Venerdì scorso Marco Castello e Fulminacci hanno pubblicato Magari, singolo ermetico nei testi e raffinato nella musica che, nelle prima strofe, vede i due giovani cantautori alternarsi in uno scambio vicendevole di tratti di personalità, fonti di ispirazione e pigli narrativi, fino a fondersi in un’unica voce nella chiusura armonizzata.
I due gridano al mondo la qualità e la quantità della loro bromance, dolce come la pasta di mandorle siracusana con cui Castello è cresciuto, e dove la centroitalianità di Fulminacci si rilassa, si stempera nell’incontro possibile – e infatti andato benissimo – tra il romano che scrive in degregorese e il siciliano che suona sudamericano, colmi di speranza che la loro non sia una storia da una feat e via che, invece, potrebbe andare lontano. Magari.
Li abbiamo intervistati mentre si completavano le risposte a vicenda.
Negli ultimi tempi quando si fa un featuring ci si unisce perlopiù tra opposti. Prendete Franco126 e Loredana Bertè, oppure Fedez e la musica. Invece voi vi siete uniti tra simili e, montati insieme, formate il mecha indie-cantautorale definitivo; oppure, per citare il vostro pezzo, “forse un faro o un grattacielo”. Chi ve l’ha fatto fare? Com’è andata questa storia? Speriamo che le vostre due versioni non coincidano.
Marco Castello: In realtà non è che qualcuno ce l’abbia fatto fare. Il featuring è nato semplicemente dalla reciproca stima. È stato molto divertente quando mi sono reso conto che Fulminacci era a conoscenza della mia esistenza. Poi, l’anno scorso, ci siamo conosciuti di persona a Spring Attitude, dove abbiamo passato la serata insieme. Il resto lo hanno fatto dei corteggiamenti vicendevoli sui social, che sono andati avanti finché far fiorire questa canzone è sembrata la cosa più naturale del mondo.
La versione di Fulminacci?
Fulminacci: La mia versione, purtroppo, è abbastanza conforme alla sua. L’aspetto più bello di questa collaborazione è che non è nata per motivi discografici, o per dinamiche al di sopra di noi, ma solamente da noi. Inoltre, per quanto condividiamo una parte importante del nostro background musicale, quando ho avuto modo di conoscere Marco un po’ meglio ho imparato un milione di cose sulla sua formazione, che mi ha incuriosito tantissimo. Ho lavorato con una persona che parlava la mia stessa lingua ma che, allo stesso tempo, aveva da darmi qualcosa di totalmente nuovo.
Qual è la caratteristica più importante che avete scoperto di avere in comune?
Castello: Approfondendo il rapporto con Filippo ho scoperto in lui un essere umano meraviglioso. Lo guardavo e vedevo degli occhi enormi, stupiti e felici per qualsiasi cosa. Per produrre Magari abbiamo passato tre giorni in cui ero a mia volta continuamente, felicemente stupito. Abbiamo mangiato, suonato, condiviso pensieri, siamo stati in casa senza fare un cazzo ed eravamo comunque contenti.
Per ristabilire un equilibrio glicemico chiederemmo a Fulminacci qual è la più grande differenza tra di voi.
Fulminacci: Confrontarsi con Marco è stata un’esperienza che mi ha permesso di incontrare, oltre a lui, anche altri musicisti pazzeschi, con un background che definirei sudamericano. I miei occhi stupiti sono dovuti anche a questo: alla scoperta di un mondo, di un repertorio niente affatto scontato per me, che sono abituato a suonare sempre Battisti e De Gregori. Tra di loro c’era un’atmosfera goliardica, fermo restando un altissimo livello tecnico. Una roba che non capita spesso. Dunque è la cultura musicale di Marco a differenziarci. Inoltre lui è molto più bravo di me come musicista.
È anche poli-strumentista!
Castello: Vabbè, ma poli-strumentista non vuol dire niente, anche Filippo lo è. Chi suona, suona: suona anche il tavolo, le cosce, qualsiasi cosa.
Fulminacci: Vabbè, vabbè, chiudo qui questo argomento!
Dopo qualche ascolto Magari può sembrare uno dei pezzi più politici di entrambi. Vi fanno la loro apparizione temi come il sé, quando l’ego è troppo grosso; gli altri, quando la propria sensibilità è troppo piccola; naumachie e astronavi; crucci e schianti. Il tutto è condito con un giro di chitarra in odore di metafora ondosa. Detto ciò, di cosa diavolo parla questa canzone?
Castello: Mi dispiace smontare tutta questa poesia ma, in realtà, ricordo un momento preciso in cui con Filippo ci siamo trovati davanti a un testo di De Gregori. Discutevamo del fatto che alcune canzoni sono belle spesso proprio perché ti lasciano un interrogativo sul loro significato. Potenzialmente potrebbero significare un sacco di cose, così come nulla. Eravamo qui a Siracusa e, procedendo nella scrittura, abbiamo preso in considerazione vari aspetti dell’architettura o del paesaggio, suggestioni da ecomostri o altri simboli ambigui.
In effetti una delle cose che ci colpiscono di più della produzione di Marco è quanto spesso riesca a essere del tutto siracusano, ma tendente all’universale. Ospitando Fulminacci in questa canzone è come se non avesse potuto non ospitarlo anche nella sua città.
Fulminacci: Vi do la mia versione? Questo brano è il frutto della nostra speciale convivenza. Marco mi faceva vedere Siracusa, perché io non c’ero mai stato. Mi ha fatto scoprire tutta la città, tutte le strade, i dintorni, ogni cosa brutta e ogni cosa bella. Forse la scintilla che ha ispirato la canzone è un momento in cui ci siamo ritrovati in una strada un po’ fuori città, verso l’aeroporto, dopo essere stati in centro. A pochi passi dal teatro greco ecco apparire costruzioni orrende lasciate a metà. Questa compresenza di bellezza assoluta e classica, invidiata e studiata in tutto il mondo, e i palazzi più brutti che tu possa immaginare. In Italia abbiamo così tanta bellezza che spesso non ce ne frega niente di valorizzarla, perché tanto è lì. Non perdiamo tempo a fare belli anche gli esterni di un bar che sta accanto a qualcosa di già bello di suo. Allora ci siamo chiesti: ma se non fosse così, sarebbe meglio? Oppure il nostro concetto stesso di bellezza verrebbe falsato?
Una curiosità sulla copertina: vi campeggiano due margherite, di cui una sembra leggermente più propositiva, quella con un petalo volitivamente alzato; l’altra invece è un po’ più tranquilla e serena. Avete pensato, iconograficamente, a chi è chi tra questi due bei fiori?
Castello: In realtà no: i due fiori chiaramente saremmo noi, però non c’è una corrispondenza precisa. Per me l’idea era più che altro quella di fare una cosa semplice ma bella, tutto qua. All’inizio discutevamo con il mio manager Colas (Emiliano Colasanti, ndr) e lui addirittura proponeva una copertina tutta bianca. Io volevo metterci dentro almeno qualcosa e questi due fiori mi sembravano un simbolo che potesse spiegare un po’ il nostro incontro: una cosa che è bella perché è semplice, spontanea, senza alcuna pretesa.
Fulminacci: Poi la copertina tutta bianca l’aveva già usata una band inglese abbastanza famosa…
Qual è il vostro verso preferito di questo pezzo?
Castello: Quando Filippo dice “perché mi ammazzo di terrori, di malumori, di docce dopo l’effusione”. Mentre mi faceva sentire per la prima volta questa frase ammetto di avergliela invidiata.
Fulminacci: Io ho due momenti a cui sono particolarmente affezionato: uno è l’inizio, perché secondo me iniziare un brano con “sovrabbondante e fiero” è qualcosa di non banale. L’altro è l’ultima cosa che cantiamo insieme: “tutto quello che non metto in salvo / e sentirai che schianto”, sia a livello di melodia che di contenuto. Quel momento lì potrei definirlo una specie di orgasmo.
Castello: E poi ci è uscito pure particolarmente bene! Cioè: quella parte finale sarebbe dovuta essere di Filippo, ma poi abbiamo deciso di cantarla insieme. Secondo me è diventata la sintesi del brano. E anche secondo me è la parte più bella del brano.
Fulminacci: Ci ha appassionato la complicità di cantare armonizzati. È una cosa semplice ma che mi ha trasmesso tantissima emozione.
Come siete arrivati a questa scelta?
Castello: All’inizio era chiaro per tutti e due il fatto che ognuno avrebbe cantato quello che scriveva. Infatti nelle strofe si può sentire chiaramente che c’è una parte A e una parte B. Poi abbiamo pensato: siamo fisicamente insieme, stiamo facendo questo pezzo insieme, ha senso finirlo insieme.
Ci piacerebbe sapere da Marco chi è Fulminacci.
Castello: Filippo è una scoperta che ho fatto nel 2020 mentre ero a Milano, chiuso in casa tra le mie prime due date. Ascoltando la sua discografia su Spotify a un certo punto è partita La vita veramente e mi sono detto: aspetta un attimo. Non lo dico perché siamo qui ora insieme, ma davvero non è mai stato facile per me trovare qualcosa in italiano che mi piacesse, che mi prendesse davvero a primo impatto. Io stesso, quando mi sono approcciato alla scrittura di pezzi in italiano, l’ho fatto in punta di piedi, frenato perché andavo contro tutto quello che avevo sempre suonato prima. Fulminacci è stata una di quelle piacevoli sorprese che mi hanno tolto di dosso quest’ansia stupida che avevo di tradire le cose che facevo già.
Invece chi è Marco Castello per Fulminacci?
Fulminacci: Io mi rifaccio al format che ha usato Marco, cioè comincio con la scoperta. L’ho scoperto quando il mio manager mi ha mandato un messaggio su WhatsApp con il link del suo primo singolo, che era Porsi, sbaglio?
Castello: Giusto, giusto!
Fulminacci: Lì ho detto «oddio che bella già la copertina», dove c’era questa foto del flauto che usciva fuori dallo zaino.
Castello: Ahahahahaha
Fulminacci: Era bello anche che il brano si chiamasse Porsi perché il nome dell’istituto dove lui studiava era “P. Orsi”.
Castello: Esatto!
Fulminacci: Poi ho ascoltato il pezzo e sono rimasto esterrefatto dalla sua struttura a ripetizione, così diversa da quella tipica del pop (strofa, bridge, ritornello, strofa, bridge, ritornello, special, ritornello). Ma quello che mi ha davvero folgorato è il suo contenuto: non c’era luogo comune delle medie che toccasse in cui non mi riconoscessi completamente, ma allo stesso tempo vi sentivo echi perduti del cantautorato italiano. Dunque prima è stata la musica, poi per i testi e poi amore (ride).
Insieme vi aspettate di incontrare un pubblico più vasto della somma delle vostre due rispettive platee?
Castello: Dal mio punto di vista ho avuto uno zompo incredibile. Quando è uscito questo pezzo ha fatto in un giorno gli ascolti che normalmente faccio in un mese.
Fulminacci: Pure io!
Quando vi vedremo dal vivo insieme?
Castello: Boh!
Fulminacci: Magari! Spero il prima possibile. Dobbiamo riuscire a incastrare i calendari. Magari si potrebbe fare anche questa estate.
E separatamente?
Castello: Io ho un po’ di date a luglio. E in realtà pensavo di passare da Roma, sperando che ci sia anche Filippo, come quando ho fatto un live all’Alcazar a Roma, poco dopo che lui era stato qui a Siracusa.
Fulminacci: E tu volevi spoilerare questo pezzo che non era ancora uscito!
Castello: E invece ci siamo improvvisati in una cover de Le cose in comune di Daniele Silvestri. Comunque sarebbe bellissimo incontrarci di nuovo sul palco.
Un’ultima domanda per entrambi, ormai topica di queste interviste indie-cantautorali: preferireste essere più cantati o più capiti da chi vi ascolta?
Castello: Per quello che mi riguarda sicuramente più cantati, ripeto, perché neanche io mi capisco spesso. Capire qualcosa è una cosa estremamente difficile. Reputandomi più musicista che scrittore – altrimenti avrei fatto poesie, immagino– per me il momento più bello è quando si canta tutti insieme. Ancora non mi ci abituo e spero non mi abituerò mai ad ascoltare la gente sotto il palco che canta le mie canzoni.
Fulminacci: Io mi trovo d’accordo con quello che ha detto Marco, anche agli inizi avrei risposto di voler essere capito. Nel tempo ho realizzato che ci sono alcune cose sulle quali mi posso impegnare anni e che, nonostante ciò, possono tranquillamente essere ignorate dagli altri. Meglio la visceralità, altrimenti ci si dimentica che questo è un mestiere di comunicazione. Non si può basare tutto sulla scommessa che degli sconosciuti apprezzino una di quelle cose che ti fanno dare di gomito con i tuoi amici come a dirvi: «Ah-ha, ci siamo capiti». Sarebbe un lavoro un po’ troppo onanistico, se volessimo usare una parola non volgare.
Castello: Proprio così!
Fulminacci: Dunque credo che puoi anche piazzare nella propria musica un paio di easter egg per chi condivide con te tutte le connessioni mentali, ma quello che conta davvero è la semplicità di arrivare a essere cantati.