Manuel Agnelli, il rock, l’alternativo rimasto tale anche quando si è mischiato con il nazional-popolare, plasmandolo a suo piacimento. L’uomo che è affamato di esordi e rivoluzioni, uno che con gli Afterhours ha conquistato l’Italia, l’America, è andato a Sanremo. Uno che a 50 anni è diventato un’icona televisiva, uno che alla Scala non è andato per far passerella, ma per conquistarla da artista, uno che fa un pezzo per Diabolik, La profondità degli abissi, capendo in un attimo cos’è il cinema e quel film, che tanti non hanno compreso, e vincendo un David di Donatello e un Nastro d’Argento. Eppure.
Eppure quando si esibisce, quando gli parli, quando ascolti i suoi pezzi, senti l’inquietudine costante, la passione inesauribile, la voglia di stupire e ancora di più di stupirsi, la necessità di andare oltre e altrove. E Ama il prossimo tuo come te stesso è (anche) questo: la carta d’identità di un esordiente di 56 anni. E non parliamo solo della prima esperienza da solista, ma di qualcosa di più. Lo sentirete anche voi nel mini tour che attraverserà l’Italia da sud a nord (il 3 e 4 dicembre sarà a Bari e Napoli, il 17 chiuderà a Senigallia).
L’album ha un’identità precisa, fatta di sperimentazione musicale e di testi forti.
Ho lavotato senza progetto ed è questa la forza e la fortuna di Ama il prossimo tuo come te stesso. Il progetto era buttarsi senza rete di salvataggio. Con l’entusiasmo sprigionato dall’energia diversa nel fare il disco, dalla scelta dei musicisti per i live. Volevo qualcosa di mio, ma differente. Rifare gli Afterhours non aveva senso musicalmente ed emotivamente, né in studio né sul palco.
Sentendo il disco hai l’impressione di qualcosa di improvviso, potente, immediato. Ma allo stesso tempo anche di tutto quello che ci siamo persi, tutti i dischi che potevi fare da solo e non hai fatto. Quando nasce questo lavoro?
Un paio d’anni fa. Ho cominciato a pensarci con la pandemia, avevo l’idea di fare qualcosa da solo, concretizzatasi con La profondità degli abissi. Certo, c’è stato anche il tour a teatro con Rodrigo D’Erasmo, ma con pezzi degli Afterhours e cover, non era la stessa cosa. Con i pezzi per la colonna sonora di Diabolik ho rotto il ghiaccio, li ho eseguiti con altri musicisti, ma componendoli da solo. Però hai ragione, la tua percezione non è lontana dalla realtà, perché la pandemia mi ha dato tempi lunghissimi. Ero solo, inventavo le soluzioni musicali e i testi a casa, sono tornato ai tempi che avevo da ragazzino, quando non c’erano le scadenze né di produzione né di promozione, quando la musica era tutto e davanti a te non c’era tensione, aspettative, la voglia di vederti cadere. Questo disco mi ha fatto riconquistare dei caratteri e dei particolari che mi mancavano, che non ho mai dimenticato ma che non erano facili da recuperare.
Il pianoforte che sentiamo in diversi pezzi dell’album, a volte rock, a volte melodico, altre elettrico e distorto, è quello di casa tua?
Sì, anche se poi ne ho usati anche altri due in studio. Questo è elettrificato e lavora benissimo sulle medie, avendo molta presenza sulle frequenze basse. Le piattaforme delle canzoni degli After sono sempre nate qui a casa mia, ma ho sempre rifiutato di farmi lo studio casalingo. L’ho scoperta ora la possibilità di costruire molto della struttura di pezzi e album qui, perché se hai una band non puoi andare troppo avanti da solo, rischi di esautorare gli altri e di portare un lavoro già finito, anche perché gli altri musicisti hanno una personalità sonora e artistica che già rappresenta un obbligo di partenza. Quando abbiamo messo su lo studio nostro, poi incendiato – satanicamente – questa cosa mi ha tolto un po’ di regole che mi ero dato. E infatti dal 2011, da Padania, registravo sempre da solo le voci a casa, in studio hai sempre troppo poco tempo per farlo. Paradossalmente le voci nei lavori degli After sono state sempre le cose meno curate. Qui invece le ho usate come uno strumento, le ho modellate, ci ho lavorato molto. Queste quattro mura mi hanno aiutato molto e il lockdown, anche se per altri versi come tutti l’ho sofferto molto, mi è venuto in soccorso, almeno artisticamente.
Come hai gestito questo tempo e questa libertà?
Il tempo è stato fondamentale per darmi la leggerezza nell’affrontare quest’avventura, l’ennesimo cambiamento artistico e creativo in direzione ostinata e contraria: dal lasciare X Factor al massimo della notorietà fino a costruirmi un nuovo percorso fatto di sonorità e testi altri. Nello scriverli ho volutamente cercato di non rielaborarli troppo, di non lavorare ossessivamente sulla struttura, mi sono affidato all’istinto senza troppe pippe. Volevo rimanessero fresche queste canzoni, che mantenessero una loro spudoratezza. Scrivere è il momento più emozionante per me e non volevo coprirlo, limitarlo, stemperarlo. E quella naturalezza e istintualità si deve anche ai tempi avuti, con l’artigianalità poi ho sistemato giusto qualcosa, ma il meno possibile.
La mia preferita è Severodonetsk. La tua?
Severodonetsk è l’ultimo brano che ho composto (è una città ucraina, il pezzo ha tanti piani di lettura, molti ovviamente legati anche all’attualità, nda) ed è arrivato anche per riappropriarmi di me stesso, dei miei suoni chitarristici. Proci usa il pianoforte in tutte le maniere che volevo, è lì, protagonista, qui e in Guerra e popcorn il piano è complementare e allo stesso tempo fondamentale. Volevo anche le chitarre belle presenti, ma in una band con due chitarristi e un violinista elettrico io, con l’acustica, devo sparire. Gli altri si godevano riff e noise, ma la verità è che in studio li facevo anche io. Quello è anche il lavoro di squadra, sul palco rinunci a qualcosa di tuo per ridistribuirlo agli altri. Sugli After da anni c’è un equivoco: Manuel Agnelli scrive le canzoni, tutti gli altri si curano della sperimentazione e della parte sonora. Ma non è vero. Qui invece ho potuto raccontare tutto me stesso. Poi dal vivo redistribuiremo i ruoli anche in questo, è ovvio. In Proci, il testo a cui sono più legato, uso il piano come mai prima d’ora, e come quasi nessuno ha fatto prima, aggiungerei, e poi nei concerti lo divido con Beatrice Antolini. Ci sono ricascato. Non a caso anche dal vivo abbiamo scherzato sul litigarci lo strumento e la partitura musicale. Per questo mio disco mi avrebbe fatto soffrire che non si capisse, non si sentisse che era roba mia. Anche in questo mi sento tornato agli inizi, sento tornata anche quell’adolescenziale senso di appartenenza, quello che ti fa fare la tua musica.
Ti mancava questa vertigine, questa voglia di spaccare tutto. Mi sa che è per questo che hai lasciato la gallina dalle uova d’oro.
La musica è tornata a essere sacra.
Per questo c’è tanto di te anche nei testi?
Non era progettuale la cosa. Tutti i dischi sono un po’ così, cerchi di raccontarti, ma qui di più. Sono felicissimo di aver costruito questo disco con tante anime, un po’ Aznavour, un po’ musica rinascimentale, e poi l’alternative, la sperimentazione. Non ho avuto pudore a mettere dentro tutto ciò che volevo, francamente credo di potermelo permettere. Sono andato lontano da tutto, ma su scrittura e timbriche e tutto il resto si sente che sono io. E questa cosa mi piace.
Però dai, un Manuel Agnelli così incazzato in un disco non me lo ricordo.
Non è incazzatura, è abbandono, è non essere ossessionati dal farsi accettare, dalla ricerca della frase giusta. Non è rabbia, è urgenza. Non volevo alcuna mediazione, neanche dall’età. Un uomo di 56 anni non dovrebbe farsi ferire, dovrebbe controllarsi, invece abbandonarti ti permette di non inaridirti. Una delle cose migliori che mi hanno dato questi ultimi anni è che sono più attento a non farmi cogliere da una siccità emotiva e creativa e umana. Famiglia compresa, non accetto più di farmi risucchiare dal lavoro e trascurare loro e quindi me stesso. E la pandemia anche su questo ha giocato, togliendomi dalla frenesia, o facendomi accorgere che esisteva, nella mia vita. Prima ero vittima passiva di questo meccanismo, ora concedo dei periodi alla mia esistenza in cui fare altro, in cui chiudere tutto fuori. E quando non ci riesco, ora riconosco la gabbia, non faccio finta che non ci sia. Non voglio più mediare, non fa per me.
Tra le gabbie c’era anche la vita precedente e la band?
Ma certo, uno dei vantaggi di questa situazione è la libertà. Le band sono fondamentali quando sei ragazzo per confrontarti e crescere, ma da adulto diventano progetti, anche belli, creativi e funzionali, ma possono ingabbiarti. Qui vivo una serie di prime volte, posso ricostruire lo stupore.
Ti ho visto a Villa Ada quest’estate. Volevo informarti che hai una band della madonna. Di nuovo.
Ti viene naturale cercare chi ha più energia. Ma qui non c’è pericolo di abitudine, c’è un entusiasmo reciproco, non siamo una band, non abbiamo l’obbligo di rimanere. Ci scegliamo ogni volta, è un’impostazione radicalmente diversa. Poi va detto che i Little Pieces of Marmelade hanno un’altra energia interiore, una violenza emotiva che peraltro hanno solo sul palco, fuori sono dolcissimi. E mi ricordano le persone con cui suonavo tanti anni fa, e non ce l’hanno in molti quel talento, quel fuoco sacro. Qui non devo trainare, non di rado mi ritrovo a essere trainato. Sul disco è diverso, ovviamente, da qualche parte – vedi la batteria – sono intervenuti, ma in post produzione, è tutto un altro discorso.
C’è stato un momento in cui questo inaridimento non è stato solo un rischio, ma una realtà?
Il rischio di inaridimento c’è stato, spesso, ricordo i tempi di Quello che non c’è, quella canzone è una risposta a quelle sensazioni, anche negative, che non mi, ci abbandonavano. I cambiamenti ci hanno sconvolto e hanno rischiato di spiazzarci e spezzarci. In questo caso i compagni di strada sono fondamentali e non sempre è stato facile. Gli After hanno musicisti fantastici, supercreativi e talentuosi, e anche per questo è facile fare le cose, è una macchina oliata, pure troppo. Non volevo diventare un progetto, una macchinetta. Non l’ho mai voluto. Lo ripeto da sempre, non ho fatto musica per fare quello che volevo nella musica, ma per farlo nella vita. I meccanismi di abitudine sono troppo pericolosi, li ho sempre respinti, sono sempre fuggito dalla routine. Poi, oh, anche basta tutto questo stupore: negli After tutti hanno fatto i solisti e solo io non lo dovevo fare?
Mi stai dicendo che il successo è un veleno?
Il successo gestito bene ha un sacco di vantaggi, hai anche più mezzi. Magari per mettere su una realtà come Germi, un luogo dove facciamo cose bellissime e senza la fama sarebbe stato difficile poter incidere sulla città e sul panorama musicale. E poi grazie al successo la gente ti ascolta. Ti dà una responsabilità e un’opportunità: spingere sempre al massimo, che non è scontato. Spesso quando non hai riscontri, molli. La routine però prescinde dal successo, penso a quei gruppi hardcore che fanno 100 date all’anno, non hanno sfondato ma hanno ormai ingranaggi consolidati e sempre uguali. Alla fine ti esaurisci, sei quello che fai e niente di più. Devi sempre vivere la musica, l’arte, quest’avventura meravigliosa con la poesia necessaria oppure la routine ti ucciderà.
Quest’ultima frase è anche la risposta a perché hai lasciato X Factor?
Fare tv, usarla è stato fondamentale per avere misure diverse nel comunicare le cose. Io ho cercato ma anche subìto la violenza di un talent così seguito, così difficile, mi ha fatto provare emozioni enormi e diverse, positive e negative, e tutto questo a 50 anni. Uno scossone così a chi capita dopo i 30 anni? Mi ha dato un ruolo importante, parallelo ma fuori da un circuito terribilmente autoreferenziale. Mi è servito per abbandonarlo, per affrancarmi da quel mondo dell’alternative in Italia, asfittico e inaridito e spesso ormai hobbystico.
A un certo punto sembrava essere diventata una trappola, quel talent. Ti succhiava l’anima inchiodandoti al ruolo di ultimo dei mohicani del rock, l’unico che poteva salvare la musica in Italia.
Gli italiani cercano sempre l’uomo solo al comando, il salvatore, posso fare informazione ma non può e non deve passare tutto da me.
Una risposta che può valere pure per il post 25 settembre dell’Italia.
Gli italiani sempre quello cercano, sì.
Comunque continui a farlo fuori dalla tv, il talent scout e lo sperimentatore.
A Germi come al Castello Sforzesco in cui abbiamo provato quell’esperimento folle e bellissimo del concerto collettivo, tre ore con Marco Parente, i Bachi da Petra, Brunori Sas, i Bengala Fire, anche loro scoperti a X Factor, un live senza soluzione di continuità, mi sono sentito di nuovo vicino alle sensazioni che ci dava solo il Tora! Tora! (il festival itinerante che dal 2001 al 2005 ha riunito il meglio della scena alternative italiana, nda).
Tornando a Severodonetsk, a risentirlo è un pezzo che parla di te, di tutte le scelte che potevi fare e di come hai preferito la passione e la verità alla convenienza.
Mai scelta la convenienza. Quella è anche una canzone sul fatto che puoi capire tutto, puoi spiegarlo ma non necessariamente lo devi giustificare e accettare. Ho sentito parlare troppo di geopolitica ma poco di vite umane. Volevo rivendicare che in quel teatro di guerra ci sono delle persone, ma poi ci ho messo anche me stesso, hai ragione, mi hai beccato. Ci sono cose che mi riguardano in modo molto dettagliato. Questo disco è quasi una sceneggiatura, devi assaporarne tutte le sfumature. Io per primo.
Questo disco per me è molto femmina. Non solo perché si parla molto di donne, ma perché a volte ho l’impressione che mentre lo suoni e lo canti davanti a te hai un’interlocutrice, forse una parte di te.
C’è una persona di riferimento, io i pezzi non li scrivo con un solo protagonista, ci sono due, tre canzoni che sono la summa di tanti caratteri messi in un personaggio solo. Altri parlano di una persona precisa, in Proci i personaggi invece saranno almeno venti. Poi è vero, ho una parte di sensibilità femminile che mi porta a posizioni altre, alternative. Non è un modo di immedesimarsi, ma di lasciar libera questa parte qua, di chiederle di emanciparsi e di parlarle francamente, senza i pudori del politicamente corretto o la paura di esprimersi. Voglio parlare con quel linguaggio, alle cene d’altronde trovo sempre più desiderabile parlare con le donne, invece che di musica, di calcio e di figa.
Con Marco Giallini, che ha presentato il tuo disco, parlerai anche dei tuoi prossimi progetti cinematografici?
Fare un pezzo su commissione, in un contesto come Diabolik, è stato molto stimolante a livello musicale. Poi non mi dispiacerebbe fare l’attore: è già successo in una serie ancora non uscita, Django, dove ho un personaggio affascinante, e mi piacerebbe riaccadesse. Ho tanti desideri, da fare un cameo in un film in costume in cui sono un guerriero medievale che le dà di santa ragione a tutti fino a lavorare su qualcosa di totalmente diverso da me. Di sicuro non voglio diventare uno stereotipo, un personaggio. Non c’è riuscita la tv a farmi diventare un pupazzo, non lo farà neanche il grande schermo. Intanto sarò a teatro con il Lazarus di David Bowie.
Io ti vedo bene come regista.
No, non ne ho le competenze tecniche. Magari collaborerei volentieri a qualche sceneggiatura, che so, proprio del film ambientato nel Medioevo dove prendo a spadate tutti.
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Foto: Alessandro Treves
Direzione creativa: LeftLoft
Producer: Maria Rosaria Cautilli