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Lykke Li ha trovato la bellezza nella tristezza, per l’ultima volta

‘Eyeye’ chiude il ciclo di album sulla dipendenza affettiva. È l’immersione definitiva nei temi prediletti da Lykke Li: l’idealizzazione delle relazioni, l'ossessione, la coazione a ripetere, l’amore come droga

Foto press

C’è un disco che dovreste ascoltare. È fatto d’echi e riverberi, di suoni che si propagano lentamente nell’aria e confessioni spudorate. Lo immagino ambientato in uno stato al confine fra il reale e l’immaginario, fra coscienza e alterazione tossica. C’è ben poco: la voce che intona melodie alla vecchia maniera, sintetizzatori vintage, un organo, una chitarra elettrica, molto mistero, tanta solitudine. È musica talmente fervente e intima da risultare allo stesso tempo mistica e pornografica.

Quel disco s’intitola Eyeye. Ascoltarlo è come cercare d’abbracciare un fantasma. È l’immersione definitiva nei temi su cui Lykke Li ha costruito una carriera e un piccolo mito: la dipendenza affettiva, le ossessioni, la tendenza a ripetere i medesimi errori, l’alcol e le droghe, l’idealizzazione delle relazioni, l’amore come sortilegio benedetto e maledetto da cui non si scappa, ma anzi in cui ci si abbandona con voluttà. E naturalmente la tristezza che tutto muove, la tristezza che Lykke Li riesce immancabilmente a rendere sexy.

Mi chiama da Parigi. La voce è flebile, le frasi brevi. Spiega che se Eyeye suona così perché ha cominciato a registrarlo nella camera da letto di casa sua a Los Angeles, con un laptop, un microfono, niente cuffie, né click. È un disco di canzoni tradizionali, ma non retrive. La cantante le ha incise subito dopo aver scritto i testi, «per catturare il momento in cui componi, che è il più vivo in assoluto perché tu stessa ti stai ancora chiedendo che cosa stai cercando di dire». Quando s’è trattato di elaborare le tracce con Björn Yttling, il suo partner creativo dei primi tre album, Lykke Li ha compreso che il senso d’intimità creato da quelle prime registrazioni non era replicabile. Effettivamente funziona: Eyeye ha un tono meravigliosamente confessionale, è grezzo senza risultare sgangherato, è cupo e incantato. «È stato prodotto mettendo pochi strati di musica sopra le tracce vocali. Volevo che l’ascoltatore si calasse nel momento in cui l’ho registrato, ecco perché ho lasciato il suono della pioggia, delle cicale». Nella presentazione dell’album dice che voleva che «suonasse come un vocale ascoltato dopo una dose assurda di LSD». Al telefono mi dice che è «il dipinto di un ricordo».

È il ricordo di una storia d’amore che non è mai all’altezza delle aspettative di lei, una storia in cui si va a sbattere. È un concept, anche se la cantante preferisce chiamarlo film, in cui tutte le canzoni parlano della stessa disgraziata relazione. I testi non dicono granché dei due protagonisti, chi sono, cosa fanno, com’è andata di preciso fra di loro. Gran parte delle canzoni sono ambientate dentro la testa di lei. Ci sono flash, ricordi, pensieri. C’è soprattutto il dolore di lei, che è poi il dolore di Lykke Li nei giorni in cui registrava il disco in camera da letto. Le canzoni sembrano l’eco tossica e perturbante della sua ossessione amorosa.

Nei testi si fa riferimento più volte agli stati di coscienza della protagonista, high oppure sober. A tratti sembra che l’amore sia descritto come una forma di dipendenza. Altre volte è evidente che l’alcol e la droga sono un modo per fuggire dal dolore. «Sono vere entrambe le cose», dice Lykke Li. «Non c’è droga più potente dell’amore, anche chimicamente, è una questione di dopamina. È una dipendenza come le altre. Ma è anche vero che le altre sostanze aiutano a dimenticare, a cancellare». Mi dice che i funghi allucinogeni hanno esercitato un’influenza profonda sull’album. Per spiegarmelo, dice che concepisce la musica come «un scala verso il paradiso» e che ha a che fare col cosmo. «Voglio creare mondi, voglio usare la musica per fuggire da questa realtà che è noiosa e tremenda. Cerco la trascendenza, aspiro al divino, che vuol dire sentirmi leggera e connessa, trovare un luogo dove può succedere la magia».

L’album si apre con cinguettii e un frinire di cicale e l’immagine della protagonista sulla soglia di casa dell’uomo da cui non vuole separarsi. Il fantasma non è lui che l’ha lasciata, è lei che è ferma nel passato. Ogni canzone sembra una preghiera di riconciliazione al tempo stesso dolce e straziante. E ogni preghiera sembra un passo verso la sconfitta. Lykke Li canta con grazia, eleganza e sensualità di gelosia, solitudine, dolore. L’amore è un incantesimo da cui non ci si riesce a liberare, da cui forse non ci si vuole liberare, l’amore è un film in 5D, «ma è un film che c’è solo nella mia testa». Abbondano immagini d’auto e di strade, «forse perché a Los Angeles passi un sacco di tempo dentro la macchina, che è una metafora dell’andare avanti, del lasciarti le cose alle spalle». E alla fine di questa mezz’ora di dolcissimo tormento c’è l’immagine di lui di spalle che va via, lei che chiude gli occhi perché non vuole crede che quella sia la loro ultima scena, lei che li chiude quando desidera ricreare quell’amore nella sua testa. E anche se non c’è il lieto fine, e anche se la protagonista sembra intrappolata in un ciclo infinito di sofferenza, Lykke Li dice che questo viaggio nel dolore vuole essere catartico, che ha voluto immergersi totalmente in esso per liberarsi dalla tendenza a idealizzare le relazioni, soffrire, scriverci su canzoni e ricominciare daccapo. «Ascoltatelo per favore tutto in una volta», aggiunge, «sentitelo dalla prima all’ultima canzone». Come se fosse un film, appunto.

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Anche se, a quanto mi dice, ogni progetto in campo extra musicale è per ora accantonato e quindi anche l’idea di dedicarsi al cinema dopo avere recitato in Song to Song di Terence Malick, Lykke Li ha scelto di accompagnare l’album con sette visuals pensati come loop. Diretti da Theo Lindquist e girati da Edu Grau in pellicola da 16 mm, con protagonisti la cantante e Jeff Wilbusch (Unorthodox, Oslo), sono brevi frammenti narrativi confusi, ambientati come il disco in una realtà quasi da sogno, o meglio da incubo. È un modo per impossessarsi di un formato, il video breve da guardare sullo smartphone, che oggi caratterizza il consumo d’immagini online. Viene integrato all’estetica dell’album e usato all’interno della sua narrazione onirica. Visti uno dopo l’altro è facile immaginarli come trailer del film musicato da Eyeye: non raccontano, ma creano suggestioni.

Ci si immerge in questo mondo e quasi ci si scorda di quanto quest’album palindromo, nel titolo e nella durata di 33 minuti e 33 secondi, sia strambo al confronto del pop che va in classifica di questi tempi. In un’intervista dell’estate del 2019 al Mad Cool, quando in fondo non aveva che 33 anni, Lykke Li diceva di sentirsi alla fine della sua carriera di cantante pop, di sentirsi troppo vecchia per tentare di fare la star. Aveva appena fatto il suo ultimo tentativo di partecipare alla conversazione globale sul pop con l’album So Sad So Sexy in cui sembrava voler intercettare alcune tendenze musicali di quegli anni. Il disco non era all’altezza né del precedente I Never Learn, né del successivo Eyeye. Quest’ultimo è il tipo di lavoro che gli artisti pubblicano quando non provano più alcun interesse nel successo commerciale e possono finalmente abbandonarsi alle proprie ossessioni.

«Penso che Eyeye sia una reazione a So Sad So Sexy, ma del resto So Sad So Sexy era a sua volta una reazione a I Never Learn. Voglio sempre fare qualcosa di nuovo, andare in posti dove non sono mai stata. Amo la pop music, l’ho sempre amata, e per un secondo ho desiderato far parte di quel mondo. La gente continuava a chiamarmi per collaborare assieme. Ho sempre risposto di no. Perciò ai tempi di So Sad So Sexy mi sono detta: vediamo che cosa accade dicendo di sì. Questa volta, però, ho voluto fare un album per me stessa». Il futuro non è scritto. «Credo però di avere chiuso un periodo con questo disco, penso di avere portato a conclusione il mio lavoro sul dolore. Credo che farò musica su altri argomenti, che inizierà un’altra era per me».

Se così fosse, Lykke Li ci avrebbe comunque lasciato un gruppo di canzoni originali che in un certo senso stridono col clima culturale in cui sono nate. Lei, svedese che ha vissuto un po’ ovunque nel mondo, si sente priva di radici e forse questo è uno dei motivi della sua unicità, del suo modo di trasformare i suoni in oggetti pop peculiari. Un’altra ragione ha a che fare coi testi che canta. Negli ultimi anni nella pop music hanno trionfato gli imperativi di empowerment e auto-aiuto. La tristezza è evocata per lo più come una cosa che ci si è finalmente messi alle spalle, la subalternità a un uomo è diventata irrappresentabile, struggersi per uno stronzo ha qualcosa di tossico, a tal punto chi ha racchiuso sentimenti di questo tipo nelle canzoni è stato colpevolizzato, si veda il caso di Lana Del Rey. Eppure esiste una meravigliosa tradizione di questo genere che va dalle origini della canzone popolare fino alle Crystals, passa per Amy Winehouse e arriva ai giorni nostri.

Da quando è apparsa sulle scene nel 2008 con l’esordio Youth Novels e poi soprattutto da Wounded Rhymes del 2011, Lykke Li ha insegnato che la tristezza può anche essere una benedizione. Che si può far musica pop, e farla bene, anche rappresentando i sentimenti e i pensieri di chi si mette in ginocchio davanti a un uomo e implora di non essere lasciata. Lei sembra non dare gran peso a questa diversità. «Semplicemente, mi sono accorta di essere dipendente da questa coazione a ripetere e ho deciso di essere onesta e di raccontarlo, anzitutto a me stessa», dice a proposito delle ossessioni amorose al centro del suo repertorio. «Si tratta di riconoscerlo, di accettarlo, anche per andare avanti. E siccome si tratta di un sentimento potente, posso dire di avere trovato la bellezza nella tristezza».

Nel farlo, ha tenuto in vita un grande tradizione della canzone pop. Finiamo per essere tutti sconfitti, prostrati e arresi prima o poi. Cantiamolo.

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