Mancano poco più di tre ore all’inizio del concerto dei Mannequin Pussy al Brooklyn Steel di fronte a un pubblico quasi da sold out. Attorno all’isolato si è già formata una lunga fila di fan in attesa dell’apertura delle porte e i quattro musicisti non riescono a concentrarsi su molto altro, a parte il loro desiderio disperato di riposarsi almeno un po’.
Hanno passato l’ultimo mese chiusi in un Ford Transit, facendosi 8400 chilometri e suonando in pratica tutte le sere. Ora si abbandonano sul divanetto del camerino, circondati da mucchi di bagagli, tazze di caffè, una stecca di Marlboro e una triste vaschetta di salame confezionato. Sono qui per parlare del loro nuovo album I Got Heaven (che uscirà il 1° marzo), con cui introducono i synth nel loro suono, pur rimanendo saldamente legati alle loro radici punk. Colins “Bear” Regisford, bassiata 37enne, non è granché loquace, ma sembra anzi mezzo addormentato.
«L’itinerario di questo tour non è certo stato pensato nel rispetto della nostra salute», dice Marisa Dabice, 36 anni, co-fondatrice e cantante. «Stiamo arrivando al limite estremo di ciò che siamo in grado di fare».
Tutto cambia quando iniziano a suonare e l’adrenalina comincia a pompare. Il corpo di Regisford pulsa di energia e Dabice tiene il palco come un incrocio selvaggio fra Patti Smith e Iggy Pop, cantando pezzi dolorosamente personali come Perfect (“Baciami tutti gli orifizi / Chiamami puttana”). È il tipo di esibizione che, negli ultimi anni, ha regalato al gruppo un seguito fedelissimo in tutti gli Stati Uniti e ha suscitato interesse da parte della stampa musicale.
Un successo del genere avrebbe garantito loro un po’ di grana, se solo i Mannequin Pussy fossero stati un gruppo rock degli anni ’90. Nel 2023 le cose sono diverse. Dabice va in giro per la sua città d’adozione, Philadelphia, con una Saturn del 2001 che sembra tenuta insieme con lo scotch. Fino a poco tempo fa, la batterista Kaleen Reading, 31 anni, guadagnava 15 dollari all’ora come guardia giurata e ora sbarca il lunario dando lezioni di batteria e insegnando alla School of Rock. Regisford e la chitarrista Maxine Steen, 33 anni, fanno i traslocatori a Philadelphia quando la band non è in tour.
Per Steen, che è trans e tramite GoFundMe sta cercando di raccogliere il denaro necessario per un intervento chirurgico, è una vita estenuante e a volte umiliante. «Sono una tipa blue collar», dice. «Ma per una persona trans è dura lavorare come traslocatrice. Mi becco un sacco di insulti anche solo camminando per strada. Le persone trans vengono ridicolizzate, derise, guardate di continuo. Succede ogni giorno. E fa schifo se intanto devi trasportare il comò o il divano di qualcuno su per una rampa di scale». Per quanto possa essere difficile, però, lei punta tutto sulla band. «Non mi sono messa a fare musica per soldi. L’ho fatto perché volevo suonare. È quel che mi tiene in vita».
Dabice lo sa fin troppo bene. Lei, figlia della classe media cresciuta nella ricca enclave di Westport, Connecticut, si è sempre sentita un’outsider. «Mi prendevano in giro per come mi vestivo», racconta quando ci incontriamo in un caffè vegano nel quartiere Queen Village di Philadelphia, circa due settimane prima dell’inizio del tour. «Sei piccola e già ti dicono che sei una sfigata». Ogni cosa è cambiata quando, a 13 anni, ha visto i Piebald, una band hardcore del Massachusetts, aprire per i Jimmy Eat World. È stato il suo primo contatto con un mondo parallelo che esisteva fuori dai canoni di MTV o delle stazioni radio. «Mi è sembrato un ambiente sicuro, dove potevo essere me stessa, vestirmi come volevo e stare con altre persone entusiaste della musica quanto me».
Mentre parliamo della sua storia e della nascita della band, Dabice sorseggia un tè e sgranocchia un muffin alla mela e cannella. Un paio di giovani sedute a un tavolo vicino non possono fare a meno di ascoltare e dopo poco una di loro chiede di parlare con lei. «Mi spiace interromperla», dice. «Mi piace molto come parla della musica nella sua vita. Come si chiama la sua band?». Dabice si china verso di lei e glielo dice. «Ho già sentito parlare di voi. Che figata!».
Dabice ha un ricordo confuso della sua adolescenza. Nel periodo in cui stava pensando di fondare una band con gli amici le è stata diagnosticata una rara forma di cancro ai tessuti molli. «Credo che mi abbia cambiato la vita. Siccome magari non mi rimaneva più molto da vivere, decisi di fare quello che volevo della mia vita, senza scendere a compromessi».
È poi guarita dal cancro, ma non ha mai cambiato filosifia di vita durante il periodo trascorso all’Università del Colorado, negli anni difficili in cui si è inserita nella scena punk underground di Boulder («Eravamo in 15, tipo») e in un periodo di crisi, all’inizio dei 20 anni, quando si è trasferita di nuovo nel Connecticut per prendersi cura della madre colpita da ictus.
Verso il 2010, ha formato i Mannequin Pussy con il chitarrista Athanasios Paul. Il nome l’ha preso da uno scherzo fattole da un amico, a Boulder. Hanno iniziato a esibirsi nei bar di Brooklyn come duo. Reading (che per anni ha suonato nelle tribute band metal tutte al femminile Judas Priestess e Miss-Tallica) è entrata come batterista nel 2015. «A quel punto ci siamo detti: perché mai essere un trio senza basso? Sarebbe stupido. Così abbiamo lanciato un appello su Facebook per trovare un bassista. Bear è stato il primo a rispondere».
Tiny Engines, una piccola etichetta della Carolina del Nord, li ha messi sotto contratto nel 2016 e ha dato loro il denaro sufficiente per registrare Romantic, l’album della svolta. «È stato emozionante», racconta Dabice.
Non avendo budget per i tour, serigrafavano le magliette che trovavano nei negozi dell’usato per creare il loro merchandising e alloggiavano nei motel più economici. «Prendevamo una camera singola e buttavamo dei materassini da campeggio sul pavimento», racconta Reading. «Una notte mi sono svegliata e ho notato che Bear stava dormendo a bordo del furgone. Aveva visto che il pavimento era pieno di scarafaggi. Non è stato bello sentirselo dire, visto che era lì che avevo dormito fino a quel momento».
In quel periodo, Dabice ha affrontato due separazioni che l’hanno devastata a livello emotivo. Una delle due relazioni era violenta. «Era tossica», racconta, «mai avrei pensato di essere il tipo di persona che finisce invischiata in una storia del genere. È stato difficile riuscire a fidarsi di nuovo degli altri, dopo».
Ha riversato rabbia e dolore in canzoni come Fear/+/Desire (“Quando mi colpisci / Non sembra proprio un bacio”) e High Horse (“Mentre mi spingi contro il lavandino della cucina / Sento il tuo fiato su di me, ne sento il sapore sui denti”). Quei pezzi sono diventati il nucleo emotivo del terzo album dei Mannequin Pussy, Patience del 2019. Non li suona più volentieri. «Non le facciamo più», dice con serenità, dopo che ci siamo sostati dalla caffetteria a una panchina di un parco lì vicino. «Però ho imparato che questi sentimenti te li porti dentro e se non trovi un modo per trasformarli in qualcosa d’altro, ti avvelenano».
Una canzone di Patience che fanno quasi in tutti i concerti è Drunk II, che parla di un’altra relazione finita male. Quando la suonano, tutti urlano versi come “Ti amo ancora, cretino del cazzo!”, ma pochi sanno che alcune parti del testo si addentrano in zone ancora più profonde e delicate della psiche di Dabice: “E tutti mi dicono: Missy, sei così forte / Ma se non volessi esserlo?”. «Parla di cosa significhi essere un bambino con il cancro», spiega lei. «La gente ti ripete: “Sei una persona forte”. È l’unica cosa che un adulto sa dire, in quella situazione. Per tutta la vita la gente mi ha detto che ero fortissima, ma in realtà dentro stavo crollando».
Pubblicato da Epitaph e prodotto da Will Yip, colonna portante del punk e dell’emo, Patience è decollato lentamente mentre la band andava in giro senza sosta. Alla fine del 2019, il disco era cresciuto grazie al passaparola. «Pensavo di essere il più grande fan dei Mannequin Pussy, al punto da temere di averli persino un po’ sopravvalutati», ha scritto Rob Sheffield di Rolling Stone quando ha messo Patience come il suo terzo disco preferito di quell’anno, dietro a Taylor Swift e Lana Del Rey. «Ma alla fine è uscito fuori che per tutto questo tempo li avevo esageratamente sottovalutati».
All’inizio del 2020, la band era stata chiamata a suonare al Coachella insieme ai Rage Against the Machine e a Travis Scott (era citata nella penultima riga del cartellone del sabato, a caratteri minuscoli, ma comunque c’era). Poi è arrivato il Covid e lo slancio si è perso. Durante la pausa di più un anno che è seguita, Paul (l’unico membro fisso della band fin dal primo giorno, oltre a Dabice) ha lasciato i Mannequin Pussy. «Voleva sposarsi, avere un figlio, fare qualcosa di diverso nella vita», racconta Dabice. «La cosa non mi ha sorpresa».
È stato sostituito da Steen, personaggio chiave della scena musicale underground di Philadelphia. «Ha portato una nuova dinamica nella band perché viene dal mondo dei synth», spiega Reading. «Adesso siamo una band nuova di pacca».
Il gruppo ha inciso I Got Heaven all’inizio di quest’anno, a Los Angeles, col produttore John Congleton (St. Vincent, Sleater-Kinney). Il lungo intervallo tra un album e l’altro implica che Dabice si trovava in situazioni molto diverse quando ha scritto i testi. «Patience era il disco di una persona col cuore spezzato», dice. «I Got Heaven rappresenta la voglia di qualcosa di nuovo ed eccitante. C’è una sensazione diffusa di desiderio e di eccitazione».
È impossibile non percepirlo nella ballad Split Me Open, in cui Dabice canta: “Aprimi in due / Versa il tuo amore dentro di me / Il mio corpo è un tempio / È stato costruito per te / Per fare tutte le cose che hai sognato di fare”. «L’abbiamo scritta nel bel mezzo del nulla, in New Hampshire, dopo esserci calati degli acidi», ricorda Steen. «Eravamo euforici».
Sempre nel nuovo album c’è Loud Bark, una canzone nel vecchio stile dei Mannequin Pussy che cresce fino a giungere a un climax urlato. È destinata a spaccare, in concerto. «Ricordo di aver sentito il riff di Maxine» dice Dabice «e ho subito capito esattamente cosa volevo farci».
Dabice racconta di essersi trovata di fronte a una nuova sfida, non molto tempo fa: due importanti aziende tech avevano bloccato i termini di ricerca che includono la parola “pussy”, come quella nel nome della sua band. «Mi duole dirlo, ma la combinazione di pregiudizi, censura e big tech sarà il colpo di grazia per noi», ha twittato in primavera. «È una lotta impari e io sono stanca».
Ora sembra più ottimista, ma non per questo meno frustrata per i due pesi e due misure adottati. «Se chiedi ad Alexa di riprodurre i Mannequin Pussy, non lo fa. Su TikTok, se si cerca la nostra musica non esce nulla, ma se si digita “Mannequin Dick”, vengono fuori i nostri pezzi. È lo specchio del punto a cui siamo arrivati: è come se essere donna equivalesse a essere volgare. È questa la roba con cui ci tocca confrontarci».
Dopo la segnalazione del problema, l’etichetta della band ha contattato Amazon e TikTok per chiedere di correggere gli algoritmi. «Per fortuna siamo su Epitaph. Pensavamo che il mondo sarebbe diventato meno puritano, è successo il contrario».
Al Brooklyn Steel, la band suona tre nuove canzoni che infiammano il locale. I fan sotto al palco avranno in media una ventina d’anni. Mentre li guardo non posso fare a meno di pensare a musicisti avanti con l’età come Gene Simmons che dicono che «il rock è morto». Forse non sarà visibilissimo, forse le rock band emergenti non faranno mai i soldi che i Kiss hanno portato a casa nel periodo di massimo splendore, ma artisti come i Mannequin Pussy dimostrano che ci sono idee nuove e vitali in circolazione.
In camerino, prima dello show, parlo alla band della teoria di Simmons e la cosa risveglia Regisford dal torpore: «Non ascolto quello che hanno da dire le mummie. Anzi dico: chiudete la bocca!».
«Non facciamo questi concerti davanti a sessantenni», dice Dabice. «Spesso suoniamo per ragazzini di 15 anni che hanno appena scoperto il rock. Non credo che il barometro del rock siano le copertine di Rolling Stone o la parte alta delle classifiche di Spotify. È a concerti di questo tipo che la gente sperimenta una catarsi collettiva. È una cosa viva».
Da Rolling Stone US.