Già con Until We Fossilize, nel 2021, si era fatta notare per la voce calda e suadente e lo stile internazionale. Sotto contratto con la britannica Fire Records, negli scorsi due anni Marta Del Grandi ha avuto, inoltre, l’opportunità di suonare parecchio all’estero, lei che fuori confine ci ha vissuto veramente e che anche per questo scrive i suoi pezzi in inglese. Ora è il momento del secondo disco per Fire (il terzo in assoluto, se si calcola Invertebrates, pubblicato nel 2016 come Marta Rosa). Co-prodotto da Bert Vliegen (Sophia, Whispering Sons), già dal titolo, Selva, suggerisce che la cantautrice lombarda ha fatto ritorno in Italia, non a caso l’abbiamo vista di recente al fianco dei Casino Royale in Cospiro. In questo suo nuovo lavoro, tra l’altro, non manca una canzone in italiano, ma è l’unica di 12 tracce che vedono la 35enne muoversi tra art rock, indie folk ed elettronica minimale, realizzate – questa la novità rispetto all’album precedente – con una band di vecchi amici, come racconta la diretta interessata in collegamento su Zoom dalla sua casa sul Lago Maggiore.
«Until We Fossilize era un disco figlio della pandemia, cui hanno contribuito alcuni musicisti, ma da remoto, e che ho registrato praticamente da sola, con le mie capacità di produzione e con poche risorse economiche, visto che ai tempi non avevo ancora un contratto discografico. Con Selva ho voluto tornare a un album suonato con una band e da questo punto di vista è stato provvidenziale il fatto che nel periodo tra i due dischi sono tornata sulla pre-produzione di una canzone oggi inclusa in Selva, Stay, ma uscita come singolo a fine 2022: ci avevo lavorato su nel 2017 in Belgio, a Gent, dove ho vissuto per cinque anni, e in sostanza ho deciso di riprenderla in mano nello stesso studio e con gli stessi musicisti, musicisti a cui sono particolarmente legata e con cui ho un altro progetto, il Mós Ensemble. Da quelle sessioni è venuto fuori un remake della prima versione di Stay e proprio quel rifacimento è diventato il primo mattoncino di questo mio nuovo album».
È un passaggio importante, quello ripercorso qui sopra, perché spiega bene l’apprezzabile evoluzione che dall’intimità di Until We Fossilize ha spinto Marta verso un sound più corposo e variegato, in cui il dialogo tra synth, piano, chitarre, bassi, batteria, percussioni e fiati (nella fattispecie un clarinetto basso e un sassofono baritono) forgia di traccia in traccia atmosfere diverse, così che se Snapdragon si appoggia su un ritmo tribale contagioso, Marble Season ha più il sapore della litania, Chameleon Eyes si caratterizza per l’incedere pop leggero e giocoso, mentre Mata Hari rivela una dinamica dai toni chiaroscuri. «So che la mia scrittura è piuttosto eclettica. In futuro vorrei avere un’idea più definita della musica che voglio fare, ma per adesso il mio è soprattutto un pensare a un’idea di suono architettata anche tenendo conto dei musicisti che collaborano con me».
Ciò che è rimasto intatto rispetto ad Until We Fossilize è la centralità della voce, lo strumento che Marta conosce meglio e maneggia con consapevolezza e naturalezza insieme, forte degli studi in ambito jazz che arricchiscono il suo curriculum. «Tra il 2008 e il 2009 mi sono iscritta ai Civici Corsi di Jazz a Milano. A spingermi è stato più che altro il desiderio di fare un corso di canto, perché avevo sempre cantato da adolescente, benché senza alcuna velleità artistica. Invece, grazie all’incontro con quella scuola, ho iniziato a dedicare sempre più tempo alla musica, focalizzandomi per un po’ proprio sul jazz, anche con alcune collaborazioni, ma senza mai arrivare a incidere un disco jazz, il che un filo mi dispiace, ma probabilmente ero troppo giovane, non mi sentivo pronta. Quando, poi, nel 2012, mi sono trasferita a Gent per frequentare il biennio del conservatorio di jazz, ho trovato un approccio molto più aperto rispetto a quello che abbiamo in Italia: per l’esame finale mi hanno dato la possibilità di lavorare a una serie di canzoni da presentare live, canzoni magari con influenze jazz, ma che potevano confluire in tutt’altro genere e che successivamente ho incluso nel mio debutto come Marta Rosa».
Fu quello il primo passo verso un’identità che probabilmente muterà ancora, perché l’impressione è che Marta sia una di quelle cantautrici che con la musica amano fare prove ed esperimenti con un atteggiamento esplorativo che può condurre in più direzioni. Tanto che se per Until We Fossilize erano stati scomodati riferimenti a Lynch e Morricone, ascoltando Selva è più facile trovare punti di contatto, in termini di approccio alla scrittura, con cantautrici quali Emilíana Torrini, My Brightest Diamond (alias Shara Nova), Julia Stone. «Uno dei miei primi riferimenti nel cantautorato femminile è stata proprio la Torrini con il disco Fisherman’s Woman, in cui mi sono imbattuta quando avevo ancora 16-17 anni e che mi aveva conquistata all’istante. Era stato un momento folgorante, ricordo che mentre lo ascoltavo mi sembrava così perfetto da non aver bisogno di nessuna modifica o aggiunta, tutte le canzoni erano incredibili, il suono complesso, ma diretto e accessibile. Insomma, lei è la mia madre musicale. Un’altra fonte d’ispirazione fondamentale è stata St. Vincent, sia per l’attenzione al suono, sia per gli arrangiamenti. E sì, My Brightest Diamond è un’altra artista in grado di vestire i brani con arrangiamenti tutt’altro che semplici o banali e di dare contemporaneamente spazio alla melodia e all’orecchiabilità, il tutto all’interno di un percorso poliedrico che stimo tantissimo, perché è una che sa scrivere un album o cantare in un progetto strumentale corale mettendo in ogni cosa la sua forte personalità».
Dopo una tappa milanese il 28 ottobre all’ex Macello per il Dr. Martens Fest, dal 5 novembre Marta sarà in tour con date a Parigi, Lubiana, Torino, Bologna, Roma e ancora Milano. Delle sue nuove canzoni svela la genesi compositiva, confidando di adottare, a seconda dei casi, modalità diverse: «Suonicchio il pianoforte, ma sono abbastanza una capra. Adoro, però, i sintetizzatori, per cui molto spesso i miei pezzi – vedi Good Story – nascono da un lavoro di sound design che prende il via dalla registrazione di suoni che mi evocano un’atmosfera e che solo in un secondo momento intreccio dandogli una struttura. Dopodiché a volte mi capita anche di partire da una scrittura cantautorale più classica, per cui strimpello la chitarra e ci canto sopra una melodia: Stay, Two Halves e Marble Season sono nate così. Altre volte mi viene in mente una melodia e allora vado a cercarmi gli accordi per suonarmela».
Il processo può anche partire dalla voce, che è il cuore della sua musica. «Mi sono appassionata molto alla tecnica vocale e inizialmente è stata dura, perché ti sembra di dover cantare come non ti viene, con degli espedienti fisici che ti mettono in difficoltà. Ma pian piano, una volta che quegli espedienti li hai assimilati, ti aiutano a metterti profondamente in contatto con la tua voce, con il tuo timbro. Anche se sul timbro possiamo aprire una parentesi, perché a volte la stessa cantante ne rivela diversi, di timbri; guarda Aldous Harding, così brava a usare un’identità vocale differente a seconda delle canzoni, che il suo ultimo disco sembra cantato da più persone. Ad ogni modo, quel che volevo dire è che sono contenta di aver studiato tanto, perché ora mi sento a mio agio nell’utilizzare lo strumento vocale senza pensarci su. Mi registro da sola con un microfono e una scheda audio molto basic e in più, anche per farmi venire delle idee compositive, mi sono imparata due cose su Ableton e gioco spesso con una loop station che ho da una vita. I layers vocali e le armonizzazioni un po’ insolite, penso ai brani Selva e Snapdragon, sono nati proprio così, da un processo di registrazioni sovrapposte, per questo risultano un po’ più astratti».
In questo modo la cantautrice originaria di Abbiategrasso riesce a combinare tecniche e saperi accumulati in anni di studio della musica e una mentalità DIY volta alla spontaneità e alla scoperta. «Sarà che sono sempre stata pigra, ma nonostante il conservatorio non ho mai studiato il pianoforte, ed è un’eresia. La chitarra l’ho un po’ imparata da ragazzina, nella fase Nirvana, e durante gli studi di jazz, imbucandomi in qualche aula scolastica dove studiavano i chitarristi. Di fatto amo vivere in bilico tra conoscenza e non conoscenza: ho come l’idea che quest’ultima aiuti a conservare quel lato intuitivo della creatività che consente di assimilare un sacco di cose semplicemente sperimentando e inventando senza seguire canoni prestabiliti, nella convinzione che anche da un errore possa affiorare qualcosa di bello. Lo stesso vale per la produzione artistica, cui mi sono avvicinata in una maniera poco ortodossa, comprendendo presto quanto il fai-da-te possa farti sbagliare, ma anche ricavare da quegli sbagli qualcosa di personale».
La decisione di intitolare l’album Selva si lega alla volontà di sottolinearne la varietà, di dar voce all’eterogeneità di mondi che lo abitano. «Quando ho finito di registrare il disco e l’ho sentito, ho realizzato subito che avevo una raccolta di canzoni che non c’entravano niente l’una con l’altra: che bel giardinetto di piante strane, ciascuna a modo suo, mi sono detta. Per rappresentarlo avevo inizialmente pensato all’immagine della serra, della green-house, in inglese, ma poi mi è venuta in mente la parola selva, parola che ho infine deciso di usare anche per un insieme di echi letterari che mi piacciono, tra cui la poesia La pioggia nel pineto, in cui D’Annunzio ricorre all’aggettivo silvano per indicare ciò che è fatto della stessa essenza del bosco. Dopodiché mi sono chiesta se un titolo in italiano avesse senso ed è stato a quel punto che ho pensato di contestualizzare questa scelta scrivendo su una strumentale un testo nella nostra lingua e ricavandone la title track».
Diplomata al classico, Marta, che tra i suoi libri preferiti cita L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez, Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi, L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera e Opinioni di un clown di Heinrich Böll, ha scritto il testo in questione come una sorta di haiku: “pensieri tortuosi / s’intrecciano stretti / in forme mai viste / il cuore si perde”. Per il resto le sue liriche in inglese, un po’ come quelle della succitata Torrini, sono ricche di metafore che rimandano al mondo animale e vegetale. «Questo è un tratto della mia scrittura sin dall’inizio. Da un lato, perché la natura mi affascina; dall’altro, perché mi piace nascondermi dietro a quel tipo di metafore per dire in modo astratto e poetico ciò che non riesco a esprimere più esplicitamente. In Selva, dunque, parlo di piante e fiori per parlare di cose più personali, della mia vita, dei rapporti con gli altri, di sentimenti ed emozioni che ho provato in determinate circostanze. La sfida era di essere più diretta per aprirmi maggiormente al pubblico. Credo, almeno in parte, di esserci riuscita».
Per il momento l’idioma principale resta l’inglese («l’ho praticato come prima lingua per così tanto, vivendo all’estero, che mi viene più naturale»), in futuro chissà. Di certo, tenendo lo sguardo sui testi, colpisce quello dedicato a Mata Hari, nell’omonimo singolo. «Ho scoperto Mata Hari per merito di Cecilia Valagussa, con cui dal 2013 ho un progetto in Belgio che si chiama Fossick Project. È nato tutto per caso. Cecilia, che è illustratrice, doveva presentare un suo volume illustrato alla libreria Piola di Bruxelles e dato che non ama parlare in pubblico mi ha chiesto di andare con lei a cantare dei pezzi, in modo da proporre un evento carino e che lei potesse limitarsi a firmare le copie. Per l’occasione si era portata una lavagna luminosa con cui proiettava i suoi disegni mentre io tenevo il mio concerto in solo, in pratica una sonorizzazione di ciò che lei disegnava seguendo un canovaccio. La serata è piaciuta al punto che in seguito abbiamo iniziato a lavorare a degli spettacoli insieme, spettacoli che ormai sono diventati vere e proprie produzioni teatrali, benché con un carattere interdisciplinare e multimediale».
«Tra gli argomenti affrontati, la questione degli animali in via di estinzione, quella dei cambiamenti climatici, alla quale tengo molto e che spero si risolva senza ridurre tutto a uno slogan. O ancora, il tema della morte tramite la rivisitazione del mito di Gilgamesh, storia di un eroe che si mette alla ricerca dell’immortalità dopo la perdita di un caro amico e dalla quale sono emerse End of The World Pt. 2 e Good Story, due tracce di Selva. In tutto ciò Mata Hari, che mi è stata d’ispirazione anche per la canzone Eye of The Day, l’ho incontrata mettendo a punto uno di questi spettacoli che è ancora in fase di lavorazione: sono rimasta impressionata da questa ballerina che nei primi del Novecento portò nei salotti di Parigi le tradizioni di danza dell’Indonesia, che possono essere considerate una prima forma di ciò che oggi è il burlesque, qualcosa che per i tempi era davvero molto avanti. Ci ho visto una figura femminista e quella del femminismo è una questione per me molto importante».
Oggi come oggi femminismo può voler dire tante cose, Del Grandi ne è consapevole. Alle spalle anche un periodo vissuto in Nepal cercando di dare visibilità ad artisti da ogni parte del mondo con l’iniziativa Sofar Sounds Kathmandu e l’agenzia WASP – We All Should Play, la songwriter confida di non aver dato peso al tema della rappresentanza femminile nella musica «finché ho cominciato a sentir dire cose tipo “sembra che adesso possano suonare solo le donne”. Innanzitutto non è vero, in secondo luogo commenti di quel livello mi hanno messo davanti agli occhi quanto siamo ancora arretrati sotto questo profilo nella nostra società».
«C’è da dire che in passato avevo già trattato l’argomento senza pensarci troppo: nel primo disco, quello firmato Marta Rosa, c’è una traccia, I Don’t Wanna Marry, che non è una canzone per dire che non mi voglio sposare, tant’è che mi sono pure sposata, ma è un brano che si rifà alla vicenda dell’artista Pippa Bacca, vicenda che mi aveva scossa non solo per il dramma in sé, ma proprio per com’era stata riportata sui media, con molti che sostenevano che se era stata stuprata e assassinata era perché se l’era andata a cercare. Ma anche Amethyst, da Until We Fossilize, è una canzone che trae spunto dalla mitologia greca per narrare la storia di una ninfa che, pur di sfuggire a un destino che pare inevitabile e che la vorrebbe cedere alle sgradite avance del dio Dioniso, si fa trasformare in una pietra. Mi rendo conto che esporsi su certe istanze non è facile, ogni volta la velocità di comunicazione in cui siamo immersi può generare fraintendimenti ed effetti domino devastanti, ma è essenziale non smettere: le disuguaglianze di genere vanno superate».