Maiole è un musicista atipico nella nuova generazione di musicisti elettronici italiani. Ama Battisti, ha studiato musica classica, scrive le sue canzoni sullo spartito e le suona in studio come se fosse «un album rock». Il suo ultimo lavoro Music For Europe ha ambizioni europeiste, è una specie di critica musicale contro gli Euroscettici. O meglio, ha uno spirito di base che vuole unificare territori diversi, come d’altra parte vorrebbe fare ogni buon studente di economia che si rispetti.
Come è nato questo album e come è cambiato il tuo approccio?
Sicuramente c’è stata una crescita artistica. Oggi tutti sono disposti a pubblicare tutto e rischi di venire risucchiato in un vortice di piccole etichette. Rispetto a quello che ho creato prima, questo è un lavoro più ragionato: è il mio primo vero album ufficiale. Ho la stessa attitudine di prima, scrivo musica sul pentagramma, faccio una palette di suoni che funzioni per me e vado a registrare. Come se fosse un album rock, non smanetto con i synth.
È un approccio più classico…
A volte sperimento e smanetto con i synth, ma seguo sempre un processo produttivo più classico, quello dei “dischi grossi”. Oggi il sound design si mescola con la produzione e con il mastering, è tutto insieme.
Riusciresti a fare musica senza internet?
Credo che se non ci fosse stato internet non avrei fatto quello che sto facendo. Nonostante io abbia un approccio molto fisico, non stampo i dischi, proprio perché io stesso non ne compro. Mi piacerebbe approfondire ma solo per offrire qualcosa di più, di dare una dimensione aggiuntiva.
Come mai Music For Europe?
È un concept album con al centro l’Europa. È un ragionamento semplice ma che non vedo spesso nella musica italiana: spesso i dischi elettronici sono basati su campionamenti, su musica etnica, non sulla melodia e l’armonia, che invece sono tradizioni italiane da anni. Anzi, sono tradizione europee, diciamo da Bach in poi almeno. Non so quanti produttori scrivano il brano prima di registrarlo, ad esempio. Ecco, questa visione secondo me è molto europea. Ha un approccio lontano dalle produzioni che trovo interessanti ma più banali. In più ho girato tanto per l’Europa, faccio parte della generazione Erasmus e Ryanair che si sta scontrando con un sentimento antieuropeista dilagante. Penso che rispetto a 15 anni fa ci sia un nazionalismo più presente. Il mio modo di scrivere la musica è una lettera d’amore, per quanto io non abbia mai esplicitato questo amore. Non è scontato.
Vedi la musica come collante quindi.
In America non è così raro trovare musicisti uniti in una cultura, che sia quella black, che sia quella LGBTQ. Qui in Europa non c’è un’identità del genere e mi sembra la cosa più naturale del mondo.
Hai vissuto in tante città diverse, quanto c’è di questi posti nel tuo disco?
L’ultimo brano l’ho scritto sul pianoforte dell’aeroporto di Bruxelles e l’ho finito in studio a Bologna. Abbiamo una grande ricchezza che è quella delle piazze, quindi ci sono molte registrazioni ambientali per riprodurre il loro suono: in generale mi è piaciuto riportare gli ambienti in cui ho vissuto. In questo caso, anche Santa Maria, la canzone dedicata al mio paese di origine, ha un risvolto più classico, più legato alla tradizione mediterranea.
Quanto i tuoi studi universitari hanno influenzato Music For Europe?
Ho sempre vissuto l’università come un hobby rispetto alla musica, ma la Facoltà di economia ti apre gli orizzonti, passi dal diritto alla matematica. Ed è abbastanza logico che uno studente di economia faccia un album sull’Europa.
Quali sono gli artisti che ascolti di più ora?
Ascolto tantissimo Battisti, è uno che ha fatto un discorso simile al mio, negli anni ’70, ha aperto gli orizzonti. Mi piacciono anche Siriusmo e l’elettronica francese.
In tanti stanno riprendendo Battisti nella musica italiana di oggi.
Credo sia per un motivo semplice, non era un cantautore classico. È come se avesse avuto Ableton, scriveva in modo attuale, come fanno i rapper di oggi. Partiva da un’idea musicale e costruiva sopra un pezzo.