Montesquieu ne era convinto: alcuni popoli hanno una innata predisposizione per una determinata forma di governo. Napoli ha da sempre avuto a cuore l’istituzione monarchica. Il popolo partenopeo ha maturato il bisogno di un individuo particolarmente carismatico che incarni l’essenza della città. Napoli è un microcosmo complesso e dalle molteplici sfumature. Ma ha anche uno spirito proprio, condiviso all’unisono dalla sua gente.
Quando la città ha conosciuto un uomo che ha fatto di quello spirito una ragione di vita, lo ha reso suo figlio e incoronato come un re. Ma più che di un re, avrebbe avuto gli oneri e gli onori di un vero e proprio leader: eletto, voluto, amato, acclamato dal popolo. Quella persona diventa Napoli: si genera un rapporto di immedesimazione totale tra la città e il leader. A questo punto – in ogni modo – dovrebbe essere chiaro che in questo discorso la politica c’entra ben poco. I leader di Napoli sono stati musicisti, cantanti, attori, poeti, ma quasi mai politici. Per esserne il leader, devi amare Napoli e, allo stesso tempo, odiarla un po’. Devi desiderare di comporre una tua Napule è, ma anche cercare, in qualche modo, di fuggirne. Il sentimento più sincero tra Napoli e il leader non è monocolore. Non è un amore banale e standardizzato. Il vero amore ha una punta d’odio. Pino Daniele e Troisi avevano con la città questo tipo di rapporto e bruciavano di questo sentimento. Napoli è spettacolo e tragedia, carezza e schiaffo, Mergellina e Secondigliano.
Oggi la città sembra versare in una situazione abbastanza inedita. I leader storici del passato sono deceduti. Totò manca da un pezzo. Avremmo voluto godere più a lungo dell’ironia e del sarcasmo di Massimo Troisi. Avremmo voluto ascoltare un’altra volta ancora la chitarra e il graffio di Pino Daniele. Ma nulla, il destino è stato beffardo. Napoli è oggi orfana e il trono partenopeo aspetta in solitaria di essere occupato da un degno erede. Uno dei pochi nomi che sembra essere credibilmente candidabile è Luchè.
Almeno tra gli ascoltatori di rap, è un nome che non necessita di alcuna presentazione. Molti non perdonarono a Pino Daniele di utilizzare l’italiano nella sua musica e di esser fuggito dalla città. A Luchè è successo qualcosa di assai simile. Alcuni hanno visto in lui il principale artefice dello scioglimento dei Co’ Sang. Altri lo hanno etichettato come il traditore del dialetto e, di rimando, della napoletanità. Ma il lavoro di Luchè – dopo la rottura dello storico connubio con Ntò – è in verità assolutamente encomiabile. Per esportare e difendere la napoletanità, l’uso del dialetto non è una condizione necessaria. Non è, tra l’altro, nemmeno una condizione sufficiente: non basta scimmiottare qualche parola in dialetto per esprimere lo spirito partenopeo. Luchè ha limato e – sotto molti aspetti – migliorato le rime e i testi dei tempi passati. Il rapper di Marianella riesce oggi a esprimere e concettualizzare nei propri brani la napoletanità con molta più efficienza. Pino Daniele ha saputo comunicare allo Stivale intero cosa fosse Napoli e cosa vuol dire essere napoletano. Luchè è riuscito con un pubblico più limitato a fare la stessa cosa.
Oggi, quindi, Luchè nel rap game è uno di quei nomi da battere. Non in termini di vendite, ma per la qualità delle liriche, la profondità dei testi e la potenza delle rime. Lui stesso nelle rime iniziali di Violento si è autoproclamato nuovo leader di Napoli, dopo la morte di Pino Daniele. Ha dimostrato di saper raccontare la sua città con una poetica di livello e – non me ne vogliano i mostri sacri del passato – con un’immediatezza assolutamente inedita. In Casa mia, brano dell’ultimo album di Noyz Narcos con Luchè e Capo Plaza, il rapper napoletano riesce con un attacco micidiale a descrivere Napoli in sole cinque parole. “Vengo da lì dove litigano”. Ermetico, concettuale, incredibilmente esperto nel lavoro di limatura. Non c’è più bisogno del dialetto. Il trono è vacante, ma Luchè sta studiando per modellare il suo sedere per quella poltrona. Ne ha tutte le potenzialità: il prossimo album potrebbe essere l’epilogo di una lotta di successione lunga tre anni.