Quando lo raggiungiamo al telefono Mace è in treno, di ritorno dal concertone del Primo Maggio, dove ha portato sul palco un ensemble composto da numerosi artisti tra cui Venerus, Gemitaiz, Joan Thiele e Colapesce. L’idea di fare musica insieme ad altre persone fa da sempre parte del suo modo di essere, «non solo quando la ascolto o la suono live, ma anche in studio», sottolinea. «Per carattere mi annoio molto a fare le cose da solo, mi piace essere un catalizzatore di incontri. È molto più divertente contribuire a costruire una visione collettiva piuttosto che isolarsi. Anche perché, mentre tu ti concentri sul tuo sound, ti godi anche quello degli altri».
Questa dimensione era già emersa durante un altro recente progetto a cui ha partecipato, quello della Blended Orchestra, in cui Lavazza gli ha chiesto di produrre un brano composto (da Vittorio Cosma, peraltro) per essere suonato da strumenti inventati, realizzati in base alle tipicità delle aree rurali in cui Fondazione Lavazza opera. La textile harp, ad esempio, è uno strumento a corde creato con i filati tipici delle donne del Guatemala; il glockenspoon è un metallofono fatto con i cucchiai dei bambini di Calcutta, eccetera eccetera.
Venerdì sera Mace porterà a Torino, sul palco dell’Eurovision Village al parco del Valentino, un dj set ispirato proprio al progetto realizzato con Lavazza e al mood nomade e avido di conoscenza e condivisione che lo ha sempre caratterizzato. «Non avevo mai seguito molto Eurovision prima, perciò sono davvero curioso di scoprirlo quest’anno. Mi era già capitato di sentire alcune delle canzoni che sono uscite dal concorso: mi piacciono particolarmente quelle dei Paesi dell’est, che sono super strane e particolari, come amo io».
Le terre più lontane e meno battute sono da sempre grandi ispirazioni per Mace: come è noto, viaggiare è la sua più grande passione extra-lavorativa. «L’ho capito quando ero ancora molto giovane: ho iniziato fin da ventenne a investire tutti i miei soldi e il mio tempo libero per girare il mondo. Il mio primo viaggio lungo è stato a vent’anni, in Messico (ce ne aveva già parlato qui, nda) e da allora non ho più smesso di esplorare». Musicalmente, spiega, il tentativo è quello di cogliere gli spunti nella maniera più trasversale e indiretta possibile: «Cerco sempre di non incorporare nelle mie canzoni troppi elementi direttamente riconducibili ad altre scene, non mi piace prendere e riproporre pari pari. Mi interessa di più mescolare le influenze. Negli ultimi anni, ad esempio, viaggiare in Africa mi ha sbloccato nell’utilizzo di un certo tipo di ritmi e incastri che prima forse non avrei usato: le nuove scene afro pop nigeriane e ghanesi sono pazzesche. Però, quando ascolti la mia musica, fai fatica ad associarla direttamente a quei territori. È un ascendente quasi impercettibile».
Quando si trova in un club o a un concerto in un altro Paese, spiega Mace, ciò che lo colpisce di più è notare «come si muove e balla la gente, sui ritmi che ascoltano lì. Possiamo farci tutte le pippe mentali che vogliamo sulle diverse sonorità e sul loro senso profondo, ma la musica rimane un’esperienza molto fisica». I movimenti corporei sono per forza influenzati da ciò che ascoltiamo, e ciascuna popolazione e subcultura sviluppa un modo molto peculiare di muoversi. «Ricordo che la prima volta che ho visto un dj set trap, anni e anni prima che arrivasse da noi, mi aveva folgorato: apparentemente non sembrava una roba ballabile, eppure non c’era nessuno che stesse fermo». Una vibrazione ancestrale che cerca di restituire anche nei suoi dj set, ovunque si trovi nel mondo, a Torino o altrove: «Con la mia selecta cerco sempre di creare un flusso personale, che ci conduca in diversi luoghi del mondo fisico e non». Siete avvisati: attivate il teletrasporto.