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Ma sei normale, Blanco?

Lo chiede la madre in un vecchio pezzo, lo chiede il padre quando lo vede correre nudo per i boschi, e forse lo chiede anche chi l’ha scoperto nell'ultimo anno. Merito di uno stile senza pose e di canzoni carnali come quelle dell'album 'Blu celeste'. Ci voleva uno come lui, un artista senza genere, né regole che viene dalla provincia, per dare una scossa alla musica italiana

Foto: Manuel Grazia

A Blanco piace correre nudo per i boschi. «Ovviamente se ti vede qualcuno ti prende per pazzo, ma lo consiglio a tutti, aiuta un botto». Lo fa dalle sue parti, a Calvagese della Riviera, un piccolo comune del bresciano. «La stilista che mi segue è una naturista e dopo che me ne ha parlato m’è scattata in testa questa molla. Spogliarmi di tutto e andare in giro nudo mi fa pensare che sono solo un puntino nell’universo. Finisco per chiedermi: ma in fondo chi sono io? Quanto conta quel che faccio? La risposta è che sono uno che un giorno morirà, come tutti. Quindi voglio far musica che resti nel tempo, che mi sopravviva. Magari fra 150 anni ci sarà qualcuno che ascolterà una mia canzone e penserà: però, che bella. Sarebbe devastante».

Non so se fra 150 anni ascolteranno le canzoni di Blanco, so che oggi un sacco di gente lo fa. Eppure fino a un anno fa Riccardo Fabbriconi, questo il suo vero nome, era un culto per pochi, con tre pezzi sulle piattaforme di streaming e altri più vecchi su Soundcloud. La canzone nostra ha cambiato tutto. Pubblicato nel gennaio 2021, il singolo con Salmo e Mace è in classifica da 34 settimane. Mentre scrivo, al primo posto c’è un’altra canzone con dentro Blanco, Mi fai impazzire con Sfera Ebbasta. I suoi pezzi sono anche al quinto, all’undicesimo e al sessantaquattresimo posto. Il tizio che corre nudo nei boschi è uno degli adolescenti di maggior successo nel mondo della musica.

Ora di canzoni che sopravvivranno a Blanco ce ne sono altre 12 e sono contenute nell’album di debutto Blu celeste. È al tempo stesso un ritratto grezzo d’artista e un diario di pulsioni e malinconie che Blanco dice d’essersi messo alle spalle, la creazione sballata d’un provinciale di successo e il grido sconnesso di un disagiato. «In questo disco c’è tutto quello che ho vissuto da quando ho iniziato a fare musica», racconta. «Il concetto dell’album lo vedi in copertina. La foto è stata scattata nel mare della Liguria, sono sospeso a metà fra superficie e fondale. Sono a peso morto, sono rilassato». Si sente libero, in quel mare, perché finalmente è riuscito a tirare fuori le storie che ha vissuto, a dare loro una collocazione, un posto dove stare. Per mettersele alle spalle.

Foto: Bogdan Chilldays Plakov

Dice che non sa cantare e che non gliene frega un cazzo. «Io urlo col cuore, e basta». Forse è per questo che la prima volta che l’ho sentita, la sua voce m’ha fatto pensare al sesso. C’è sesso nell’intonazione indisciplinata, una pulsione primitiva e senza freni. C’è sesso nella grana della voce, che t’aspetti vada da un momento all’altro in saturazione. C’è sesso nello spirito selvaggio che mette nell’interpretazione. E naturalmente ce n’è, e tanto, anche nei testi. «Mi piace l’aspetto carnale delle cose», dice, «mi piace la purezza». E cosa significa essere puri? «Significa non fermarsi: se fai una cosa, falla con passione, fino in fondo. Se ti metti con una ragazza, fallo perché la ami e perché provi quella pulsione carnale. E lo stesso vale per la vita».

Se i trapper rappresentano il sesso in termini performativi e competitivi, Blanco ne canta l’aspetto rozzo e impetuoso, traducendo il desiderio in un canto scomposto ed esplicito, assieme selvaggio e romantico, un’ossessione che nel nuovo disco non viene stemperata nonostante il successo raggiunto. Lui la mette giù così: «Non mi piace il lato goliardico del racconto del sesso, non mi piacciono i ragazzi che in doccia misurano chi ha il cazzo più lungo». La trap è anche il racconto di chi ce l’ha più lungo, no? «Eh lo so, ma è uno stile anche quello. Diciamo che mi ispirano altre cose».

Quando l’ho sentita con più attenzione, nella voce di Blanco ho sentito dell’altro, un disagio espresso non in modo esplicito, ma comunque potente. E del resto lui si racconta come uno scappato di casa, anche se a parlarci non sembra. Aggiunge ridendo che «sono un disagiato, sì, ma di un disagio bello». Resta quel tormento forte, un vuoto da riempire. “Fanculo questo dolore, la gente non lo capisce”, dice all’inizio del disco. Quali siano i contorni e l’origine di questo dolore Blanco non lo vuole spiegare. «Preferisco non entrare nei particolari. Ci sono stati momenti in cui sono stato male per certe cose che stavo vivendo e non lo ammettevo. Ma non puoi mentire a te stesso. Voglio essere trasparente e non è facile. Odio quelli che sono sempre felicioni, quelli che sorridono di continuo, gli stupidotti che prendono ogni cosa in modo leggero. Mi piacciono le persone più conscious, quelle che vivono i momenti di dolore senza far finta di stare bene. Devi accettare le tue ferite e curarle. Non puoi mettere un cerotto su un taglio di cinque metri».

Insisto, ma non dice cosa abbia causato questa ferita fuori scala. Aggiunge solo che «quando avevo 16 anni, cioè due anni fa, ho scoperto la musica e mi ha aiutato a incanalare tante cose, a sfogare in modo positivo la rabbia per quel che mi è successo. È un modo per far sì che una cosa negativa diventi bella». Qualunque sia la fonte di questo dolore, viene fuori nitidamente nella prima canzone del disco. S’intitola Mezz’ora di sole ed è l’incipit epico dell’album in cui Blanco dice che nel 2018 voleva ammazzarsi. Lui conferma, è una storia vera. «L’ho messa lì all’inizio perché volevo dire subito cose forti e vere. Era importante raccontarmi in mondo sincero. Quando fai una cosa real la gente se ne accorge».

In molte canzoni di Blu celeste c’è una pulsione verso l’eccesso. Non è però maledettissimo. «A volte mi dicono: sembri sempre incazzato. È che quando vedo il microfono dico quello che voglio dire». In un pezzo titolato Figli di puttana, ad esempio, dice che star male lo ripulisce. «In realtà è una frase che fa ridere: quando bevo, bevo tanto. Mi piace il whisky, ma ho capito che non fa per me. Basta». E però l’album trasmette la voglia d’essere mondati attraverso esperienze forti, una purificazione che passa anche per l’eccesso, ma è più per la foga del canto e l’impatto della musica, è più esorcismo che esperienza diretta, o almeno così afferma Blanco. «La gente mi dice: sembra che ti cali le peggio droghe. In realtà non fumo e non prendo nessuna droga. Ne ha provata qualcuna di leggera, ma niente più. Mai esagerato. Mi piace essere puro. Quando ti droghi in modo pesante vuol dire che ti stai nascondendo. E quindi sappiate che non sembro pazzo perché mi drogo, sembro pazzo perché sono così normalmente».

In un vecchio pezzo chiamato Tarzanelli, in realtà più una bozza goliardica pubblicata su Soundcloud che una canzone vera e propria, si sente la madre del cantante che gli chiede: «Ma sei normale?». È una domanda che deve essersi sentito rivolgere spesso. «Mia mamma me lo chiede da quando avevo 8 anni e mio padre forse più di lei». Per dire, «ma sei normale?» è la domanda che gli ha fatto il padre quando l’ha beccato a correre nudo nel bosco.

In Pornografia canta che “per me non ci sono regole”. Parla d’amore, ma è l’idea che ci si fa di lui. Quando invece te lo trovi davanti, maglietta heavy metal vecchia scuola e anfibi ai piedi, non ha nulla di sregolato, né ce l’hanno le cose che dice. Blanco è decisamente più assennato delle sue canzoni. Come gran parte dei diciottenni, ha qualche storia buffa di dissolutezza da raccontare, ma afferma che «nella vita non avere regole è sbagliato. Se non hai regole sbatti e ti fai male. E io lo so perché sono stato il campione dell’andare a sbattere. Però sono cambiato. Nella musica è bello essere istintivi, nella vita non puoi». Arriva a dire cose da ragazzo cresciuto con valori d’altri tempi, tipo «non ho bisogno di avere la Lamborghini per essere felice» oppure «per stare bene mi basta sedermi su un muretto e guardare il tramonto» o ancora «nella tomba non ti porti il Rolex, ma le esperienze che hai fatto». Quando gli dico che rischia di sembrare un bravo ragazzo dotato di sani valori, uno che la fidanzatina può presentare senza timori al papà, lui non fa una piega. «Mi piace. Valori sani. Marci, ma sani».

A dispetto della fotta, del sesso e del whisky, da Blu celeste emerge anche il lato sensibile di Blanco. Gliel’ha tirato tirato fuori Michelangelo, il produttore. «Io cercavo di tenerla nascosta questa cosa. Avevo paura a mostrare la mia parte più debole. Lui mi ha aiutato a essere trasparente con me stesso, mi ha fatto capire che a volte la parte più debole è quella più forte». È emblematica la canzone che dà il titolo al disco e che è stata scritta un paio d’anni fa per una persona che non c’è più, “il fratello che vorrei” come dice il testo. «Non voglio entrare nello specifico, preferisco che chi l’ascolta pensi a una persona importante che ha perso».

Foto: Manuel Grazia

C’è una parola inglese che da qualche anno gira con sempre più insistenza: genreless. La si usa per descrivere la musica figlia del grande mischione degli anni Zero. Le barriere sono cadute, ogni suono è accessibile e non è necessario dargli un nome. Ecco, Blanco è genreless. È cresciuto ascoltando in famiglia i grandi cantautori italiani, da Adriano Celentano (che ha citato il ragazzo su Instagram facendogli prendere un colpo: «Oggi ho letto che tu “mi ascolti”! Anche io ti tengo d’occhio!») a Gino Paoli, da Domenico Modugno (colta la citazione in La canzone nostra?) a Franco Battiato, tutta gente che uno non assocerebbe a Notti in bianco o a Paraocchi. «Da subito mi sono rifiutato d’essere incasellato in un genere. La gente ha questo bisogno di incasellare le cose. A me invece piace il disordine. A me piace dire che è musica e basta».

Di lui si parla spesso come rapper, anche se rapper non è. E però, nonostante la determinazione a non farsi etichettare, alla fine ha attirato l’attenzione del mondo rap e qualche affinità c’è, anche se quando canta se ne frega d’ogni regola ritmica. Scuote la testa per dire quant’è grande Persona di Marracash e ammette che oltre a non saper cantare non sa neanche rappare. La cosa non gli ha impedito di collaborare con Madame, partecipare a 64 Bars, trovare grandi testimonial in Salmo, Mace e Sfera Ebbasta. Apprezza i complimenti della gente affermata, «è un bel riconoscimento a livello personale, anche se non mi piace questa cosa che c’è soprattutto in Italia che vieni rispettato se fai feat con gente rispettata. Quanti pezzi ha fatto Vasco con altri? Pochissimi, eppure…». E difatti nell’album di Blanco non ci sono feat. «Perché questo disco parla troppo di me».

Nel mettere a fuoco la sua idea di «musica e basta» è stato fondamentale l’aiuto di Michelangelo, nome d’arte del produttore cremonese Michele Zocca, che ha una decina d’anni in più di Blanco. Si sono incontrati nel novembre 2019, ricorda Michelangelo: «Eravamo in studio per una session per conoscerci organizzata dal mio manager. Appena l’ho sentito cantare mi sono detto: ok, questo è l’inizio di una storia che durerà a lungo. Mi si è aperto un mondo». Incontrare Michi, come lo chiama lui, per Blanco ha rappresentato una svolta fondamentale: «Io non so produrre, ma quando lui si muove in studio è come se lo stessi facendo io in prima persona. Una cosa assurda».

Altrettanto assurdo è che nel curriculum di Michelangelo, che si è occupato anche del mix e del mastering di Blu celeste, ci siano artisti mainstream lontani dallo stile di Blanco: Paola Turci, Niccolò Agliardi, Benji & Fede, Francesco Renga, Marco Carta, una vecchia e vecchissima guardia che lo stile marcio e iperverista di Blanco ha almeno simbolicamente spazzato via. «In realtà nel privato ho sempre ascoltato rock e punk, e ho sempre fatto esprimenti per i fatti miei, rimasti sugli hard disk», spiega il produttore. «È un aspetto che è venuto fuori quando ho cominciato a collaborare con Ricky. Ma è vero che siamo complementari. Lui non sa molto di musica e la fa con una libertà totale che gli invidio, va di sentimento. Io invece ho studiato tanto ed ero abituato a vedere la musica in modo più schematico. Dove non arriva lui, arrivo io. Dove non arrivo io, arriva lui».

L’album ha il feeling del disco suonato, ma il sound digitalizzato perfetto per l’era dello streaming. È stato scritto e realizzato quasi interamente dai soli Blanco e Michelangelo. «Cerco sempre di unire elemento umano e suono digitale», spiega il produttore, «ma se c’è solo il primo trovo che il suono risulti troppo superato. Ogni traccia fa storia a sé, ma di solito suono gli strumenti e li lavoro al computer, per rendere il sound unico. La maggior parte della ritmica è programmata al computer, ma conoscendo lo strumento l’ho programmata in un modo più, come dire, batteristico, come se fosse eseguita da un musicista. Abbiamo sperimentato con strumenti e stili diversi. La cosa bella è che Ricky ha un tale carattere vocale che se ci metti sotto un pianoforte o una base punk o un synth anni ’80 lui comunque spacca. Non ci siamo posti limiti. Ha ragione lui quando dice che è musica e basta».

Blanco spiega che «abbiamo capito che dovevamo fare l’album quando è arrivata Blu celeste, la canzone, e che dovevamo farlo mettendo assieme tutti i pezzi che avevamo registrato e che non erano ancora usciti (nel disco non c’è Mi fai impazzire, ndr). Ricordo quando abbiamo registrato Ladro di fiori: siamo entrati in studio di mattina, siamo usciti alle 4 di notte che nevicava. Bellissimo». Alla fine di canzoni ne hanno messe 12, come si faceva un tempo. Non 18 come usa fare adesso per aumentare la massa di ascolti su Spotify. Cerco di capire se gli hanno fatto pressione per aggiungere altre canzoni. Lui taglia corto: «Io sono dell’idea che se metti più di 10 pezzi rompi i coglioni».

Foto: Bogdan Chilldays Plakov

Ci voleva un provinciale per dare una scossa alla musica italiana persa nelle sue pose, nella ripetizione di schemi usurati, nella mediocre contabilità dei successi. Ci voleva questo pazzo in mutande classe 2003 per ricordarci che a volte bisogna fare tabula rasa delle mode per tirare fuori qualcosa d’interessante e unico. Che se vieni da un luogo piccolo, e non da Roma o da Milano o da un’altra grande città, magari ti perdi gli ultimi trend, ma hai la possibilità di sviluppare un linguaggio tuo, non influenzato dall’esposizione precoce a una scena, allo sguardo e alle aspettative degli altri, alle regole di chi dice di non avere regole. E anche adesso che un po’ ha capito come girano le cose nel music business Blanco è convinto che «bisogna viversela come prima e non farsi influenzare».

Parlandoci risulta chiaro che essere cresciuto in un comune di 3500 abitanti non lontano dalla sponda lombarda del Lago di Garda ne ha formato il carattere. «Calvagese è un posto bellissimo dove ho vissuto un’infanzia devastante», un aggettivo che Blanco usa spesso e sempre in senso positivo. Vive ancora lì, coi genitori. «Quando sei piccolo non ti frega del fatto che ci sono pochi altri bambini. Anzi, quella cosa lì è bella. Io lì ho ancora i miei quattro, cinque amici fidati. Mi trovo da dio. C’è pace e io ho bisogno di tranquillità». Ascoltando il disco non si direbbe uno in cerca di pace. «Più sono tranquillo e più escono canzoni incazzate», replica. E come si diverte un adolescente a Calvagese? «Puoi fare le cose più pazze. Ti puoi piazzare con la tenda dietro al cimitero tanto sai che per due anni non ci passerà nessuno. Puoi accendere un falò per strada e dormirci accanto. Puoi correre nudo nel bosco».

Questa cosa della nudità ha caratterizzato finora l’immagine di Blanco e rischia persino di diventare ingombrante. Nell’iconografia del suo primo anno e mezzo di vita da artista ci sono, per fare due esempi, la posa svestito e sorridente sulla copertina di Notti in bianco o le corse in mutande nel video di Ladro di fiori. Nei video, anche quando canta versioni acustiche delle sue canzoni, con la cuffia in studio, è in mutande. «Non è una cosa studiata, è che vado sempre in giro per casa nudo. E poi in ‘sto periodo in cui hanno tutti il Rolex mi piace l’idea di fare una cosa più naturale». Gli altri si caricano di simboli, lui si spoglia e così quando ha registrato un pezzo per Valentino s’è messo addosso un capo della maison, ma sotto era in intimo. «Perché apprezzo la moda, ma dev’esserci un elemento strano, mi piace la moda marcia». Michelangelo ricorda ridendo che Riccardo si spogliava persino in studio: «Se registrava un pezzo intimista, lo faceva a luci spente, con le lampade al sale e vestito. Ma se era un pezzo punk, per entrare nel mood si metteva in mutande».

Nel giro di un anno questo strano mix di modestia provinciale, irruenza selvaggia, marginalità, valori tradizionali e musicalità sballata è diventato uno dei nomi a cui guardare per capire dove andrà il pop italiano ora che la trap sembra avere esaurito il suo slancio vitale. Blanco è già altrove: «Questo album per me è una cosa passata, sto pensando al disco dopo e a canzoni che mi rappresentano di più. Fra un disco e l’altro però non può passare poco tempo: devi vivere le cose se vuoi essere real». Intanto ha cinque canzoni in classifica e un album che tutti ascolteranno. Eppure deve ancora fare il suo primo vero concerto. «Ma voglio che sia vero, appunto. Non voglio la gente seduta sulle sedie. Voglio vedere la gente che le lancia, quelle sedie».

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