Nella storia della musica mainstream italiana ci sono state due fasi: pre Sanremo 2019 e post Sanremo 2019. Prima del clamoroso trionfo di Mahmood con Soldi, infatti, nessuno avrebbe scommesso due lire sulla vittoria di un ragazzo italiano praticamente esordiente, dal cognome non propriamente autoctono, dall’immagine non conforme, dalla vocalità ispirata direttamente dalle ultime tendenze americane, che presentava un brano spudoratamente non sanremese e contenente addirittura dei versi in arabo.
Da allora, l’ascesa di Mahmood è stata fulminea: secondo posto all’Eurovision Song Contest dello stesso anno, record per la canzone italiana più ascoltata di sempre su Spotify, un’infinità di certificazioni collezionate, richieste provenienti da tutto il mondo. «Non è che però la mia sia stata un’ascesa davvero fulminea, sia chiaro», sottolinea al telefono, mentre gira l’Italia come una trottola per tutti gli impegni promozionali relativi al suo secondo album, Ghettolimpo. «Ho firmato il contratto discografico con Universal nel 2016, e prima di vincere il Festival ho passato tre anni a scrivere canzoni per altri» (cosa che peraltro fa ancora, e che per lui «è uno sfogo, perché mi sento più libero quando non scrivo per me»). «Ed è la stessa cosa che consiglio anche ai ragazzi che vorrebbero fare musica nella vita: provare, provare, provare, senza mai smettere di crederci».
Certo è che finire catapultati nell’occhio del ciclone dall’oggi al domani, anche se quel ciclone è il tuo sogno, può essere complicato. Soprattutto se all’improvviso, senza preavviso, il ciclone lascia spazio a una bonaccia sotto forma di pandemia mondiale che costringe tutti, te compreso, a chiuderti in casa da un giorno all’altro.
Com’è andata, con questo stop improvviso dopo un anno così frenetico?
Un brivido dietro l’altro (ride). Diciamo che al lockdown non mi sento proprio adatto. All’inizio mi sono riposato, poi ho capito che non riuscivo a scrivere e mi sono preso male. Così, quando ho potuto, sono partito per fare delle session in giro, per chiudere il disco che avevo cominciato a scrivere due anni e mezzo fa. Lo considero un traguardo: ascoltare canzoni che sono nate così tanto tempo fa senza esserne annoiato, ritrovarmici ancora oggi, è una bella vittoria. Direi che rispetto a tanti altri mi è andata bene così. Tutta esperienza, tutta vita.
E arriviamo a Ghettolimpo, che esce oggi.
Amo molto i miti greci fin da quando ero bambino, e in quest’album mi sono divertito a paragonare persone e personaggi alle varie figure leggendarie, ma in maniera personalizzata. Ad esempio, sulla copertina appaio come una sorta di Narciso del 2021, ma se il vero Narciso si piace così tanto che, a furia di specchiarsi nel riflesso di un lago, un giorno si sporge troppo, cade e affoga, il mio percepisce un’immagine distorta, non si riconosce. Guarda nell’acqua e vede una sorta di figura oscura con una coda da scorpione. È così che mi sono sentito dopo Sanremo e Eurovision.
In che senso?
Tornare a casa dalla mia famiglia e dai miei amici è stato un po’ uno shock, sia per me che per loro. Mi guardavano in maniera diversa, non sapevano più bene come rapportarsi a me, perché all’improvviso sembravo diventato qualcos’altro, non il solito Alessandro. Io però non mi sentivo cambiato. Era una cosa che mi spaventava parecchio. Per loro ero Olimpo, dentro di me ero sempre ghetto.
Qual è stata la cosa più difficile che hai dovuto imparare a gestire insieme alla fama?
L’ansia, ma su quella ci devo lavorare ancora tanto. Non è tanto il palcoscenico a causarla – anche a Sanremo ero molto tranquillo, l’unico trauma che ho avuto è stato a Che tempo che fa, quando ho dovuto cantare Inuyasha dopo mesi di reclusione da pandemia – ma piuttosto quegli episodi imprevedibili e spiacevoli che possono capitarti quando fai questo mestiere. Ho sicuramente avuto un po’ di problemi da quel punto di vista, ma conto di imparare a risolverli con il tempo.
Sei notoriamente una persona molto riservata, che non ama finire al centro del gossip: immagino che diventare all’improvviso uno dei personaggi pubblici più in vista sia un bel casino, da questo punto di vista…
Esatto. Ho sempre preferito scindere la dimensione pubblica da quella privata, perché ci tengo molto a preservare i miei rapporti personali, a mantenerli puri. Non voglio metterli in condizione di cambiare.
A renderti ancora più famoso a livello globale è stato anche il secondo posto all’Eurovision. Cos’hai pensato quando quest’anno lo hanno vinto i Måneskin? Avresti voluto esserci tu al loro posto?
Beh, innanzitutto sono contentissimo che abbiano vinto loro, portando un grande orgoglio al nostro Paese: erano i più forti e se lo sono meritato. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, ovviamente tutti vorrebbero vincere, nessuno partecipa a un concorso dicendo «Beh, oggi vorrei proprio arrivare secondo» (ride). Ma è stato comunque bellissimo, mi ha dato la possibilità di fare un tour internazionale e di farmi conoscere anche fuori dall’Italia. E di viaggiare un sacco prima di chiuderci tutti in casa per la pandemia: sono stato fortunato.
Mentre la tua vita cambiava attorno a te trasformandosi in quella di una star, cosa ti ha aiutato a mantenere un equilibrio mentale?
Credo sia stato il lavoro: tra impegni promozionali e tutto il resto, a un certo punto prendevo anche due aerei al giorno. Mi ha aiutato a non pensare.
Un tour de force faticoso, tra l’altro. C’è stato mai un momento in cui ti sei chiesto: ma chi me l’ha fatto fare?
Ma va, anzi. Più c’era da fare e più ero felice. Anche se non ti mentirò, a un certo punto l’unica cosa che desideravo era stare a casa con le persone a me più care. Per quello in Baci dalla Tunisia dico “Voglio solo stare a casa mia / Baci e abbracci dalla Tunisia”. Sentivo proprio il bisogno di starmene un po’ per i fatti miei.
Però, anziché rallentare, hai rincarato la dose: sei noto per essere super coinvolto nel processo creativo dei tuoi progetti, dai video alle grafiche, fino agli abiti che indossi…
Beh, è normale: se faccio un video di merda e poi lo riguardo, mi viene da piangere (ride). Mi piace fare le cose a modo mio, mettere molto di me in ogni cosa. Magari prima o poi farò solo un lavoro di sintesi su tutti questi aspetti, perché effettivamente lavorare a ogni dettaglio è molto faticoso, ma per il momento mi diverte e non è un peso.
Per Ghettolimpo hai lavorato con lo stesso team con cui storicamente collabori, ovvero Dardust, Katoo e MUUT. Avresti potuto rivolgerti a un produttore internazionale di grido, e invece hai preferito tenerti vicini i tuoi. Come mai?
Non ho conosciuto ancora nessun produttore che mi abbia illuminato a tal punto da abbandonare i miei. Sicuramente prima o poi mi aprirò ad altre collaborazioni, ma al momento mi stimola ancora molto lavorare con loro, per cui non vedo perché cambiare. Oltretutto, di fatto li reputo a tutti gli effetti dei produttori internazionali, anche se sono italiani.
Squadra che vince non si cambia, però hai cercato di spostare l’asticella un po’ più in alto, senza ripetere formule già sentite. In quest’album non c’è un’altra Soldi, ad esempio…
Eh no, stavolta non mi è uscita. Quando scrivo non penso mai a cosa dovrebbe esserci, in un disco: mi metto lì e poi le canzoni saltano fuori un po’ a sorpresa. Stavolta è saltato fuori questo. Non so che dirvi, raga: lo so che sarà un po’ più complesso di Gioventù bruciata da digerire, ma non posso farci niente (ride). Però, scherzi a parte, ne sono molto orgoglioso, perché racconta bene i sentimenti che provo. È stata una specie di autoanalisi. Mentre Gioventù bruciata è molto legato al passato, Ghettolimpo parla del presente, e mi è servito molto. C’è stata una grande ricerca, una grande voglia di mettersi in gioco.
Ad esempio?
Mi ha aiutato a capire cosa volevo raccontare, se volevo davvero espormi così tanto. Me ne accorgo quando devo fare ascoltare una canzone ad altre persone e mi rendo conto che un po’ mi vergogno: vuol dire che è un testo davvero personale, che racchiude qualcosa che non ho mai raccontato a nessuno e che è la prima volta che dico. In T’amo mi sono aperto tantissimo.
Un brano da lacrimoni, in cui hai in parte reinterpretato No potho reposare, una specie di ninna nanna in sardo che tua mamma ti cantava da piccolo…
È la prima volta che scrivo una canzone per lei, e quando gliel’ho fatta sentire ha pianto. Anche il fatto di aver incluso il coro femminile sardo di Orosei, il paese di mia mamma, in cui canta anche mia cugina Antonellina, è particolarmente significativo. Quando ci siamo trovati a Olbia in studio per registrarla è stata davvero una bellissima esperienza umana, per me. È un ensemble pazzesco, che include donne di tutte le età, dalle bambine alle signore. La stavano provando da sei mesi con l’insegnante: non avendo mai cantato su un beat o con un click, era un esperimento nuovissimo anche per loro.
Avevi già scritto un brano per tuo padre, invece, che è stato poi quello che ti ha portato al successo: Soldi. Da lui avevi avuto qualche reazione?
In realtà non è che mio padre sia mai sparito del tutto, lo sento ancora – molto raramente, ma tutti gli anni. Sì, ovviamente qualche reazione alla canzone l’ha avuta, ma la cosa è finita lì, diciamo.
Cambiando argomento, in una tua recente intervista a Vanity Fair hai detto che ancora oggi hai paura di essere attaccato perché frainteso. Cosa intendevi?
È capitato che la stampa riportasse male quello che dicevo, e che mi fraintendessero. L’hating mi spaventa, e durante il lockdown ho l’impressione che sia aumentato ancora di più. Di conseguenza cerco sempre di non dire la mia, anche quando non approvo certe affermazioni, perché al giorno d’oggi ci sono tantissime sfumature da considerare, e non penso di essere nessuno per giudicare qualcun altro. Tutti abbiamo il nostro percorso, chi più e chi meno facile, e io sono della scuola di pensiero “vivi e lascia vivere”. Credo che gli artisti debbano parlare solo se hanno qualcosa di importante da dire, e rivelare la maggior parte di sé nelle loro canzoni, più che nelle dichiarazioni.
Faccio un attimo l’avvocato del diavolo: non trovi però che questo sarebbe un mondo migliore se tutti noi (artisti e non) prendessimo posizione contro le ingiustizie e le storture della società?
Certo, assolutamente, ma se io prendessi una posizione, probabilmente qualcuno risponderebbe «lo fai perché sei un privilegiato e puoi contare su una piattaforma di gente che ti ascolta». Detto ciò, ognuno di noi ha il suo pensiero e dovrebbe senz’altro prendere posizione per le cause in cui crede. Però io sono una persona che vive alla luce del sole, non ho bisogno di fare grandi affermazioni o dimostrazioni. Non mi piace autocelebrarmi o dichiararmi questo o quello. Mi reputo una persona abbastanza semplice, al di là del fatto che faccio musica. Non ritengo che per me sia obbligatorio fare grandi affermazioni politiche o sociali.
Sempre nell’intervista a Vanity Fair, però, ti schieri apertamente a favore del ddl Zan, tanto che anche in un post che hai pubblicato su Instagram hai ripreso quella dichiarazione nello specifico: «L’approvazione del Ddl Zan credo sia il minimo che ci debbano, che debbano a tutti. Una tutela che ha un motivo, non ce lo stiamo inventando»…
Perché come dicevamo, se qualcuno ha qualcosa da dire e ci crede tanto, deve esporsi. E per me è importante che il ddl Zan venga approvato. Ogni cittadino deve sentirsi al sicuro, e non è possibile che se due ragazzi si baciano in metropolitana debbano rischiare di essere aggrediti senza che i colpevoli subiscano le giuste conseguenze. Credo sia un diritto umano essere tutelati dall’odio, soprattutto in un Paese come l’Italia, in cui problemi come razzismo o omofobia non sono ancora stati risolti del tutto.
Ci sono altri argomenti su cui ti esporresti in prima persona?
Quando sarà il momento lo farò.
Chiudiamo su una nota buffa: cos’hai pensato quando hai visto il video di Nanni Moretti che canta Soldi?
Ne sono stato felicissimo: Nanni Moretti è un genio.