Quando lo chiamo, Lucariello ha appena concluso il suo turno presso il carcere minorile di Airola: un’attività che lo vede impegnato, per tre volte alla settimana, da ben dieci anni. «È qualcosa che ha modificato il mio linguaggio, il mio modo di scrivere e di raccontare la mia vita», racconta. Oggi Lucariello è in uscita con Innocente, il suo quinto album in studio: un disco maturo, orgogliosamente meticcio e apertamente autobiografico, punto d’arrivo di un percorso iniziato nel 1999, quando si fece notare tra i rioni con la pubblicazione dell’EP Malafemmena, composto da cinque brani e da una gustosa versione lo-fi della celebre canzone di Totò. Lo abbiamo incontrato per parlare di attivismo, politica, rap, lingua napoletana e progetti futuri.
Hai intitolato il disco Innocente, eppure nei brani il concetto di carnefice torna spessissimo.
Sì, ma in maniera perlopiù provocatoria, come ho fatto in passato in Cappotto di legno, il mio progetto con Ezio Bosso, in cui ho raccontato l’innocenza di un soldato di camorra cui è stato ordinato di uccidere Saviano: quando devi uccidere per avere salva la tua vita, sei un carnefice o una vittima? Il gioco di prospettive che intendo proporre in Innocente è più o meno lo stesso.
È anche l’album in cui hai svelato più dettagli sul tuo passato.
I temi sono vari: erotismo, sesso, tradimento. Però sì, è un disco perlopiù autobiografico: ad esempio, in ‘E cose bell, racconto di quando mi sono trovato a versare in estrema povertà poco dopo la nascita di mia figlia. Sono andato a fare volantinaggio per le strade, e sentivo mormorare la gente cose del tipo “Uà, che fine ha fatto Lucariello”. È un po’ il mio piccolo romanzo: ne vado fierissimo.
Anche il carcere, come spazio fisico e luogo della mente, fa capolino spessissimo nei testi.
Raccontare il carcere è un po’ raccontare la mia vita: che come ti dicevo, è una parte della mia quotidianità ormai fondamentale, sono dieci anni che passo più tempo con i ragazzi del minorile che a casa mia. Sarebbe impossibile non inserirlo nella narrazione, equivarrebbe a negare una parte importantissima della mia identità di artista e del mio lato civico, quello più da “attivista”.
Quando racconti della tua esperienza da volontario nelle carceri minorili, ripeti spesso che di questi spazi e di chi li abita non conosciamo nulla.
Be’ certo: inserire un ragazzo di tredici anni in cella con altre persone spesso più grandi di lui, magari con precedenti penali consistenti alle spalle, è una follia difficilissima da comprendere per chi osserva il fenomeno da fuori. Equivale a precludere ogni possibilità di rieducazione, come la nostra Costituzione invece vorrebbe. Parliamo di ragazzini che riescono a fare fronte comune nel “branco”, ma quando hai la possibilità di parlarci singolarmente ti rendi conto che sono degli sbarbatelli con situazioni complicatissime alle spalle: c’è chi ha perso il padre, chi non ha mai avuto nulla e ha iniziato a frequentare brutti giri per aiutare la famiglia, chi tornerebbe subito indietro senza esitazioni. Siamo sullo stesso livello dei manicomi, per me.
Che intendi?
Voglio dire che nascondiamo la polvere sotto il tappeto per convincerci che determinati problemi non esistano, ma è solo un meccanismo di auto–convincimento un po’ codardo: là fuori le difficoltà continuano a prosperare e, anzi, non fanno altro che aggravarsi esponenzialmente. Il parallelismo con i malati psichiatrici è tutto qui: celare le marginalità non equivale ad azzerarle.
Anche i tentativi di suicidio sono in aumento: hai letto di Jordan Jeffrey Baby?
Sì, ho seguito, e sono notizie che fanno male. Posso solo dirti questi dieci anni ho visto una quantità di lenzuoli appesi alle sbarre impressionante: spesso, per fortuna, i gesti estremi vengono scongiurati, ma è comunque una tendenza preoccupante di cui bisognerebbe parlare di più.
Per tante cose sei stato un precursore: utilizzavi l’autotune già nel ’97, e hai provato a entrare in politica ben prima di Kanye West.
Anziché lamentarmi nei testi, ho provato a scendere in campo attivamente. L’ho fatto tra le fila del Movimento 5 Stelle, non perché riponessi un qualche tipo di fiducia nel partito, ma per evitare di inciampare in determinati meccanismi. Non volevo ricoprire un ruolo in particolare, ma soltanto sensibilizzare l’opinione pubblica sui costi esorbitanti che riguardano la detenzione dei minori: se investissimo quei soldi in prevenzione avremmo la metà dei problemi, e questi ragazzi potrebbero davvero intraprendere un nuovo percorso, scommettere su una nuova vita. Purtroppo, mi sono reso conto che in Italia non siamo ancora pronti a considerare la possibilità che un artista possa decidere di dedicarsi alla cosa pubblica in maniera disinteressata. Nel caso del rap, poi, è ancora più difficile.
Perché?
Votano soprattutto persone parecchio in là con gli anni: se non erro, il segmento di popolazione votante maggioritario è quello al di sopra dei sessant’anni. Cosa vuol dire? Semplice: spesso l’elettorato non sa neppure chi sei. Partecipando alle regionali, poi, dove il sistema elettorale prevede la possibilità di esprimere preferenze, mi sono reso conto che in Campania c’è una compravendita di voti ai confini dello squallore.
Ti è dispiaciuto interrompere quel percorso?
Ma va’! Sono contentissimo di potermi dedicare alla musica al cento per cento.
Parliamo di musica e cultura partenopea. I rapper napoletani si sono presi la scena italiana: riempiono i palazzetti, occupano i primi posti delle classifiche e le copertine dei giornali. Come vivi il fatto che il napoletano sia diventato una lingua cool e mainstream?
È una soddisfazione immensa. Non faccio parte di quella porzione di scena più in là con gli anni che, magari, rosica un po’ per questa consacrazione tardiva: quando vedo Geolier che spacca o fa numeri grossi, provo solo un grande orgoglio. Noi possiamo solo attribuirci il merito di avere aperto un solco, ed è bello che le nuove generazioni possano goderne. Certo, se ripenso a quando venivo sottostimato dalle major ho un po’ di magone: quando proponevo progetti in napoletano rispondevano che non sarei mai uscito dal mio rione. Poi, però, penso anche che Nuje vulimme ‘na speranza (la sigla di Gomorra, nda) è stata ascoltata in 120 paesi e non posso fare altro che sorridere.
In effetti, Gomorra ha avuto un ruolo centrale in questa consacrazione.
Sì: prima di Gomorra il napoletano era percepito come una lingua sfigata, il codice segreto dei padri delle seconde generazioni cresciute al nord. Con la serie è diventata la lingua dei gangster, ha acquisito un nuovo appeal, ha iniziato a essere considerato figo. Io, però, ci ho sempre scommesso.