L’appuntamento è al Lumiere di Pisa, un vecchio cinema del 1905 riadattato a locale per concerti. Per arrivarci si imbocca un arco buio che, dall’assolata e trafficata strada principale sull’Arno, fa sbucare su un deserto cortiletto interno dove, appoggiato al muro a fumarsi beatamente una sigaretta c’è lui, Lucio Corsi, uno dei cantautori (o delle nuove rockstar?) più interessanti in circolazione.
Da qualche tempo, da “cantore degli animali” si è trasformato in uno strano ibrido glam rock senza che la svolta ne abbia intaccata la caratteristica leggerezza fanciullesca. Ci eravamo già incontrati nel 2019 a Milano e allora, con il disco Cosa faremo da grandi?, aveva messo in mostra alcune delle frecce al suo arco tra ballate ricche di metafore e fiabesche rievocazioni rockeggianti. Ora con il nuovo disco, La gente che sogna, si è spinto molto oltre nel delineare il suo mondo (non solo musicale) ideale che presenta all’ascoltatore in una chiave più pop (grazie allo zampino di Tommaso Ottomano) e che lo rende uno dei più credibili rappresentanti di una via alternativa al mainstream.
Non a caso, in questa chiacchierata che ci ha concesso prima della partenza del tour (qui le date), spiega che per lui esistono cose più importanti del successo e dei soldi come «la morale e l’integrità», per non rischiare di diventare una delle «tante macchiette disposte a perdere la dignità» in tv o sui social. E sembra quasi che il cantautore maremmano, in controtendenza, stia cercando di riaprire la strada dell’indie, che pareva ormai fagocitato dal mercato commerciale. In particolare quando sostiene che a Sanremo non ci pensa, perché «che sia rimasta un’unica possibilità per arrivare a tanti, quasi come Lourdes, a me non piace». Anche se a una condizione, forse, accetterebbe. Dove non lo vedrete mai, assicura, è a un talent come X Factor o Amici: «Li trovo molto tristi».
Lui che ancora suona con la band del liceo, che ascolta i dischi dall’inizio alla fine («non ho playlist»), che ha imparato a stare in silenzio dagli strumenti musicali, che sognava di ballare come Elwood nei Blues Brothers e che, a suo modo, ci è riuscito. Con queste 11 tracce sembra finalmente pronto a spiccare il volo, ma mantenendo sempre i piedi ben saldi a terra grazie ai valori che gli ha trasferito la famiglia. In particolare nonna Marilena, che gestisce il ristorante Macchiascandona, che nei confronti di questo nipote così originale ha solo un cruccio: «Mi rincorre per rattopparmi i vestiti, sostiene che così faccio brutta figura… Ma è lei che mi sprona al sacrificio».
Ci siamo visti nel 2019 e poi è successo di tutto. Come sei cambiato da allora?
Sicuramente da Cosa faremo da grandi? in poi, oltre a quello che abbiamo vissuto con la pandemia come tutta l’umanità, sono soltanto un po’ meno giovane. Ma fa tutto parte del gioco.
Dal punto di vista musicale, però, si sente una svolta. In quale direzione?
Quando lavoravo al disco ho scritto diversi pezzi con Tommaso Ottomano. Lui è sempre stato il mio primo punto di riferimento per gli ascolti, ma scrivere insieme non l’avevamo mai fatto. Alla fine ne sono usciti tre. Collaboriamo da una vita, non c’è niente di forzato, solo che così è una novità.
Cosa è stato in grado di aggiungere al tuo stile?
Partiamo dagli stessi riferimenti, ma lui è molto più pop rispetto a me. Ha maggiore attenzione al lato melodico delle canzoni. Io invece sono più cervellotico, mi concentro tanto sui testi e anche nella musica stessa, vengo dal folk e dal prog. Lui tira da una parte e io dall’altra e secondo me abbiamo trovato un giusto equilibrio per avere pezzi diversi e che mi gasano parecchio.
Come ti trovi in questa nuova veste?
Sono tranquillo nei miei panni. Non è così lontano da quello che amo in musica, è solo una chiave per continuare a cambiare rimanendo se stessi. Non mi sento snaturato, altrimenti non lo farei. È una forma di ricerca, perché alla base c’è un interesse a scrivere canzoni con melodie diverse.
La gente che sogna è nato tutto durante la pandemia?
Tra la primavera del 2020 e dicembre 2022. Ne ho scritte sette in Maremma e due a Milano.
Mentre il mondo era bloccato, tu ne hai immaginato un altro diverso nel quale rifugiarti.
Quando è scoppiata la pandemia ero in Maremma, ma pronto a partire con le date del tour. L’ho passata in campagna, quindi l’ho vissuta bene, ero libero e con gli strumenti per lavorare. Ho cercato di dare un senso a quel momento. Avevo dentro la grande spinta di voler suonare live, per cui diversi pezzi di questo disco portano dentro quell’energia che si era stoppata. Dopo anni di concerti chitarra e voce avevo una band e questo mi ha dato la voglia di valorizzarla nei pezzi.
In quel periodo, nonostante il tuo album fosse appena uscito, non hai proseguito con la promozione e sui social sei sparito. Come mai?
Sì, non ho sentito nessuna necessità di dire o urlare qualcosa, anche se avevo un disco appena uscito e avrei dovuto promuoverlo. Invece penso che ci siano momenti nei quali è sacrosanto stare in silenzio. Non cantare, non suonare, non gridare. Gli strumenti sanno stare zitti alla perfezione, siamo noi che li svegliamo. Dovremmo imparare a stare in silenzio, questo è il massimo insegnamento che ci danno gli strumenti musicali.
Cantavi «perché nemmeno da vecchi si sa cosa faremo da grandi» e immagino tu ancora non l’abbia scoperto, vero?
È giusto che non abbia risposta. E se anche fosse possibile, non vorrei saperlo cosa farò da grande.
Con il precedente disco in uscita e tutto bloccato non ti è mai passata per la mente l’idea del fallimento, dell’occasione mancata, magari di un treno che sarebbe potuto non ripassare?
No no, mi sono rimesso al lavoro. Anche se fosse stato un blocco personale, fa parte della vita. Possono succedere imprevisti e situazioni difficili, ma è inutile piangersi addosso. Anzi, sono felice che in quegli anni siamo riusciti a suonare qua e là senza video di esibizioni in streaming. Abbiamo aspettato e siamo ripartiti quando era possibile. Sono contento del percorso di quel disco.
Qual è il tuo rapporto con la musica fluida sulle piattaforme?
Faccio finta di niente. Non ascolto playlist, non mi piacciono. Amo ascoltare i dischi dall’inizio alla fine e continuo a farlo. Non mi curo del fatto che la maggior parte delle persone non lo faccia.
Quindi hai la tua collezione di dischi?
Dischi in vinile, ma soprattutto tantissimi CD. Mi piace ascoltarli in macchina. A volte parto in auto senza meta proprio per ascoltare musica. La meta è il disco. Quello che fa la maggioranza della popolazione non mi interessa più di tanto.
Anche quando scrivi non pensi al pubblico?
Prima di tutto quello che scrivo deve convincere me. Devo sentirmi bene cantando le mie canzoni e portandole dal vivo. Questi sono gli aspetti basilari.
A Flavio Giurato, che è un tuo estimatore, ho lanciato la provocazione di un Sanremo insieme a Lucio Corsi e lui ha risposto che con te lo farebbe volentieri. E tu con lui?
Per lui provo grande stima e affetto. Con Flavio Giurato ci andrei, perché sarei sicuro che, anche in una grande vetrina, non farei la figura del manichino. Però non penso a Sanremo, ma ad altre vie per la mia musica. Che in Italia sia rimasta un’unica possibilità per arrivare a tante persone, che sembra quasi Lourdes, a me non piace. Se non ci sono altre strade bisogna cercare di trovarle.
È un percorso molto più tortuoso e rischioso.
Io voglio provare anche a perdermi nella ricerca e magari fallire. È importante provare a starne al di fuori. Non è facile, ma penso che la soddisfazione sarebbe enorme riuscendo a portare avanti questo mestiere senza essere costretto a passare attraverso grandi amplificatori. Senza urlare per forza. Ci vorrà tempo, sarà un percorso lungo, magari impossibile, ma va provato sennò che gusto c’è?
Sembra quasi che tu stia provando a dare un’altra chance all’indie, che appariva ormai fagocitato nel mainstream.
Sono convinto che sia necessario. Tristemente, negli ultimi anni, si è detto: finalmente il mainstream si è aperto al diverso. In realtà è il diverso che si è allineato agli standard di leggerezza del mercato più commerciale. Per me è un peccato. Serve insistere su visioni differenti, in territori difficili, in momenti complicati, ma a me dà più gusto provare a percorrere questa strada.
Cosa pensi, invece, di quelli che si adattano a certe logiche di mercato?
A me mettono tristezza. Perché lo fanno palesemente per il denaro, nella maggior parte dei casi. A volte per gusti personali, ma che non sono i miei. Non apprezzo l’andarsi a infilare in carrozzoni che non trovo poetici. Sono degli show, è spettacolo, ma non nel senso profondo della musica, dell’arte e delle forme di espressione. Non amo la tv in generale, non mi piace, se non in alcuni momenti come Piero Ciampi e il suo programma No! oppure i monologhi di Mario Cioni. Quelli sono episodi speciali al livello televisivo. Se invece mi parli di X Factor o simili li trovo tristi.
Se ti chiamassero come ospite o come giudice a X Factor rifiuteresti?
Non ci andrei mai. Non mi piace quel tipo di mezzo e con quella quella forma.
Non c’è cifra che potrebbe convincerti?
Assolutamente no, non c’è cifra per X Factor, Amici o altri talent o programmi di scouting. Posso starne fuori tranquillamente.
In queste scelte c’è più consapevolezza o più incoscienza giovanile?
È solamente quello che penso e mi sembra giusto rimanerci fedele. Se ti rispondessi in un altro modo mi sentirei di mentire.
Veniamo alla tua band, perché nei live che porterai in giro per l’Italia ci saranno delle novità. Di base è quella che ti accompagna da anni, ma con due ingressi nuovi.
Sì è il gruppo con il quale sono cresciuto, i Canterbury Thanes. Hanno due-tre anni più di me e io al liceo li andavo a sentire, facevano progressive rock con l’Hammond, che abbiamo ancora ma non possiamo portarcelo dal vivo. Sognavo di suonare con loro e dalla terza liceo ce l’ho fatta e ora sono diventati la mia band. È un sogno che continua e ci fa vivere felici proseguirlo. Ora abbiamo aggiunto un chitarrista e un tastierista e i live saranno molto folk, blues, glam rock, con armoniche a bocca, slide guitar, tre chitarre elettriche a dodici e sei corde. Per me gli strumenti sono fantastici. Sono cresciuto con musica dove gli strumenti erano protagonisti tanto quanto chi li suonava.
Oggi i giovani si affidano più ai programmi sul computer che agli strumenti.
Si è persa questa manualità ed è un peccato. Gli strumenti hanno un’anima. Ogni musicista aveva uno strumento preciso, adattato alle sue esigenze e al suo suono. Andavi ai concerti anche per vedere come suonavano e quello dava più potenza al messaggio. Non voglio togliere nulla alla tecnologia, sono strumenti tanto quanto quelli tradizionali, ma dipende sempre come li usi.
Non ti senti un po’ nostalgico?
Spesso in giro dicono: «Ti rifai alla vecchia musica degli anni ’70». Ma non è vecchia, quella musica è contemporanea! Guardiamo troppo in piccolo. La Terra e l’universo hanno molti più anni e gli anni ’70 sono l’oggi per noi. Viviamo un tot, molto poco, per cui pensiamo che certe cose siano del passato, invece per me certe cose le sento totalmente attuali.
Anche nei tuoi outfit c’è un richiamo a quegli anni. Non avrai anche tu un armocromista?
Macché! È tutto personale. Mi viene naturale vestirmi così. La moda a me non interessa. Quando collaborai con Gucci fu un contatto con un mondo lontano da me che coincideva su un tipo di gusto, non di moda. Sono cresciuto con i Genesis, poi con il glam rock, e mi si è formata quel tipo di estetica. E fu una bella esperienza, soprattutto l’aver incontrato Mick Rock. In terza superiore a Berlino comprai un libro in tedesco di suoi scatti a David Bowie e ora lo avevo di fronte e mi stava facendo una foto. È stata una esperienza inerente ai miei interessi, ma della moda me ne frego.
Neanche la permanenza a Milano ti ha influenzato?
Per nulla, quell’aspetto della città lo odio. L’unico posto dove esco di solito è la trattoria Ambrosiana nella vecchia Niguarda dove vado dal macellaio, il signor Mario, e ritrovo un quartiere di persone che vivono sulla terra. Io voglio che con la musica si possa fuggire, come quando guardi un quadro o leggi un libro. Devi sentirti un’altra persona in un’altra epoca e con un ambiente diverso intorno. Ma nella vita preferisco persone che stanno con la realtà di fronte agli occhi. Posso cambiare se trovo qualcosa di interessante, ma i vari trend di moda mi sono distanti.
E infatti in quest’ultimo disco ti sei ricreato Un altro mondo, che è il titolo di uno dei brani.
È un auspicio a cercare di cambiare qualcosa, anche non riuscendoci e sapendo che è impossibile, ma comunque farlo. Compresa l’oscurità, sfruttandola come telo per coprire quello che abbiamo attorno e usarla come fosse un foglio bianco da utilizzare per reinventare ciò che ci circonda.
Che fine ha fatto “il cantore degli animali”, com’eri stato definito all’inizio della tua carriera?
A me va ancora bene essere definito così, in fondo anche noi siamo animali. Ma l’anima glam l’ho sempre avuta dentro e già in Cosa faremo da grandi? avevo iniziato a inserirla nella produzione e nell’arrangiamento. Adesso, spinto dall’avere una band allargata, era il momento di approfondire. Trovo che il glam rock sia una delle tipologie di musica più eleganti a livello compositivo e al tempo stesso molto leggera. Una contraddizione che si porta dentro e che trovo intrigante.
Credi che quest’epoca abbia perso un po’ di leggerezza?
Può essere, ma nel glam rock è presente la fuga dalla realtà. Negli anni in cui si è sviluppato era una protesta tanto quanto quella dei cantautori impegnati. Anzi, la trovo molto più poetica. È uno scappare dalle nostre vite tristi per rifugiarci tra le stelle e nei sogni. È una protesta onirica. Io voglio essere ingannato dalla musica, perché se mi descrive esattamente i problemi del mondo, che già tutti vediamo da soli, che palle!
In La Bocca della verità canti: “Se sarò polvere che sia da sparo”. Come a dire: sapendo come finiremo, almeno facciamolo col botto?
Sì, ma non per forza è inteso come qualcosa in grande. Non mi è stato tramandato dai miei genitori l’atteggiamento che devo fare cose per forza al top. Semplicemente ci sono atteggiamenti che vale mantenere a discapito anche del mainstream, come la morale e la propria integrità, che spesso in certi contesti si perdono. Come sui social, dove pur di essere famosi vedo tante macchiette, cioè persone disposte a perdere la dignità.
«Se non ti occupi di politica, sarà la politica ad occuparsi di te» disse Ralph Nader. Tu che rapporto hai con la politica?
Non sono d’accordo con quella frase. Nelle forme di espressione dobbiamo trattare di anima, non di politica. Lo ha detto bene Nick Cave. Bisogna usare termini relativi a quello spettro, non politici.
Quindi ciò che ti succede intorno non ti interessa?
Nella vita di tutti i giorni sì, mentre nelle canzoni va tramutato in altro. Per me alcuni pezzi di protesta politica meravigliosi sono quelle di Randy Newman, dove è in grado di dare voce a chi non la pensa come lui e metterlo in ridicolo. Questo è un modo intelligente per fare protesta da grande artista. Non gridare la canzone sui migranti. Se fai musica non la passi liscia. Chi canta è difficile che venga distinto dall’argomento trattato. Non accade nel cinema, dove un regista può fare un film su un assassino o su Mussolini e nessuno gli dirà che è un criminale o un fascista. Se gridi contro questo o quello è facile ottenere consensi. Ma non puoi farlo se nella vita non ti impegni davvero. Oppure devi trovare un modo artistico, altrimenti lo trovo irrispettoso.
C’è un momento, o più di uno, che ti ha fatto capire che avresti fanno musica nella vita?
Ne ho due. Il primo quando mio padre mi fece vedere il film Blues Brothers, dopo capii che volevo fare il cantante. Una mattina all’asilo per ballare come Elwood scivolai e cadendo mi procurai una ferita sotto il mento. Come vedi ho ancora la cicatrice perché non mi feci mettere i punti per paura. La seconda, quando a casa trovai l’album rosso Flashpoint dei Rolling Stones e lo misi sul giradischi e partì Start Me Up. Non avevo mai sentito il rock and roll e tra me e me pensai: davvero esiste anche questo? Da quel momento chiesi ai miei genitori una chitarra acustica.
Se ti dicessi che quando ci siamo visti la prima volta, quattro anni fa, ebbi la sensazione di trovarmi di fronte a un giovane cantautore di talento ma con ancora molti aspetti inespressi, e che oggi mi sembra di trovarmi di fronte a una nascente rockstar, come la prendi?
Eh, esagerato! Diciamo che non mi rispecchio in questa definizione. Mi fa piacere se me lo dicono, però non penso di esserlo o che lo diventerò. È un termine che pone una distanza con le persone e io non vorrei averla. Quelli che stimo di più non erano rockstar. Il mio è uno sperare di non esserlo. I più grandi della musica non avevano bisogno di quel tipo di status, mentre chi non ha altro da presentare cerca quella condizione anche solo per farsi girare l’insalata dai camerieri.
Se ti capitasse di avere un successo come i Måneskin ti spaventerebbe?
Ovviamente no, ne sarei felice. Vorrebbe dire poter fare questo mestiere ancora meglio, portare in tour i fiati e l’Hammond. Ma senza tralasciare gli aspetti umani. Sul palco più che rockstar ci si sente una rappresentazione. Da David Bowie a Renato Zero sono oltre, mistici, affascinanti, irreali, spiriti fuori dal comune. Quell’aspetto è sacrosanto. Mentre fuori dal palco non amo i piedistalli.
Musicalmente dei Måneskin cosa pensi?
Io preferisco altro, non mi piace il genere che suonano. Ascolto Bob Dylan, Joni Mitchell, Neil Young, tra gli italiani Paolo Conte. Sono contento per loro che possono girare il mondo a 20 anni.
Per tornare con i piedi per terra, i tuoi genitori che consigli ti hanno dato?
Non mi hanno mai detto che cosa devo fare, mi hanno lasciato libero di scegliere quello che era meglio per me. Ogni tanto vengono a un concerto ma non spesso, sanno che mi mette in imbarazzo. Hanno sempre avuto la coscienza di pensare che i giovani sanno da soli cosa fare. Non è facile da parte di un adulto il fidarsi delle nuove generazioni. Questo è bellissimo da parte dei miei genitori.
E la nonna che gestisce ancora il ristorante Macchiascandona, cosa ti dice?
Che non devo mettermi addosso le cose rotte e infatti mi ricorre per rattoppare tutto, dal cappello al golf. Sostiene che così faccio brutta figura… Su questo aspetto è una lotta continua con nonna Milena, che ha 84 anni, e per me è un insegnamento enorme perché ha tenuto in piedi il ristorante da sola. Un forza della natura che mi sprona al sacrificio con la sua dedizione. Infatti quando sono in Maremma sto tutto il giorno a suonare e cerco di impegnarmi quanto lei si impegna nel ristorante.