Mark Lanegan ha passato gli ultimi venticinque anni cercando di mettersi alle spalle il passato. Da metà anni ’80 fino al 2000 è stato il frontman degli Screaming Trees, band neo-psichedelica che si è ritrovata in mezzo al boom del grunge di Seattle ed è finita brevemente nel mainstream grazie a Nearly Lost You. Nel frattempo, Lanegan faceva amicizia con Kurt Cobain e Layne Staley, registrava col supergruppo Mad Season, lanciava una carriera solista a base di blues e di rock legato alla musica delle radici, uno stile più malinconico e introverso rispetto a quello dei suoi contemporanei. La voce profonda e l’imprevedibile presenza sul palco hanno fatto di lui il miglior frontman emerso dalla scena di Seattle. Intanto, però, diventava dipendente da eroina, crack e sesso, vizi che l’hanno portato a diventare un senzatetto e a un passo dalla morte.
Dopo il suicidio di Kurt Cobain nel 1994, Lanegan ha cercato di dare un taglio al passato, dedicandosi ai dischi solisti e minimizzando il proprio ruolo nel grunge. «Quando voi di Rolling Stone mi chiamavate per commentare questo o quell’anniversario dicevo quasi sempre di no», spiega nel corso di due ore e passa di conversazione che abbiamo avuto. «Il punto è che per continuare a fare musica avevo bisogno di allontanarmi da Seattle e dalla sua storia. Non volevo essere considerato un tossico ex grunge che non ce l’ha fatta».
Ora però per Mark Lanegan è giunto il momento di guardarsi indietro. Nella cruda autobiografia Sing Backwards and Weep racconta quel passato rimasto finora in ombra, dall’infanzia fino alla morte di Staley avvenuta nel 2002. Il libro si legge come un romanzo di Bukowski con Lanegan che passa da una trasgressione all’altra, maledice chi cerca di tenerlo lontano dalla musica, dalle droghe e dalle scopate, dice cose orribili dei suoi amici celebri. E poi, bisticcia con gli ex compagni degli Screaming Trees, convince Krist Novoselic a restare nei Nirvana in un momento di dubbio pre boom, procura dell’eroina a Kurt Cobain e si porta dietro Josh Homme a farsi. Eppure nessuno ne esce male quanto lo stesso Lanegan.
«Scrivere il libro è stata la cosa più spiacevole che abbia mai fatto», spiega. «Non pensavo a queste cose da un quarto di secolo. Mi piace il qui e ora, il passato è popolato da fantasmi».
Mark Lanegan ha 55 anni ed è pulito da una ventina. Ha una moglie e possiede una casa. Conduce una vita stabile, ma per arrivarci ha faticato, ha lavorato come muratore nei cantieri e decoratore di set televisivi a Los Angeles. La sua musica può sembrare artistica, ma lui ha i piedi ben piantati a terra. Quando parla ha la stessa voce di quando canta e tende a sottolineare il racconto dei momenti più cupi e imbarazzanti con una risata acuta. Sa di aver avuto una vita incredibile ed è grato di essere ancora vivo.
A partire dallo scioglimento degli Screaming Trees avvenuto vent’anni fa, nei suoi dischi solisti ha messo a punto una variante di blues cupa e influenzata dall’elettronica che può ricordare a tratti Nick Cave. È apparso nei dischi dei Queens of the Stone Age e dei Soulsavers, ha collaborato con l’ex cantante dei Belle and Sebastian Isobel Campbell e con Greg Dulli degli Afghan Whigs. In maggio pubblicherà Straight Songs of Sorrow, un disco autobiografico nato durante la scrittura del libro.
È stato il suo amico Anthony Bourdain, che chiama Tony, a incoraggiarlo a mettere nero su bianco alcune delle sue storie, cosa che ha cominciato a fare per la raccolta di testi del 2017 I Am the Wolf. Lanegan ha poi scoperto che scrivere può essere logorante. Quando Bourdain si è suicidato, aveva scritto solo quattro o cinque capitoli. Si è perciò rivolto all’autore di best seller Mishka Shubaly per avere consiglio e aiuto nel completare il libro, un processo che si è rivelato difficile.
«Scrivere sta roba ha significato farsi travolgere ogni singolo giorno da una valanga di merda, i miei ricordi. Sia Tony che Mishka mi dicevano: vedrai, sarà un’esperienza catartica, ti servirà per metterti alle spalle quei fantasmi. E io: amico, quei fantasmi stavano dormendo e ora li sto risvegliando».
Quant’è stato difficile scrivere del passato?
All’inizio ricordare era paralizzante. Passavo 12, 14 ore al giorno seduto a scrivere senza nemmeno rendermene conto.
C’è molto della tua amicizia con Kurt Cobain. Che cosa ti ha colpito di lui quando l’hai conosciuto?
Eravamo amici prima che diventasse famoso. Anzi, per un certo periodo quello famoso fra i due ero io (ride, nda). Che avesse un talento naturale l’ho capito dal momento in cui l’ho visto cantare alla Public Library di Ellensburg, la cittadina dove sono cresciuto. Era stato Dylan Carlson (chitarrista degli Earth e amico di entrambi, ndr) a suggerirmi di andare a vedere la band di Kurt, che mi diceva essere mio fan. Mi considerava una sorta di fratello maggiore. Sapevo che aveva qualcosa di speciale. Dopo un po’, anche il resto del mondo l’ha capito. Quel che è successo dopo lo sappiamo tutti.
Scrivi del rimorso per le tue azioni all’epoca della morte di Kurt. Quel giorno ti ha chiamato al telefono e tu non hai risposto. Come hai elaborato la sua morte?
Quando un tossicodipendente perde un amico comincia a farsi ancora di più. Sono andato avanti restando accanto agli amici di sempre – Dylan Carlson e il mio migliore amico a Seattle, Layne Staley – e abbiamo continuato a fare quel che facevamo, anche se sentivamo che ci mancava qualcosa. Logica vorrebbe che quando un amico muore in quel modo tu cominci a pensare che non vuoi fare la stessa fine. E invece i tossicodipendenti si fanno ancora di più e piangono sulla loro birra.
Che cos’hai provato quando è morto Kurt?
Mi ha fatto venire voglia di scomparire e dimenticare tutto, anche quell’amicizia nata come mutua ammirazione. Ci piaceva la stessa musica e quando è diventato famoso mi ha detto: “Tu e Dylan siete gli unici veri amici che ho”. Ed era al picco della popolarità. Che tristezza.
Ricordo di aver pensato: ma che razza di amico sono? Lui mi ammirava e anche se non lo dava a vedere sapeva del mio declino. Avrei potuto essere una guida migliore per questo ragazzo che adoravo. E invece ero uno di quelli che andava a comprare la droga per gente famosa come lui che non poteva esporsi in pubblico. È una realtà dura da accettare. Avrei potuto comportami diversamente e non l’ho fatto.
Eppure c’è gente che si è presa cura di te. Il nome che più mi ha sorpreso leggere in questa lista è quello di Courtney Love.
Mi ha indirettamente salvato la vita. Dovevo scriverlo. Proverò sempre rimorso per le mie azioni il giorno in cui Kurt ha fatto quel che fatto. L’ho caparbiamente ignorato. L’ho fatto perché in quel periodo cercavo di evitare Courtney. Pensavo che fosse con lui. E poi ero uno stronzo egoista che non rispondeva agli amici, anche a quelli come Kurt che avrebbero riposto a una mia chiamata in qualunque momento.
Qualche tempo dopo la sua morte sono andato a un banco dei pegni gestito da un amico che mi ha detto: l’altro giorno Courtney Love è venuta qua con del materiale informativo sulla riabilitazione. E io: dille di ficcarsi in culo la sua bella riabilitazione. Ragionavo così all’epoca: non ho bisogno del tuo aiuto a meno che tu non mi voglia dare dei soldi o qualcosa che io possa rivendere o della droga. Ero un merdosissimo tossico ostinato che avrebbe preferito diventare un senzatetto che accettare l’aiuto di qualcuno.
Com’è che poi hai cambiato idea?
Ho capito che ero chiuso in gabbia e che dovevo lasciare Seattle. Non avevo più una casa e vivevo per strada nella stessa zona dove per 10 anni avevo avuto il mio appartamento. Un poliziotto mi ha beccato e mi ha detto che se non volevo finire nella merda dovevo ripulirmi o lasciare la città. In più ho avuto la bella idea di fregare uno spacciatore per il quale lavoravo per strada. Era un tizio enorme, un ex carcerato originario dell’Upstate New York che mi avrebbe massacrato come nulla. Non sapevo dove andare, sono tornato in quel banco dei pegni dopo mesi e ho chiesto al mio amico se aveva ancora il materiale che Courtney aveva portato per me. Dovevo assolutamente lasciare la città.
Le informazioni che aveva lasciato erano su un’organizzazione chiamata M.A.P., ovvero Musicians’ Assistance Program, messa in piedi da un sassofonista jazz chiamato Buddy Arnold per dar modo di ripulirsi ai musicisti che non avevano i soldi per farlo. Sono stati loro a pagare la mia rehab. Avevo bisogno anche di altro e Courtney mi ha pagato tre mesi di affitto in quel posto. Non potevo fare alcun lavoro ed ero fisicamente a pezzi dopo tutti quegli anni in cui mi ero fatto del male. Un giorno mi sono svegliato circondato da pacchi di vestiti nuovi mandati da Courtney.
Perché pensi che ti abbia aiutato?
Mi ha scritto un lettera. Diceva: “Kurt ti voleva bene come a un fratello maggiore e avrebbe voluto vederti vivo. Il mondo ha bisogno che tu resti vivo”. Parole potenti per uno come me che da anni non faceva del bene a qualcuno. In più, non gli ero stato accanto quando ne aveva bisogno. Le devo tanto, è un debito che non sarò mai in grado di ripagare. Devo tanto anche ad altra gente. Mi sono comportato da stronzo, eppure ho ricevuto amore da persone che conoscevo a malapena e che mi hanno salvato.
Subito dopo il tuo periodo in rehab, hai ricevuto la notizia della morte di Layne Staley e il libro finisce lì. All’epoca eri pulito, è stato più difficile affrontare il lutto?
Tra tutti i miei amici, ero quello a cui nessuno dava una chance di uscirne perché avevo un approccio ossessivo. Avrei scalato l’Everest per la droga. Cercavo sempre di sballarmi. Layne era una persona portentosa, ma anche determinato a farsi fino alla morte.
La prima volta che l’ho visto dopo essermi ripulito, non mi facevo da un anno. Sono abbastanza sicuro che Jerry (Cantrell, degli Alice in Chains, nda) e Mike Inez mi fecero andare a Seattle perché non riuscivano a entrare a casa sua. Aveva una videocamera e viveva nell’attico del suo condominio. Ogni volta che qualcuno del giro andava a trovarlo, lo ignorava. Jerry e Mike sapevano che se mi avesse visto, mi avrebbe fatto entrare. Ho accettato, volevo che vedesse che mi ero ripulito, che era possibile smettere, che aveva torto quando prevedeva che avrei fallito (ride, nda). Forse, speravo, vedermi gli avrebbe fatto capire che poteva farcela. Ma non voleva farlo.
Quando sono arrivato gli ho detto: “Amico, è un po’ che non ci si vede. Sono pulito da più di 12 mesi”. E lui: “No, non lo sei. Hai mollato più o meno due mesi fa”. Il suo senso del tempo era distorto. E non credeva alla mia storia. Ricordo che ha detto: “Continuo a pensare che vivrò la stessa sensazione che ho provato la prima volta”. Io non ho mai provato le stesse cose che ho provato la prima volta che mi sono drogato. Ho dovuto subito farmi cinque volte tanto per avvicinarmi. Per me era impossibile, ma era la sua ossessione.
Dev’essere stato difficile…
Mi ha spezzato il cuore. Ho sempre saputo che sarebbe andata così, ma speravo che un’emergenza medica di qualche tipo l’avrebbe costretto in ospedale, che lo avrebbe strappato alla routine del crack e dell’eroina, che la pausa l’avrebbe aiutato a riflettere. L’emergenza medica, purtroppo, è stata la sua morte.
Perdere i tuoi amici ha cambiato il modo in cui ascolti la loro musica?
Amo ancora ascoltare gli Alice in Chains. Quando passano alla radio mi sento bene. Se invece mettono i Nirvana cado in depressione. Se sono in un Uber, per esempio, chiedo di spegnere. Credo che dipenda da come mi sono comportato di fronte alla morte di quei due ragazzi, due persone che amavo allo stesso modo. Ovviamente non ho avuto una grande influenza su Layne, ma la droga ci accomunava. Nel libro scrivo: “Kurt era come un fratello minore, Layne era come un gemello”.
Come stavano le cose con i ragazzi degli Screaming Trees in quel periodo?
A quanto pare, qualcuno ha inviato una pagina del libro ai Trees. L’hanno subito pubblicata su Facebook e hanno iniziato a minacciarmi fisicamente e legalmente. Io pensavo: “Ehi, ho cercato di contattarvi 50 volte nell’ultimo anno, volevo far leggere questa roba a Van Conner (il bassista, nda)”, che era il mio migliore amico nella band prima dell’arrivo di Josh Homme. Mi ha ignorato tutte le volte.
Ho mandato quel che avevo scritto ai due batteristi del gruppo, Mark Pickerel e Barrett Martin. Non ero stato particolarmente lusinghiero neanche con loro, ma ci hanno riso sopra e mi hanno detto che era grandioso. Non ho mandato nulla a Lee Conner perché non gliene è mai fregato un cazzo di quello che pensavo. Dopo 15 anni in una band con lui, il sentimento è reciproco. In più, sono stato buono con tutti meno che con me stesso. Se avessi raccontato alcuni dettagli, nessuno di quei ragazzi potrebbe andare in giro senza abbassare la testa, e non potevo farglielo. Ma non potevo non raccontare i comportamenti bizzarri e quel che mi ha fatto passare Lee.
Non ci hai più parlato?
Dopo quel post su Facebook, ho mandato una mail a Van Conner. Iniziava con una citazione del libro: “Van ha una personalità gioiosa, bonaria e allo stesso tempo ribelle, ha un senso dell’umorismo folle ed è stato la mia grazia salvifica in tutto il periodo che ho passato nella band”. Poi ho aggiunto: “Ehi, pezzo di merda, perché non leggi tutto il cazzo di libro prima di minacciarmi? Ho cercato di contattarti 50 volte e hai scelto di ignorarmi”. Mi ha risposto: “Vaffanculo a te e al tuo libro”. Ho detto: “Amico, se non ti piace la mia versione del tempo passato insieme, scrivi il tuo libro del cazzo, oppure portami in tribunale e ti distruggo”. Lui: “Non contattarmi mai più”. Io: “Ehi, l’unica ragione per cui ti ho scritto, questa volta, era la mia cazzo di educazione, e tu non mi hai cercato finché non hai visto una pagina del libro. Vaffanculo”. Non me ne fregava un cazzo di cosa pensano.
Insomma, non corre buon sangue fra di voi.
La verità, devo dirlo, è che erano fortunati a suonare con me. Non è colpa mia se Van è diventato un programmatore dopo la fine della band. Io dovevo combattere per far parte di quel gruppo, dovevo combattere per scrivere i testi di una canzone anche dopo otto anni insieme. Ho scritto a Van: “Mi spiace se pensi che quando sono uscito dal gruppo ti ho rovinato la vita, ma se non capisci che l’ho fatto per salvarmi la vita, allora fottiti. Non te n’è mai fregato un cazzo di me. Ero strafatto 24 ore su 24 perché stare in quella cazzo di band era insostenibile” (Van Conner ha detto a Rolling Stone: “Spero che il libro di Mark vada bene”, nda).
Il libro finisce con la riabilitazione. Come hai fatto a rimetterti in sesto?
Beh, innanzitutto ho dovuto liberarmi della droga e trovarmi una casa (ride, nda). Dopo la rehab, sono riuscito a entrare in un centro di accoglienza di Pasadena, poi ho iniziato a lavorare in un cantiere di Los Angeles. Sono tornato a casa, un giorno, e ho trovato Duff McKagan in piedi sul portico. Era pulito da diversi anni e qualcuno gli aveva raccontato la mia storia.
Siamo rimasti in contatto e a un certo punto mi ha chiesto: “Ti spiacerebbe trasferirti nella mia casa a Mulholland per tenerla d’occhio?”. Io ho pensato: “Cosa? Ma mi prendi in giro? Non posso rifiutare”. Ho vissuto a casa sua per tre anni, nessun affitto. Anche quando ho iniziato a lavorare non mi ha mai, mai permesso di pagare l’affitto. Ha sempre detto: “Mi stai facendo un favore”. Io guidavo le sue macchine a abitavo a casa sua. È stato un angelo.
Come sei tornato a fare musica?
In quel periodo ho ricontattato Josh Homme e iniziato a suonare con i Queens. Ho fatto dischi fino al 2004 o qualcosa del genere. Ci sono ricascato e sono andato in coma per una decina di giorni. Sono quasi morto. Quando ne sono uscito, non so spiegare perché, dentro di me la musica si era prosciugata. Era assurdo. La musica non mi dava alcun piacere: musica che amavo, nuova musica, musica in radio, tutta. Non volevo ascoltarla. Non riuscivo ad ascoltare e di sicuro non potevo scrivere o cantare. Pensavo: “E adesso che cazzo faccio?”.
E che cosa hai fatto?
Un amico mi ha trovato un lavoro in un posto dove si costruivano scenografie per serie tv. Non avevo mai dipinto, ma l’ho fatto per più di un anno. A un certo punto, il mio caro amico Greg Dulli ha insistito affinché partissi in tour con lui. Per otto anni ho fatto solo ospitate. Ho registrato sei dischi, qualcosa del genere, ma nessuno solo col mio nome. A un certo punto ho fatto una canzone per il trailer di un videogame, Rage, con il produttore Alain Johannes. È la prima persona che ho incontrato che era in grado di articolare la mia visione musicale.
Dopo che questa cosa del videogame mi ha fatto guadagnare un po’ di soldi, Alan ha detto: “Perché non continuiamo e facciamo un disco?”. Non avevo niente. Dipingevo scenografie. Ho detto: “Perché no?”. Abbiamo fatto un disco (Blues Funeral del 2012, nda) diverso da tutto quel che avevo fatto prima. Mi sono concesso di assecondare il mio interesse per l’elettronica. Alan, che è un genio, è riuscito a produrre le canzoni esattamente come volevo. L’album ha venduto il doppio del mio disco di maggior successo, Bubblegum. Blues Funeral è ancora il mio preferito fra tutti i dischi che portano il mio nome. Quando l’ho finito, ho pensato: “Cazzo, sono tornato”.
È da lì che sei ripartito?
Ho firmato un contratto con la Heavenly Records che stabilisce che sono io il proprietario dei master, ed è così che sono arrivato dove sono ora. Possiedo una casa, non avrei mai pensato che sarebbe successo. Pensavo che per me casa sarebbe stata una roulotte parcheggiata nel terreno di mia madre, senza elettricità, né fognature, e che sarei morto lì. Invece, ho una casa molto bella e una moglie con cui sto da 15 anni. Per farla breve, sono stato davvero fortunato. Tutto qui. Solo una gran fortuna.