l timore iniziale, quando devi incontrare un’artista come M.I.A., non è tanto che possa fare la diva – rischio comunque alto – ma piuttosto che ti deluda personalmente. Che si riveli l’opposto della rapper e attivista universalmente stimata anche dagli addetti ai lavori. E sulle prime temo sarà così, entrando nella suite dell’albergo londinese che la sta ospitando. È sdraiata su un divanetto (dove rimarrà per il resto dell’inter- vista), circondata da almeno cinque persone del suo staff, fra truccatori e stylist.
Ma fra sorrisoni, parole appassionate e selfie finale che scatta addirittura lei col mio telefono, mi sento quasi in colpa ad aver dubitato di lei. È ospite di “Generation Now, Generation Next”, una fashion story pensata da Mercedes-Benz per promuovere un futuro più sostenibile (l’evento è in concomitanza con il lancio di una nuova auto elettrica), far conoscere nuovi talenti della musica e della moda, e magari condire il tutto con un’allegra festicciuola.
Quello di un futuro più responsabile è un tema sempre più ricorrente nell’arte, tanto da essere il fulcro della nuova campagna Mercedes. Tu come ti poni?
Sto diventando sempre più sensibile al riguardo. Una parte di me dice: ‘Perché mi interessa, quando c’è così tanto caos nel mondo?’. I brand si sono sempre interessati agli artisti e, che piaccia o meno, questi ultimi saranno sempre coinvolti con i brand. Anche se partecipi a un festival e il festival è sponsorizzato da un brand: è qualcosa che ormai non puoi evitare. Se, come in questo caso, si vuole comunicare un messaggio importante, nobile, che fa discutere, allora sento di poter essere coinvolta. Ed è solo un bene che vogliano collaborare con me, che sono sempre stata vista come qualcuno di “scomodo”.
Pensi di aver aiutato in qualche modo i migranti con pezzi come Borders?
Non credo di poter cambiare un’intera legislazione con un brano, lo faccio piuttosto per stimolare il dibattito. Se vai a vedere i commenti sotto quel video YouTube, ti renderai conto che è un problema che divide davvero tanto le persone. E quel video tra l’altro è arrivato più di un anno prima di Trump e della Brexit, quando non era ancora “socialmente accettata” tutta questa faccenda del razzismo. Quel video è arrivato prima di tante cose, prima che il razzismo venisse usato come uno strumento per dividere et imperare. L’immigrazione è stata usata come l’argomento numero uno per incoraggiare la Brexit e l’ascesa di Trump. Noi, però, abbiamo nel dissenso lo strumento numero uno. È stato solo un sassolino nello stagno, ma ha fatto discutere.
Quindi non è tanto importante la musica, ma piuttosto il suo messaggio e il dibattito che ne scaturisce.
Beh, a volte mi sveglio ed è importante solo la musica, altre solo il messaggio. In ogni caso, l’una ha necessariamente bisogno dell’altro. Le due cose vanno sempre di pari passo.
Qual è il tuo disco preferito di M.I.A.?
Matangi.
È anche il mio. Perché proprio Matangi?
Ci ho sudato tantissimo sopra. Forse ancora più di Kala, che di solito è quello che prendono tutti come metro di giudizio per ogni mio album. È stato intenso perché l’ho composto per intero, ovviamente lavorando nei limiti delle mie capacità. Ma, soprattutto, è uscito nel momento più duro della mia carriera, cioè quando l’industria discografica mi ha voltato le spalle. Di colpo ho visto solo porte, fino ad allora aperte, chiudersi.
Mi sono ritrovata dopo tantissimi anni a pagare di tasca mia lo staff, i fonici, gli artisti. Un disco interamente autoprodotto. È facile paragonare sempre i miei album a Kala, dove ho avuto la libertà più assoluta, perché tutti volevano che lo facessi. Ma nessuno voleva che facessi Matangi. Nessuno voleva averci a che fare. In più, pensa che un manager che avevo licenziato era diventato un pesce grosso dell’etichetta, cosa che mi ha impedito definitivamente un aiuto dalla label. Se tutto questo non bastasse, avevo anche due cause di parecchi milioni di dollari contro la NFL (National Football League americana, che l’aveva denunciata per aver mostrato il dito medio durante lo spettacolo del SuperBowl 2012, ndr), quindi mi sentivo letteralmente schiacciata da tutti e da tutto attorno a me. Un incubo.
Wow, sì! Ci credo che abbia significato tanto per te. Lo ascolterò con un altro tipo di attenzione la prossima volta.
Ho assorbito tutte le avversità lottando e tirando fuori qualcosa di buono e personale da un periodo impossibile della mia vita. Ho cercato di connettermi con il sé superiore, con la parte più alta del mio spirito che sta ben oltre a quello che mi stavano combinando quelle persone e più in generale l’industria discografica. Matangi è la divinità che nell’induismo rappresenta sia la musica che la libertà di parola, cioè tutte le cose per cui gli altri mi attaccavano. Tutto questo molto prima che il femminismo tornasse a essere un argomento caldo, ho voluto sottolineare che anche le donne possono essere dee e, soprattutto, possono occuparsi di cose tanto importanti come la libertà di parola, la musica, l’arte e pure l’inquinamento.