È tempo di dire che esiste un fermento artistico, nelle zone “altre” della musica italiana, che non è più mistero e non è più un caso: l’exploit di Daniela Pes che vince il Premio Tenco, il riconoscimento internazionale di Caterina Barbieri, la maestria della batterista Valentina Magaletti contesa coi suoi vari progetti dai principali festival europei, la versatile penna di Marta Del Grandi, l’estro di una delle sound engineer più ricercate e stimate a livello internazionale, Marta Salogni. E poi (sempre per rimanere a Londra), c’è Maria Chiara Argirò, che non è che arrivi in questa lista per caso: dal Guardian a Pitchfork passando per Mojo, il suo precedente album Forest City aveva dato una svolta decisiva alla carriera dell’artista romana trapiantata nella capitale inglese tanto da portarla sul palco di Glastonbury oltre a ricevere attestati di stima artistica da figure importanti come Gilles Peterson e Four Tet.
Argirò ha da poco pubblicato sull’etichetta californiana Innovative Leisure il suo nuovo album, Closer, la continuazione romantica e insieme molto decisa di Forest City, un tentativo di avvicinarsi sempre di più alla versione più autentica di sé, come intona nella title track, “più vicina a me stessa”. La raggiungiamo in un pub di Dalston, a Londra, per farci raccontare questo nuovo capitolo: «Se in Forest City avevo sperimentato molto, Closer è stato quasi una folgorazione: l’ho scritto in uno stato trasognante. Descrive una mia urgenza, un’urgenza che ho assecondato».
La vita a Londra rimane sempre sullo sfondo, tra live e collaborazioni con altri artisti, ma Closer è un’indagine su aspetti molto più personali: «Deriva da una fase di vita in cui sento la necessità di connettermi di più con ciò che sono, anche per il momento storico in cui viviamo che ha portato a una crisi di questo tipo di certezze. Le relazioni con chi ti circonda, le relazioni con noi stessi. Tutto questo fa dell’album un capitolo diverso».
Rispetto al post jazz con colori elettronici di scuola Radiohead che crescevano ascolto dopo ascolto in Hidden Seas (2019) quanto in Forest City (2022), Closer si addentra in territori più eccentrici, per quanto questo non sia per l’artista romana una scelta premeditata. «Qualcuno mi dice che quest’album arrivi molto vicino ad essere addirittura club, in alcune cose. Ok, nice one, mi sta bene! Però non c’è mai davvero niente di intenzionale nel mio approccio a nuova musica. È un disco molto diretto, un racconto da donna e anche un racconto di tanti stati d’animo».
Una certa fermezza sonora che per lunghi tratti fa dimenticare quella penna romantica e quella maestria nel rendere ogni arrangiamento malinconico tipico della musicista. La conferma sono brani in scia Moderat come Grow e Time, o in altri passaggi più sentimentali (ma pur sempre molto sperimentali) come Koala e Floating, in cui si ha invece la sensazione che James Blake e Sampha abbiano collaborato su questo disco dopo una jam particolarmente ispirata. Invece, niente affatto: «Diciamo che a un certo punto faccio la pazza. Faccio Maria Chiara Argirò (ride). Forse perché non mi do mai una vera regola, se non di affidarmi all’orecchio. Credo che artisti come loro facciano in fondo lo stesso», risponde convinta.
Il messaggio del disco è comunque, soprattutto, tornare ad essere più umani, coscienti di se stessi e più vicini, a se stessi. E questo riflette anche la dimensione live: nonostante si fosse «un po’ stufata del jazz contemporaneo più standard», come raccontava a Rolling Stone un paio d’anni fa, la dimensione viva di Closer, quella che arriverà sul palcoscenico, sembra destinata a ritornare al suo background: «Ho riflettuto sulle mie esperienze passate, e per quanto mi riguarda questa dipendenza da un computer con Ableton Live per esibirsi dal vivo la voglia distruggere. Sono stata due, tre mesi su Reddit a cercare ogni tutorial possibile, persino in negozi Roland a cercare una soluzione intuitiva con il customer service che spesso non sapeva neanche rispondermi. A suo modo è stato divertente. Ma volevo davvero capire come portare tre persone sul palco a una versione più fedele possibile alla versione studio, senza l’apporto di un computer».
Dietro questa scelta, ancora una volta, la natura molto intima e quasi onirica dei dieci brani dell’album e l’idea di non accontentarsi: «Credo che oltre essere una sfida sonora sia anche una sfida umana. oltre a me a suonare il disco ci sono altri due musicisti che vengono da un background jazz: perché non rischiare e cercare di fare quella musica in modo autentico? Sì, sicuramente è qualcosa che deriva dal mio passato, e sono riconoscente di aver studiato jazz perché non ho paura che sul palco qualcosa di sbagliato può accadere. Tipo quello che è successo al Coachella con Grimes (ride). E poi sì: è quello di cui ha bisogno questo disco per comunicare quello che ha dentro».
Nei due anni che hanno separato l’acclamato Forest City da Closer, a Maria Chiara ne sono successe di tutti i tipi: è diventata una protégée di Gilles Peterson e finita fra gli ascolti consigliati di Four Tet, e mentre la sua musica veniva scelta da Netflix (nella serie Élite) con la sua band calcava alcuni dei palchi più importanti al mondo come quello del SXSW in Texas e del più acclamato festival estivo europeo, Glastonbury: «Per me è stato tutto una grande sorpresa. Anche l’interesse ricevuto dall’Italia mi ha fatto molto piacere, è la mia cultura, sono le mie radici. Penso che ogni artista abbia le sue insicurezze, per me il modo di combatterle è fare musica, ed è stato ovviamente bello vedere cos’è successo con Forest City».
A proposito di live, essendo tornata spesso in quest’ultimo periodo Maria Chiara ha un’idea precisa su quanto succede nel nostro Paese, tra sorrisi, sorprese e qualche tirata d’orecchie: «Faccio un grande applauso ai promoter e a tutte le persone del movimento che si stanno impegnando per creare cartelloni “alternativi”. La mia sfida però rimane quella di far capire che esiste una musica diversa negli altri paesi, in Italia mi sento di essere percepita ancora come un’aliena. Esiste una nicchia che sta sviluppando grande interesse nei confronti di “altra musica”, so che c’è grande voglia di scoprire e ne ho la conferma da chi mi chiama per suonare: li ringrazio. Mi sembra però un processo ancora molto lento, che richiederà tempo. Quando torno, è quasi un esperimento antropologico. Insomma quand’è che questa musica diventerà normale come succede a Londra?».
L’interesse in Italia per elettronica “suonata” sembra infatti un tema che per un disco come Closer: «Ho notato e con piacere un interesse per progetti come Daniela Pes, ad esempio, che stimo infinitamente. Che fa il paio forse con l’impennata di festival jazz/elettronica contemporanea, negli ultimi anni, oltremanica. Molto spesso però sembra un interesse giustificato dall’hype, dall’interesse per esserci, a certi live. Senza però alla fine interessarsi troppo e davvero per la musica», dice tornando poi all’esperienza di Glastonbury dove «c’erano ottantenni con la sedia davanti alle casse a sentire gli Idles e neonati portati sotto palco. Ho pensato fosse la perfezione: nessuno al cellulare, tutti dentro la musica. Un paese dei balocchi. La cosa che ci manca in Italia, ma che si sta espandendo un po’ anche in tanti altri posti credo sia questa. C’è gente che va ai concerti, ma è come se non fosse mai andata a quello spettacolo, pur pagando il biglietto».
Oltre a soluzioni umane, affinché Closer raggiunga il destino che Maria Chiara ha in mente nel prossimo futuro, la soluzione sarà forse ascoltare, ascoltare veramente. A partire dai mezzi che abbiamo, che sono intorno a noi da sempre, cioè da oltre un secolo: «Ci mancano mezzi, veri ci manca ad esempio una radio come BBC Radio 6, cioè qualcosa che riesca a formare persone che ascoltano qualcosa di alternativo e che poi ne fanno una loro vera cultura. Diventa normale, ti abitui, cresci. E sarebbe bello fosse sempre così. Bisogna fare qualcosa, bisogna rieducare a vivere veramente la musica».