarmi da tutta questa pressione che, per me, era diventata insopportabile.

È vero che sei arrivato al punto di desiderare di morire, magari sul palco?
Sì, era tangibile. In qualche modo me ne sono reso conto fino in fondo durante il periodo di analisi e autoanalisi al quale mi sono sottoposto per capire quale fosse la strada per venirne fuori. Se dovessi riassumere il perché di quel percorso è che a un certo punto dovevo uccidere ‘O Zulù, il personaggio, e i privilegi che mi dava. E nella mia logica dovevano accorgersene tutti. Questo è anche, semplificando all’osso, il resoconto dei miei tre anni di psicanalisi.

Il personaggio te lo eri costruito per vincere alcune paure?
Non me lo ero creato io. Me l’hanno creato i tuoi colleghi giornalisti e il mio pubblico non è del tutto innocente. Io stesso, però, non sono esente da responsabilità per gli atteggiamenti che ho iniziato ad avere sul palco. Non c’è stata però una mia volontà iniziale. Quando mi chiedevano un autografo ci mettevo una vita perché dovevo scrivere la premessa «senza divismi» oppure «no star» e poi la firma. Ci ho sempre tenuto a raccontarmi come lontano da quelle distorsioni, a non atteggiarmi da grande intellettuale o da eroico comunista impavido. Sono una persona come tutte le altre che ha un talento e lo mette a disposizione.

Uno dei momenti più cruenti è il trauma psicologico derivato dagli abusi delle forze dell’ordine nei confronti di amici e compagni di lotta. Come l’arresto e le percosse subite da Sasà. Oggi che in un rapporto della European Commission against Racism and Intolerance si parla di razzismo delle forze dell’ordine, che cosa hai pensato?
Non è l’unica cosa rimasta simile al passato, impermeabile a 30 anni di cambiamenti della società. Ci sono certe cose che è più complicate rinnovare. Il problema non è che esiste un fondo di razzismo nelle forze dell’ordine, ma che ne è permeata la società. È un problema nelle redazioni dei giornali, nei consigli di classe e in tanti altri settori.

Una provocazione: con la musica volevate cambiare tutto, ma oggi abbiamo al governo Meloni e Salvini. È il fallimento di una generazione o sono i corsi e ricorsi storici?
Un po’ è il fallimento di una generazione e un po’ sono i corsi e ricorsi storici. Se però la vedi da un altro punto di vista, abbiamo una intera generazione di 50enni e 60enni che hanno passato la gioventù a contestare un modello di sviluppo. Stiamo lentamente e dal basso cambiando i connotati del nostro Paese semplicemente rimanendo vivi e mantenendo un minimo di coerenza con i nostri ideali. Facciamo figli, alcuni insegnano, altri cantano o scrivono nell’informazione. Cominciamo non solo a far parte dell’antagonismo, ma anche del mondo del lavoro, della cultura, siamo entrati a vari livelli in tutti i settori della società. È un processo lentissimo, ma che non abbiamo mai creduto che sarebbe stato facile e veloce. Sono un inguaribile ottimista e quindi me lo ripeto quando vedo Meloni e Salvini.

Durante lo spettacolo ‘Vio-lenti’. Foto press

Nella musica da anni domina la trap che viene spesso criticata perché veicola messaggi legati ai soldi, al successo personale…
Io li vedo diversamente impegnati. I loro punti di riferimento non sono i nostri e per certi versi è un bene che sia così. Quando avevo 20 anni i grandi cantautori, anche di sinistra, li conoscevo ma non li ascoltavo, né cercavo di prendere dalle loro parole o dal loro stile. Cercavamo di portare avanti qualcosa di nuovo che riguardasse la nostra di generazione e il nostro modo di comunicare, diverso da artisti a cavallo tra anni ’60 e ’70. Come oggi.

Quindi certi testi trap non sono da condannare come pensano in tanti?
Certe cose della trap non le capisco e quelle che non capisco credo non siano state scritte perché io le debba capire. Riguardano un’altra generazione di italiani, non più la mia. In più, sempre perché sono ottimista, è vero che sembrano parlare solo di soldi, però se andiamo a leggere i testi parlano anche di contesti di degrado, di infanzie difficili, di consumo di droga, di illegalità e di galera, dai quali sono usciti o cercano di uscire grazie alla musica. In quella ostentazione di ricchezza mi sembra sia contenuta dentro di sé anche una critica alle condizioni di povertà che hanno affrontato. Voglio prendere il lato positivo di questo fenomeno, cioè che la musica, ancora oggi, offre una possibilità di uscire dai problemi.

Quindi vedi un fil rouge fra i 99 Posse e certa trap contemporanea?
Io voglio viverla anche come una nostra vittoria. Come una conseguenza di tutto quello che abbiamo fatto negli anni ’90, aprendo le porte del mercato. Non solo di quello discografico, ma più in generale facendo capire alla gente che si può ascoltare musica che parla della realtà. Prima nel nostro paese per pubblicare una canzone dovevi inserire una storia d’amore o di corna. Noi ci abbiamo messo dentro la politica, l’antifascismo, l’impegno sociale e questo ha aperto gli spazi a tutta una serie di contenuti. Che sembrano molto distanti da noi, ma in realtà sono distanze assolutamente colmabili con il dialogo, la comprensione e il confronto.

Cosa ti ha portato a questa consapevolezza?
Che da qualche anno comincio a notare la presenza di ventenni ai nostri concerti. In passato non c’erano e adesso riappaiono. Quindi, in questa generazione che in tanti considerano perduta, vedo un movimento culturale e politico. Io ci credo nei giovani e nella loro capacità di cambiare le cose con la loro energia. Credo in tutti i giovani, anche nei più zuzzusi.

Chiudiamo con un giovane per te speciale, tuo figlio. In Vocazione rivoluzionaria spieghi quanto è stato importante per cambiarti la vita. Qual è l’insegnamento più significativo che pensi di avergli dato, oppure basta l’esempio?
Continuo a imparare da lui ogni volta che stiamo insieme. Mi piacerebbe passargli la curiosità, che comunque ha già da quando era piccolissimo. Non accettare la risposta più semplice o percorrere la strada più battuta, avere l’apertura mentale per cogliere il massimo dalle opportunità di ogni singola cosa che la vita gli offre. Non penso che si insegni con le parole, semmai facendo quello che le parole cercano di descrivere. Per diventare un buon padre sono convinto sia necessario soltanto essere un buon cittadino.

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