Ma che Diamine è uscito in versione fisica e digitale il 4 settembre, facendo seguito a Che Diamine (progetto solo digitale di maggio) e aggiungendovi quattro brani: Calma, Amore nero, Fuoco in collina e Mi dimetto. Pur essendo l’album di esordio di Diamine — che, del resto, non supera ancora i 25 mila ascolti mensili su Spotify — suona già come il disco definitivo del nuovo elettrocantautorato italiano. Non capita tutti i giorni di ascoltare testi nuovi che si possano fruire come versi poetici e, allo stesso tempo, siano musicati da accordi così efficaci nell’ispirare movimenti al corpo da ricordare un novello Battiato, i cui sdoppiamenti della personalità artistica fossero esplicitati in due individui distinti e ottimamente bilanciati.
Diamine non è un complesso musicale, ma presenta le sue complicazioni strutturali, puntualmente risolte in un battito di sintetizzatore dai suoi componenti, che sembrano una pubblicità della LegaCoop, per quanto riescono a lavorare bene insieme. «Non siamo i Diamine, siamo un progetto; non siamo una band, siamo solo due, fondamentalmente», chiarisce Andrea Purpura, capellone, barbuto, ex bassista psichedelico e oggi cantautore del duo (i fan della prima ora li chiamano comunque, confidenzialmente, “i Diamini”). L’altra metà, Niccolò Cesanelli, pelato, dal volto glabro, nasce batterista metallaro ma attualmente è autore delle basi elettroniche che, completando le parole di Andrea, fanno di Diamine l’uomo ideale di un possibile Rinascimento indie italiano. Del resto parevano un Frankenstein insolitamente fotogenico già in una delle prime immagini che circolavano di loro, coi due volti spaccati per metà.
L’offerta dei brani è ricca di pensieri e beat presentati non già con la prosopopea dell’indie-mainstream alla Tommaso Paradiso (o con la nonchalance talvolta affettata alla Brunori), ma con un’immediatezza quasi operaia, come se fossero due dozzine abbondanti di paste mignon della domenica disposte con cura su una guantiera. Si sente, tra le righe e le campionature, che non c’è stato momento produttivo in cui Andrea e Niccolò, amici fin dai tempi delle medie, non avessero le mani sporche di sampler e di vocabolario: a volte per imprimere ai loro brani la forma paradossale di ballate danzerecce; più spesso, quella di pezzi dance da meditazione. Molta sintassi, poco Instagram.
In particolare Amore nero sembra il tormentone autunnale ideale per quest’anno cui sembrano mancare non solo le mezze stagioni, ma mesi interi; e in questo Paese in cui i pensieri delle persone che pensano, presto orfani di rappresentanza parlamentare, si dibattono alla ricerca di nuove forme di rappresentazione artistica.
Andrea ci ha giurato che gran parte dell’album è stata concepita anni fa, a partire da un ritiro montano: «Ero andato a vivere in una casetta fuori città, in un paese tra le montagne. Niccolò è venuto a trovarmi, ci siamo chiusi a produrre, ci siamo sopportati per un po’ di tempo e sono nate così molte canzoni».
Se non fosse stato per questa origin story si sarebbe potuto considerare Ma che Diamine, venuto al mondo — in due fasi — durante questa pausa di riflessione che ci siamo presi dalla normalità (non perché non fossimo noi il problema, ma lei), il primo piccolo grande album nativo pandemico che l’Italia abbia prodotto: una richiesta di aiuto, trasmessa attraverso la musica, perché dalla chiusura potesse nascere un’apertura. La settima traccia — Isolamento — neanche a farlo apposta, sembra l’inno nazionale indie del lockdown.
I pezzi sembrano traboccare di memorie bellissime che ricordiamo malamente, forse perché non tutte le abbiamo davvero vissute. Le musiche non sono elettroniche solo per sound, ma sono un principio attivo dell’apparato cantautorale, grazie a impulsi che sono sempre veloci come in un cortocircuito tra la realtà e l’immaginazione.
«Quando sei immerso nelle cose reali puoi scoprire che dietro di esse c’è tutto un mondo poetico e surreale. È l’inconscio che fa dei giri enormi dentro di te e ti viene a dire delle cose. E quando te le viene a dire, le accogli», confessa Andrea. E continua, parlando del ritorno a Roma dopo la fine del ritiro montanaro: «Sono tornato in città anche perché l’andare fuori per trovare me stesso, dopo due anni e mezzo, si era rivelato un mezzo fallimento, soprattutto perché trovare te stesso, quando sei solo, è facile. È parlando e stando con gli altri che ti rendi conto davvero di chi sei».
Per Diamine creare musica è principalmente un’attività consolare: si controllano a vicenda. E non per il rischio che l’uno diventi troppo Paolo Conte e l’altro troppo Giorgio Moroder; che non sembra tanto forte, in fondo. Semmai perché uno è la realtà e la fantasia dell’altro, scambievolmente. Il loro elettro-pop che, sprezzante della forza di gravità della malinconia di fondo, forte delle ali degli arpeggi, riesce a essere verista e onirico un verso sì e una nota pure.
Le due copertine di Che Diamine e Ma che Diamine rappresentano, rispettivamente, la prima un automa a capo chino, immerso in un paesaggio di bassa montagna; la seconda l’automa che rivela il suo volto a un uomo e una donna visti di spalle. «Le copertine raccontano il periodo che tutti stiamo vivendo: l’incontro con la tecnologia», spiega Andrea. «Una tecnologia che ci rende sempre connessi, ma non sappiamo se siamo davvero pronti a esserlo. Quelle immagini sono un incontro tra due persone che stanno insieme e si ritrovano davanti questa possibilità».
Se domani sera la tua ragazza ti dicesse: “Ciao amore, esco e vado a sentire Diamine”, tu abbracciala e dille grazie; anche se concerti-concerti non se ne faranno ancora per un po’, non farti troppe domande. Abbracciala e dille grazie perché Diamine è un esorcismo del mondo posseduto dagli stilemi della banalità, dalla grammatica del successo, dalla dittatura dell’individuo.